Diario del Festivafilosofia 2007 sul “Sapere” – parte seconda
di Giorgio Morgione
Appunti liberi di Lezioni Magistrali
Parte Seconda
Stefano Rodotà: Il sapere come bene comune.
Accesso alla conoscenza e logica di mercato
Carpi, piazza Garibaldi, Sabato 15 Settembre 2007
Per iniziare una riflessione sul “sapere come bene comune” possiamo fare un salto indietro di 160 anni, quando Alexis de Tocqueville in un suo scritto affermava che la lotta politica, presto, sarà tra chi ha e chi non ha. Tocqueville ha avuto certamente ragione, ma come dobbiamo coniugare la sua affermazione nel nostro tempo, quale può essere insomma il senso di riproporre queste parole oggi? Quella che stiamo vivendo, dice Rodotà, è una società della conoscenza. In essa, come un’epidemia, la questione della proprietà ha raggiunto ogni luogo, seminandovi il disagio. La proprietà non ha mai cessato di alimentare quella lotta che Tocqueville aveva preannunciato. Ma il bene per il quale oggi si lotta è diverso da quello a cui pensava Tocqueville. Quello era un bene scarso e quella sua stessa scarsità era il seme che generava il conflitto. Il bene di cui parliamo oggi è invece abbondante, addirittura illimitato, come può essere illimitato il sapere in internet. Ma allora -ci si domanda- come può un bene illimitato generare contese? La risposta sta nel fatto che il sapere di oggi è un bene solo apparentemente illimitato, mentre di fatto esso accusa un enorme problema di chiusura. Immaginiamo una immensa distesa di terra e diciamo che è il sapere. Chi volesse attraversarla si accorgerebbe subito che non può farlo per via dei numerosi recinti che la dividono e ne impediscono uno sguardo d’insieme. A pensarci, quest’immagine somiglia molto a quella dei “muretti a secco” che una volta dividevano le campagne del nostro Meridione. La verità è che quella del sapere è divenuta una partita che investe la libertà e i diritti, continua Rodotà, valori che, anche nell’amplissimo mondo della rete, sottostanno ad esercizi di chiusura.
Il rapporto tra individuo e cultura, ossia la comunicazione della cultura, ha subìto profonde trasformazioni a seguito dell’evoluzione tecnica. Per fare soltanto due esempi, in campo musicale la scoperta della registrazione audio ha senz’altro ampliato il nostro spettro cognitivo, e lo stesso è accaduto nell’uso del testo con la scoperta della fotocopiatura. Cambia insomma la natura della conoscenza. Basti pensare ai motori di ricerca, alle enciclopedie virtuali, ai contenitori multimediali come You Tube o all’ancora più recente demiurgo dell’arter ego Second Life. Ognuno con internet può essere un produttore di sapere e tutto farebbe pensare che siamo finalmente giunti nell’era del sapere disponibile e del sapere non proibito. Certo, l’approssimarsi al sapere è oggi più rapido, più ricco di stimoli, ma la pratica della censura esiste ugualmente, anche se in forme differenti rispetto a ieri. Pensiamo alla censura del governo cinese sui canali informativi telematici e al colosso del web Yahoo che ha offerto aiuto allo stesso governo per individuare e catturare coloro che immettevano nella rete informazioni “sgradite”. Vi è dunque un sapere libero e un sapere controllato e ciò equivale a dire che esiste un sapere di pochi e un sapere di molti. L’ignoranza in fondo è sempre stata uno strumento di governo: è questa una verità che nel tempo ha cambiato la forma, ma non l’essenza, e la coscienza collettiva è rimasta per lo più soggiacente a questa logica, senza accorgersi della sua desolante aberrazione. In un sonetto di Gioacchino Belli si raccomanda la gioventù di tenersi alla larga dai libri, perché quel che è scritto nei libri è il peggior nemico della comunità. Anche in Lev Tolstoj, ne La sonata a Kreutzer, troviamo qualcosa di simile, quando ad un certo punto si afferma che le donne non dovrebbero leggere.
