Diario del Festivafilosofia 2007 sul “Sapere” – parte quarta
di Giorgio Morgione
Appunti liberi di Lezioni Magistrali
Parte Quarta
Emanuele Severino: Le forme del sapere
Carpi, piazza Garibaldi, Domenica 16 Settembre 2007
Inquadriamo generalmente il sapere come sapere scientifico, religioso, filosofico, e quest’ultimo tipo di sapere ci appare sempre come quello più nell’ombra. Ciononostante, nel rapporto tra filosofia e scienza avviene che la prima non soltanto stabilisce le categorie di fondo della seconda, ma anche quelle di tutto l’Occidente. Il complesso insieme di ciò che l’Occidente ha voluto e vorrà, tutto quello che ha fatto e farà è stato fondato dal sapere filosofico. Se non sappiamo il significato della parola Nulla, non comprendiamo neppure il Cristianesimo quando afferma la creazione ex nihilo, e il concetto di Nulla non è un’invenzione del Cristianesimo, bensì della filosofia. Il Rinascimento, l’Illuminismo, il Romanticismo, nessuno di essi sarebbe esistito se non vi fosse stata prima di tutto una struttura filosofica, un sapere filosofico.
Il concetto di sapere stesso si fa oggetto della riflessione filosofica, per scoprire che esso non è tanto sophia, quanto qualcosa che rimanda alle parole sapore e luce. Quando diciamo che il sapere ha a che fare col sapore (da sapio, che è dalla antica radice europea sap), possiamo pensare a qualcosa che si raggiunge con le labbra: così il sapere è come un assaporare. E’quel che emerge da un certo sforzo della glottologia ed è ciò che in prima istanza svela il nostro linguaggio, il quale preserva nella forma più antica del termine sapere la parola labbra. Il sapere dunque come qualcosa che è portato alle labbra, come ciò che ci perviene assaporando.
Tradurre la parola filosofia con “amore del sapere” è un’operazione melensa, fiacca, persino volgare. Anche qui, ancora una volta, le origini del linguaggio ci conducono a relazioni inaspettate, poiché sophia è un’antica sostantivizzazione dell’aggettivo saphes, che ha significato di chiarezza, di luminosità. Scopriamo allora che l’oggetto del sapere è qualcosa che viene portato alle labbra nel preciso istante in cui è rischiarato dalla luce. Azioni come il portare alle labbra e l’osservare una casa illuminata dal sole hanno un’essenzialità comune che ritroviamo nella parola ginomai, che vuol dire ciò che è dovuto (mediante un atto di potenza), e che nei riguardi del significato di sapere si traduce in ciò che è potenziato dalla luce nell’assaporare l’oggetto. Questi dunque i principi alla base della stretta relazione tra la parola sapere ed i concetti di sapore, luce e potenza.
Diogene Laerzio scrive che per Socrate l’unico bene è l’episteme. Per episteme noi intendiamo volgarmente scienza, ma al fondo questo termine vuol dire stare sopra (epi = su + steme = stare). Tutto ciò per il sapere significa possedere il carattere di ciò che si impone nella sua fermezza dall’alto, ovvero quel che illumina e che non si lascia cambiare da nulla di quel che esso illumina. Siamo abituati a misurare la verità, noi diciamo che qualcosa è più o meno vero perché così è per la società, perché siamo individui biopsichici, siamo esseri istituzionali o più semplicemente non abbiamo il coraggio di sostenere e difendere quel che appare soltanto a noi come verità, sopraffatti dal timore di una punizione.
