Il funzionario del capitale e la signora nello specchio
di Gianmarco Oro
1. Introduzione
Durante la campagna elettorale del 2024, Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di porre al centro della propria agenda politica un’attenzione particolare al crescente deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, che nel 2022 ha raggiunto i 943 miliardi di dollari.
Già durante la sua prima amministrazione, Trump aveva adottato una serie di misure protezionistiche volte a ridurre il disavanzo commerciale con la Cina, imponendo nel gennaio 2018 dazi compresi tra il 30% e il 50% sui pannelli solari e, da marzo, del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Tali misure – non revocate dall’amministrazione Biden – rappresentano il precedente su cui Trump ha inteso proseguire la guerra commerciale avviata con la Cina nel 2018, ma per estenderla ora a tutti i paesi con un surplus commerciale significativo nei confronti degli Stati Uniti, in particolare all’Unione Europea che nel 2024 ha registrato un saldo positivo verso gli USA pari a 48 miliardi di euro (Eurostat, cfr. Parlamento Europeo, 2025). Pertanto, dal 2 aprile 2025, gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 20% sulle importazioni dall’UE di acciaio, alluminio e prodotti contenenti questi materiali, tra cui macchinari, automobili, attrezzature per il fitness, elettrodomestici, dispositivi elettronici e articoli per l’arredamento.
In risposta, l’UE prevede di reagire adottando una strategia articolata che comprenderà sia azioni diplomatiche, come ricorsi presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, sia misure ritorsive come l’introduzione di dazi su specifici prodotti statunitensi, quali acciaio, alluminio, prodotti tessili, elettrodomestici e utensili per la casa, plastiche, prodotti in legno e prodotti agricoli come pollame, bovini, pesce, latticini, zucchero e ortaggi (cfr. Commissione Europea, 2025). Ai dazi, contro-dazi: ritorsioni, ripicche. A che pro?
2. La natura dei dazi doganali e gli effetti di breve periodo
Per comprendere il significato dei dazi sulle importazioni, è innanzitutto necessario definirne la natura. Un dazio è un’imposta che può, come in questo caso, essere applicata al valore del bene importato. La misura porta con sé un duplice obiettivo: da un lato, serve a proteggere determinati settori industriali nazionali, per far fronte alla caduta dell’occupazione e al disavanzo della bilancia commerciale; dall’altro, è utile per generare entrate fiscali per il governo che la introduce.
Applicando una aliquota doganale del 20% sull’acciaio europeo e sui prodotti composti da esso (come le automobili), Trump intende incrementarne artificialmente il prezzo che viene fronteggiato da consumatori e produttori statunitensi. In questo modo, gli operatori economici negli Stati Uniti dovrebbero trovare più conveniente, a parità di prezzo dei beni europei, sostituire le importazioni con proprie produzioni nazionali.
Tale meccanismo, tuttavia, può generare benefici in termini di occupazione e bilancia commerciale solo se la domanda dei prodotti coinvolti è altamente elastica, vale a dire se le importazioni possono diminuire almeno proporzionalmente all’aumento del loro prezzo. Nel caso invece che la produzione domestica riesca a compensare la riduzione delle importazioni e la domanda di beni esteri risulti rigida – come accade, ad esempio, per le materie prime energetiche quando il territorio nazionale ne è privo – l’introduzione dei dazi doganali non sortisce alcun beneficio, bensì innesca esclusivamente un aumento dei prezzi dei beni nazionali. Secondo un recente studio della SVIMEZ (2025), basato sui coefficienti di elasticità stimati dal National Board of Trade Sweden (cfr. Nordgen et al., 2024), proprio questo potrebbe essere l’effetto reale dei dazi di Trump sui prodotti europei interessati. Nello specifico, un dazio del 20% comporterebbe una riduzione dell’export italiano dell’8,6%, corrispondente ad un incremento di pari entità della produzione domestica statunitense ma accompagnato da una pressione inflazionistica.