E’ vero, il cattivo esercizio del potere pubblico è una delle principali cause delle limitazioni dell’accesso alla conoscenza, ma non si tratta soltanto di questo, poiché è altrettanto vero che la possibilità di accedere a maggiori risorse di sapere dipende dall’acquisizione di competenze da parte dell’individuo. Detto con una formula apparentemente paradossale, un certo grado di conoscenza si acquisisce soltanto se si conosce, ossia la possibilità di accedere ad una quantità maggiore di risorse di sapere è direttamentente proporzionale all’abilità che l’individuo possiede nel saperne fruire. Se prendiamo l’esempio di internet la formula si fa più chiara. Quando chiediamo informazioni ad un motore di ricerca, questo in pochi millesimi di secondi è in grado di fornirci centinaia di migliaia di canali informativi. Se, dal nostro canto, siamo in grado di selezionare le informazioni più veritiere, ciò è dovuto unicamente alle nostre conoscenze pregresse. Eppure tutta l’enorme quantità di sapere falso o manipolato che circola nella rete raggiunge molti di noi e li dirotta dove è suo desiderio. E questo dirottare la nostra attenzione su un sapere “di serie B” come potrebbe essere definito? Non è forse anch’esso una forma di limitazione dell’accesso al sapere? Noi potremmo andare a cercare tutte le informazioni che vogliamo, ma qualcuno cerca di deviare le nostre traiettorie, di intervenire sulle nostre decisioni.
Quel che in tutto questo manca è il più elementare principio di eguaglianza, che può tradursi nell’insegnamento illuministico a pensare e vivere il sapere come un bene accessibile a tutti. In passato vi sono state idee a favore di un uso pubblico ed illimitato di beni relativi al sapere e al diritto di cominicare col prossimo. Probabilmente tali idee dovrebbero essere sottoposte ad un severo scrutinio sociologico, se volessimo farle valere nel nostro tempo, ma è certo che in qualche modo potrebbero contribuire al cambiamento dello stato attuale delle cose. Forse in un giorno non molto lontano internet diverrà un canale gratuito per chiunque, ma non è così che avremo risolto il problema dell’accesso al sapere, poiché quando avremo libero accesso alla rete, nella rete avremo ancor meno accesso a tutte le informazioni. Se volessimo utilizzare una metafora, allora diremmo che noi tutti, un giorno, riceveremo la chiave per entrare in una stanza, ma poi, quando varcheremo la porta, ci accorgeremo che la stanza è vuota.
Wikipedia, come molti di noi già sanno, è un’enciclopedia del sapere on-line. Wikipedia ha scardinato l’idea del grande contenitore d’autore (come era in origine, nella mente di Diderot e D’Alembert) trasformandolo in un prodotto del sapere collettivo, oltre che nel più grande bacino di informazioni mai esistito. A chi venisse domandato cosa pensa di Wikipedia, quasi certamente risponderebbe che si tratta di un canale d’accesso libero al sapere, e forse aggiungerebbe che è proprio il canale più libero in assoluto. Ma è venuto fuori che persino in Wikipedia alcune informazioni sono state modificate arbitrariamente, e precisamente da qualcuno che ha trovato nei loro contenuti ostacoli per i suoi affari… Non è questa una guerra?
Prendiamo la ricerca farmacologia. Si tratta di altro quadrante del sapere sul quale cade la scure della censura, e se teniamo conto di quanto detto finora non potrebbe essere altrimenti. Infatti, cosa sono in ultima analisi i farmaci se non merce che incorpora sapere, sapere che, in questo caso, si fa utile per migliorare la salute della persona (diritto fondamentale dell’individuo)? Ebbene anche le medicine, dice Rodotà, rappresentano uno dei campi di battaglia moderni preconizzati da Tocqueville. Con quale termine possiamo definire, se non con la parola guerra, il fatto che case farmaceutiche brasiliane, sudafricane e indiane abbiano cominciato a produrre medicinali in violazione del brevetto internazionale, per salvaguardare la sopravvivenza delle loro popolazioni?
La Costituzione italiana, ritenuta una delle migliori Costituzioni al mondo e per la quale di recente è sembrato così scontato poterla trattare come un vecchio trabiccolo da rottamare, preserva ancora principi di straordinaria saggezza politica. Uno di questi è l’articolo 3, nel cui secondo comma si afferma l’obbligo della Repubblica di rimuovere ogni ostacolo che impedisca la libera formazione della personalità. Qui si ricollega precisamente il problema dell’accesso al sapere, in quanto in esso è in gioco non soltanto l’eguaglianza delle opportunità, ma anche l’eguaglianza dei risultati. Per usare un’immagine che appartinene al nostro passato, possiamo dire che vietare l’accesso al sapere non è molto diverso dal reintrodurre la cittadinanza censitaria (da cènsus, censère, dove il valore del cittadino era stabilito dalla valutazione dei suoi beni).
