I film italiani lasciano il segno a Berlino
di Fabrizio Simoncini
Quest’anno la Berlinale compiva sessant’anni e come sempre sa fare non ha deluso.
L’Orso d’Oro all’Internazionale Film Festival di Berlino è andato infatti un po’ a sorpresa al turco “Bal”, in italiano “Miele”, del regista Semih Kaplanoglu, film facente parte di una trilogia. E’ la storia di un bambino che, appena entrato alla scuola elementare incontra difficoltà nell’imparare a leggere e scrivere perché si ritrova rapito dalla sua fantasia, e nei suoi interessi, dalle quotidiane immersioni che compie, in compagnia del padre apicoltore, all’interno della foresta, luogo mitico e indecifrabile al contempo, che gli appare da un lato quasi materna e accogliente, dall’altro misteriosa e pericolosa. La forza delle immagini è prepotente e non ci lascia mai indifferenti. L’Orso d’Argento per la miglior regia è andato al film di Roman Polanski, “The Ghost Writer”. Il grande autore di cinema, fra tutti i suoi lungometraggi ricordiamo “Il pianista” e reduce dalle personali vicende giudiziarie, mette in campo un racconto cinematografico ad alta tensione incentrato su vicende politiche, intrighi, spionaggio che in uno degli attori principali sembra richiamare la figura di Tony Blair. Gran premio della giuria, Orso d’Argento per il rumeno “Eu cand vreau sa fluier, fluier”, in italiano “Se voglio fischiare, fischio” del regista Florin Serban, film ambientato in un riformatorio rumeno dove un giovane ragazzo si ritrova a fare conti con il desiderio di uscire il più velocemente possibile dalla detenzione per risolvere i suoi problemi con la madre, che detesta. Vuole infatti salvare il suo fratellino dalle di lei grinfie, ma tutto si complica in seguito all’amore, che gli scoppia tra le mani, per una giovane ragazza assistente in carcere. Infine i premi per la migliore attrice, Orso d’Argento: Shinobu Terajima nel film “Caterpillar”, e miglior attore, Orso d’Argento: (ex aequo) Grigoriy Dobrygin e Sergei Puskepalis per il russo “Kak ya provel etim letom”.
Sarebbe però interessante capire perché da due anni a questa parte non vi sia più un film italiano in concorso. Certamente lo stato attuale del nostro cinema, gettato in una cronica crisi di idee e di talenti salvo rare eccezioni, fa si che gli organizzatori del Festival siano poco propensi a inserire le pellicole tricolore nella sezione principale Wettbewerb (in concorso). Forse incide anche l’immagine che la politica italiana rimanda all’estero. Quando si è rappresentati dall’attuale Presidente del Consiglio, e dallo stomachevole stuolo dei suoi cortigiani, risulta difficile godere di prestigio internazionale e di attenzione. Non è lontano dal vero pensare che l’Italia venga assunta come luogo politico e sociale da cui prendere adeguate distanze. La drammatica condizione in cui versa la libertà di stampa e l’informazione nel nostro paese non passa inosservata: le elite intellettuali e politiche delle Democrazie europee probabilmente vedono nel nostro inesorabile declino un possibile virus che potrebbe contaminarle e da cui tenersi a debita distanza.
Resta comunque il fatto che, vuoi per alcuni film di spessore che sono stati presentati in sezioni collaterali vuoi per l’inesauribile fonte del nostro cinema neorealista alcuni dei cui mitici lungometraggi sono stati presentati nella sezione Retrospektive, abbiamo comunque saputo e potuto godere di bei momenti regalati dal cinema italiano.
Fra le nuove proposte in Panorama ha colpito il film di Ferzan Ozpetek “Mine vaganti” una commedia divertente che fa però di ogni risata un momento di riflessione. Ottimo Riccardo Scamarcio che, dopo aver subito il trauma di un attore di pari grado, per così dire, Elio Germano che l’aveva soverchiato in “Mio fratello è figlio unico”, si sta riprendendo alla grande snocciolando interpretazioni di livello, come nel recente e impegnato “La prima linea”. Nel dipanarsi della storia prendono amabilmente vita gli equivoci di una famiglia borghese, rispecchiante in se stessa tutte le contraddizioni di una società che non sa più riconoscersi in quelle tradizioni, ormai in aperto contrasto con il cambiare burrascoso e inesorabile dei costumi, degli stili di vita che la borghesia stessa, con la mercificazione di ogni aspetto materiale e spirituale della vita moderna, ha contribuito a soppiantare. Quando nel bel mezzo del suo seno questi contrasti esploderanno in tutto il loro fragore, apparirà chiaro che, solo abbattendo le ipocrisie e i pregiudizi che la innervano, la famiglia potrà ritrovare una serenità perduta e autentica. Quantunque il finale del film lasci trasparire una ineludibile, e in fondo inconciliabile, sintesi degli opposti, specie sembra infatti dirci Ozpetek quando si ha a che fare con i sentimenti. Sentimenti che nell’epoca in cui tutto è apparentemente possibile non possono che condurre a un equilibrio il più delle volte instabile e con il quale bisogna imparare a convivere.