Se volessimo dare uno sguardo all’evoluzione del sapere, di certo il mito figurerebbe come sua prima espressione. Il sapere come mito è prodotto sotto l’influsso di molteplici espressioni del reale: la società, la religione, persino la fisica (l’uomo, per esempio, non può volare e sul desiderio che un giorno possa riuscirci ha elaborato miti su miti). Dopo il mito è giunta la filosofia, quel sapere che nega, che si afferma per la prima volta come negazione del mito. La filosofia è quel tipo di sapere che, a differenza del mito, sa tenersi fermo sull’episteme, mantiene il proprio sguardo su ciò che appare stante. L’episteme, questa episteme che vuole affermare un sapere immutabile, che vorrebbe stare sopra ogni cosa e tutto illuminare, va dunque distinta dalla scienza. Noi oggi potremmo credere al prodigio di una scienza che ci promette un’immortalità infotecnomatematica, ma se la scienza, come ha sempre dimostrato, resta un sapere ipotetico (non stabile), allora le sue stesse promesse continueranno ad avere il carattere del mito e della fede. L’immortalità promessa dalla scienza, come quella del Cristianesimo (dio ci darà l’immortalità), è fuori dalla luce, e così nell’ombra mantiene il suo carattere di incertezza, di ipoteticità. L’essenza della scienza e del Cristianesimo è esattamente il non-stante, cosicché essi non possono percorrere i sentieri dell’episteme nel senso sopra detto. Al contrario di essi l’episteme appare come ciò che sta e che non può essere smentito: questo almeno intendevano gli antichi.
Qualunque astronomia non può essere se non si manifesta, se non appare il cielo, dove l’astronomia rappresenta la scienza e il cielo quel che sta (l’apertura, il dispiegamento del cielo). Ma cos’è lo stante? Esso, paradossalmente, è ciò che nel medesimo istante ci è più prossimo e più indefinitamente lontano. L’episteme, nel suo apparire come ciò che sta, è il nostro primo occhio verso lo stante, ciò che ci indirizza ad esso. Heidegger parla di originale disvelamento, giusto, ma si ferma a questo, senza entrare nel merito di ciò verso cui questo disvelamento (alhJinoV) guarda, ovvero non ci dice nulla di quel che è stante sotto la luce dell’apparire. Echilo diceva che il dolore che rende folli deve essere cacciato dalla mente con verità, in altre parole, bisogna imparare a guardare unicamente a tutte le cose che autenticamente stanno e che non si lasciano smentire, tenendo lontane quelle fugaci e caduche, che gettano l’uomo nella amaJia, ovvero in tutto ciò che non è frutto di una ricerca e che pertanto non ha il carattere dello stante. Quello che si afferma in Eschilo è un concetto articolato di pathos, il quale, oltre a quello di faticoso dolore, esprime un significato di sapere ottenuto mediante scrupolosa ricerca. Si può giungere così ad affermare che noi impariamo soffrendo, con dolore. Questo volto a tratti drammatico della vicenda umana mostra come il sapere sia strettamente connesso al concetto di potenza: per liberarsi dalle vaghezze dell’amaJia è necessario così un atto di potenza che chiami a sé la verità verso cui ci guida l’episteme. Ma tutto questo, sebbene rappresenti un primo passo verso la meta, non è ancora in grado di evocare il significato autentico di ciò che sta. Né la filosofia, la religione o la scienza hanno saputo finora indicarlo pienamente.
La tecnica, che non vuole avere limiti, deve avere la certezza che qualunque limite non può rappresentare un ostacolo reale al suo avanzamento. I limiti che possono apparire sull’orizzonte del cammino della tecnica sono quelli della tradizione, nient’altro che le colonne sedimentate dell’episteme, dell’etica sociale, della religione, della cultura politica dei governi. Tali realtà vorrebbero dire alla tecnica che deve arrestarsi ad un certo punto. Se dio è morto, per lui e dopo di lui restano comunque in campo forze contrapposte che stabiliscono delle gerarchie. La tecnica, dal suo canto, si muove da sempre come se dio non fosse mai esistito.
Il cattolicesimo considera la filosofia degli ultimi secoli semplice relativismo. Ma come è possibile che il sapere filosofico, dopo 2500 anni di attività, si limiti a dire che una verità non esiste, che un eterno che non sia dio non esiste?