Dal quadro descritto fin qui i tempi per una riconquista della libertà d’accesso al sapere –ammesso che sia mai esistita per davvero- sembrerebbero già maturi. Un primo strumento di contrasto andrebbe cercato nella formazione di un pensiero critico liberale (libero nel senso di non essere espressione d’intelligenze schierate) con cui iniziare a renderci consapevoli che la limitazione dell’accesso al sapere non è più rappresentata da strumenti tradizionali quali i diritti d’autore e di brevetto (la fatturazione dei servizi non può più funzionare). Negli ultimi tempi, specie negli Stati Uniti, si sta diffondendo una pratica nuova nella diffusione del sapere. Prendiamo ad esempio l’editoria: qualcuno scrive un libro e dà a tutti l’opportunità di scaricarlo dalla rete. Così egli diventa famoso e comincia ad essere invitato ad incontri, presentazioni e conferenze, col risultato di guadagnare -certo anche in termini di denaro- molto più di quanto avrebbe potuto se avesse protetto l’opera con i tradizionali diritti d’autore. Si tratta di un meccanismo che in certi paesi come gli Stati Uniti permette ad un oratore noto di guadagnare per una conferenza diverse migliaia di dollari. Questo dimostra come le vecchie regole di divieto d’accesso al sapere possono essere sconfitte dalla stessa economia, la quale, accortasi di non poterle più ingaggiare come strumento di profitto, le ha progressivamente abbandonate. Ecco allora che la Ricchezza delle nazioni di Smith si trasforma in una “Ricchezza della rete”, prodotta non più soltanto mentendo in pratica le vecchie logiche dell’economia.
Certo, la realtà nel suo complesso ci dimostra che gli interessi del capitale contemporaneo hanno soltanto un abito diverso e che nella loro essenza non sono cambiati rispetto a quelli che innervano il capitale visto da Smith duecento e più anni or sono. Eppure la società della conoscenza, continua Rodotà, è qualcosa di più di questo. Essa è certamente un insieme di individui le cui scelte il capitale cerca di orientare, ma è al contempo una comunità che può istruirsi all’uso del sapere, che può aprire gli accessi alla conoscenza che qualcuno oggi vuole mantenere chiusi, che può sottrarsi all’esercizio dis-umano del potere e delle moderne logiche di profitto. Tutto questo può avvenire se si coltiva una responsabilità politica del sapere e se si pongono le basi per garantire un sapere sociale, un sapere dell’altro. E’ qui che troviamo un secondo strumento di contrasto, precisamente nel sostegno allo sviluppo della scuola pubblica, cioè all’istituzione maggiormente deputata alla formazione del sapere sociale. E’ infatti nella scuola pubblica che posso incontrare il “diverso”: il diverso nella condizione economica, il diverso nella cultura di origine, il diverso nel riferimento ad un’area politica, ecc. Partire dalla scuola pubblica può essere l’inizio di una riaffermazione dei luoghi del sapere sociale contro le forze che intendono limitarne l’accesso, i luoghi a partire dai quali ognuno può esporsi liberamente al gigantesco flusso della conoscenza e dell’informazione.
Stefano Rodotà (Cosenza 1933). Giurista e politologo italiano. Professore di Diritto civile e direttore del Master di secondo livello in “Diritti della persona e nuove tecnologie” presso l’Università La Sapienza di Roma. Deputato nelle legislature dal 1979 al 1992, durante le quali è stato membro delle Commissioni Affari Costituzionali, Affari della Presidenza del Consiglio, Affari Interni e della Commissione bicamerale. Tra il 1997 e il 2005 è stato Presidente dell’”Autorità garante per la protezione dei dati personali” e del “Gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza” dell’Unione Europea. Si è ampiamente occupato del rapporto tra giurisprudenza e nuove tecnologie. Tra le sue opere: Tecnologie e diritti (1995); Repertorio di fine secolo (1999); La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (2006); Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile (2007).