Emozionante è stato rivedere sul grande schermo “Salvatore Giuliano” il capolavoro di Francesco Rosi. In bianco e nero rivivono le trame, gli intrecci di politica e mafia che da decenni ormai fanno della Sicilia un non luogo democratico. La strage di Portella della Ginestra e le lotte dei contadini siciliani per strappare la terra ai latifondisti, fanno da sfondo all’avventurosa vita del bandito Giuliano. Riesce così Rosi a dipingere un affresco insuperabile di una Sicilia che non ha cambiato di molto i rapporti di forza che ancora la dominano e la opprimono.
Sempre nella stessa sezione Retrospektive abbiamo ammirato “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica. Il film è tratto da uno dei più bei romanzi del dopoguerra, scritto da Giorgio Bassani. La pellicola non tradisce le aspettative di chi ha letto il libro. In una Ferrara degli anni ’40, quasi da cartolina, va in scena la tragedia di due famiglie ebree che si ritrovano improvvisamente invischiate tra le maglie delle leggi razziali varate dal regime fascista. Accanto alla violenza della emarginazione, e poi della deportazione, affiorano le contraddizioni degli amori dei fratelli Finzi Contini con il protagonista. Una storia delicata e struggente che mostra in un sol colpo la fine di un’epoca e di una generazione, condannata dalla guerra a vivere la propria giovinezza tra dolore, paura e desiderio di riscatto.
Altra bella sorpresa il lungometraggio di Silvio Soldini “Cosa voglio di più” presentato fuori concorso nella sezione Berlinale Special. Interpretato dai bravissimi attori Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino, il film racconta di una improvvisa e travolgente storia d’amore che scoppia tra i due, la cui virulenza metterà in crisi le rispettive vite, fatte di banali routine l’una e di famiglia e figli l’altra. Il tradimento innesca un vortice di sensi di colpa, paure, bugie con i rispettivi partner, che invece di indurli a desistere altro non fa che accenderlo, alimentando con sempre più violenza, quel desiderio fisico che li farà dipendere l’uno dall’altro destrutturandoli dall’interno.
Molto applaudito in sala anche “Due vite per caso” del regista Alessandro Aronadio presentato in Panorama. Film che mette in luce come un banale contrattempo, nel caso un tamponamento a un’auto della Polizia, può cambiare la vita di una persona trascinandola in un tunnel di violenza e disperazione, aprendo anche una finestra sulle tristemente famose giornate del G8 di Genova del 2001. A confronto su un binario parallelo le due vite del protagonista, il bravo Ivano De Matteo, nell’un caso il tamponamento avvenuto e nell’altro il non verificarsi dell’incidente. Come ha detto il regista in un’intervista va in scena “il doppio, che al pari dell’amore, è un tema universale. Tutti conviviamo con un nostro alter ego dalla natura contrapposta: a volte riusciamo a tenerlo a bada, in altri casi è lui che prende il sopravvento.”
Infine vincitore di una sezione collaterale di Forum il bel documentario di Pietro Marcello “La bocca del lupo” già trionfatore al Festival di Torino, girato interamente a Genova, con venature e sapori echeggianti il grande cantautore Fabrizio De Andrè. E’ il racconto di una storia d’amore che scoppia in carcere tra il pluricondannato Enzo, emigrato dalla Sicilia, e la transessuale Mary, sapientemente ambientato in una Genova sconosciuta quasi favolosa, dalle atmosfere malinconiche e fascinose al contempo. Merito del regista. E merito a tutti quei connazionali, registi e attori ma non solo, che nonostante tutto hanno tenuto alto il nome glorioso del cinema italiano.