Zarathustra afferma di possedere la capacità di creare proprio perché dio non esiste: Zarathustra crea soltanto se dio non è, poiché dove è dio è colui che riempie ogni spazio ed ogni tempo e sottrae agli altri esseri qualunque possibilità di creare. L’affermazione “dio è morto” legittima oltremisura l’essenza della tecnica, la pone più che mai in condizione di sapere che per essa non esistono limiti: l’illimitatezza della tecnica si dipana in un nuovo slancio offertole dal grido della morte di dio.
E’qui che l’uomo giunge ad un bivio: 1) affidarsi ai fondamenti della tradizione che promettono di arginare il dominio della tecnica, oppure 2) lasciare che la tecnica faccia quello che sa fare, cioè incrementare illimitatamente la sua potenza. Sembrerebbe non esserci altra via d’uscita. Ma se solo noi riuscissimo a porci faccia a faccia con lo stante, se ognuno cercasse in se stesso quell’essere al di sopra di dio e di qualunque dio che sia stato mai pensato. Lo stante abita già in noi e non è dio, né la tecnica, né qualunque falsa espressione dell’episteme che può essere smentita. Saremmo come frecce lanciate contro il bersaglio, ma che prima di raggiungerlo tornano a colpire loro stesse. Così facendo esse negano la loro stessa negazione rappresentata dal bersaglio, dicono un no al no per affermare lo stante. Questo è il nostro destino (de-stino, de-stare) la testimonianza del nostro essere da sempre facies ad faciem con la nostra natura più profonda, così nascosta e così potenzialmente disvelata. Non c’è via che possa condurre alla verità, essa non può essere raggiunta poiché abita già in noi. Noi crediamo di essere mortali, caduchi, imperfetti; dio avvertì l’uomo di non mangiare il frutto dell’eternità, dio ebbe paura che la sua creatura divenisse immortale. Ma allora che dio è mai questo? Noi siamo eterni senza alcun dio e al di sopra di qualunque dio. La freccia nega la propria direzione, nega il bersaglio per affermare se stessa.
Emanule Severino (Brescia, 1929), filosofo italiano. Laureatosi con Gustavo Bontadini nel 1950 con una tesi su Heidegger e la metafisica, l’anno successivo è libero docente di Filosofia teoretica. Nel 1962 diviene ordinario di Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano e dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Si è occupato a fondo del rapporto tra la Filosofia antica, il Nichilismo moderno e contemporaneo e il progresso della tecnica. Attraverso un’analisi del pensiero greco, in particolare di Parmenide e Platone, passando per Nietzsche ed Heidegger, Severino ha rintracciato nella fede nel divenire i fondamenti del pensiero occidentale. La tecnica è la concretizzazione più potente e verace di tale fede, di fronte alla quale l’uomo è chiamato a ripensare il proprio destino.
Tra le sue opere: Note sul problematicismo italiano (1950); La struttura originaria (1957); Studi di filosofia della prassi (1962); Essenza del nichilismo (1972); Gli abitatori del tempo (1978); Legge e caso (1979); Techne. Le radici della violenza (1979); Destino della necessità (1980); A Cesare e a Dio (1983); La filosofia antica (1985); La filosofia moderna (1985); Il parricidio mancato (1985); La filosofia contemporanea (1988); Il giogo (1989); La filosofia futura (1989); Alle origini della ragione: Eschilo (1989); Antologia filosofica (1989); Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi (1990); La guerra (1992); Oltre il linguaggio, (1992); Tautotes, (l995); La filosofia dai Greci al nostro tempo (1996); La follia dell’angelo (1997); Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi (1998); Il destino della tecnica (1998); La buona fede (1999); L’anello del ritorno (1999); Crisi della tradizione occidentale (1999); La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell’esistenza (2000); Il mio scontro con la Chiesa (2001); La Gloria (2001); Oltre l’uomo e oltre Dio (2002); Lezioni sulla politica (2002); Tecnica e architettura (2003); Dall’Islam a Prometeo (2003); Fondamento della contraddizione (2005); Nascere, e altri problemi della coscienza religiosa (2005); La natura dell’embrione (2005); Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica (2006); Oltrepassare (2007).