Arriviamo così al nodo centrale della questione: se l’effetto sulla domanda aggregata risultasse negativo o, nel migliore dei casi, neutrale, e quello sui prezzi invece inflazionistico, i principali soggetti a subire le conseguenze dei dazi sarebbero i lavoratori, sia statunitensi che europei. Da un lato, i posti di lavoro creati grazie alla protezione della produzione nazionale potrebbero non compensare quelli persi nei settori penalizzati dall’aumento dei costi di produzione, mentre l’incertezza nei mercati internazionali rischierebbe di scoraggiare nuovi investimenti. Dall’altro, i dazi sugli input intermedi comporterebbero un incremento dei costi lungo l’intera filiera industriale a valle fino ad incidere sui prezzi dei beni di consumo, determinando una conseguente erosione del potere d’acquisto dei salari e un peggioramento della distribuzione del reddito.
In altre parole, fatta eccezione per i governi, i quali beneficerebbero di un sostanziale aumento del gettito fiscale per i dazi introdotti, l’unico soggetto in grado di ottenere il miglior risultato dalla guerra commerciale sarebbe una ristretta nicchia di industriali attivi nei settori protetti dai dazi che, al riparo dalla concorrenza estera, vedrebbero rafforzare il loro grado di monopolio con conseguente espansione dei margini di profitto anche in presenza di una contrazione delle vendite.
3. Sulle intenzioni di Trump
Delineato un quadro alquanto stilizzato della complessa ed incerta situazione innescata dai dazi imposti dagli USA, è opportuno riflettere sugli obiettivi politici che Trump intende perseguire attraverso la sua guerra commerciale.
Durante la sua ultima campagna elettorale, Trump ha affermato a più riprese che “l’Europa ci ha trattato male”. Questo elemento è essenziale per comprendere il contesto della guerra commerciale: gli Stati Uniti non si percepiscono come aggressori, ma come parte lesa che reagisce ad uno squilibrio nei rapporti commerciali considerato intenzionale ed ingiusto. Da cosa nasce questa percezione?
Il nodo cruciale è che, a seguito della contrazione della domanda interna europea degli ultimi decenni – determinata prima dalla deflazione salariale (attraverso le riforme Harz in Germania, il Jobs Act e la riforma Fornero in Italia, la riforma del mercato del lavoro in Spagna e i programmi della Troika in Grecia) e poi dalle politiche di austerità (il cosiddetto fiscal compact) – unita alla svalutazione periodica dell’euro (passato da 1,5 dollari nel 2011 ad 1 dollaro nel 2024), l’Eurozona ha progressivamente aumentato il proprio surplus commerciale nei confronti degli USA. La caduta della domanda ha portato con sé l’abbassamento delle importazioni, mentre la caduta dei salari e del rapporto di cambio ha aumentato la competitività delle esportazioni fuori dall’Eurozona.
Di fatto, a partire dal 2012, gli Stati Uniti hanno finanziato il surplus europeo con un crescente disavanzo commerciale, che è stato accompagnato da fenomeni di deindustrializzazione e disoccupazione, come conseguenza del fatto che l’Eurozona ha attuato una svalutazione interna ed esterna che, attraverso la compressione del costo del lavoro e del rapporto dollaro-euro, ha abbassato i prezzi dei prodotti europei sul mercato americano.
Trump si può così configurare come un diligente funzionario del capitale statunitense. Non deve sorprendere, dunque, che stia adottando politiche estremamente difensive nei confronti dell’industria americana e dell’egemonia globale del dollaro, anche a costo di danneggiare quella stessa fascia di elettori che lo ha portato alla presidenza, ovvero la classe media statunitense che vive soprattutto di stipendi, mentre gli operai, che vivono di salario, potrebbero esserne avvantaggiati.
L’obiettivo di Trump con questa guerra commerciale sembra essere quello di riportare i capitali negli Stati Uniti oppure, in alternativa – che ai suoi fini politici è un risultato equivalente – vincolare le imprese straniere ad investire in impianti produttivi sul suolo statunitense. Il messaggio implicito sarebbe che le multinazionali non possono sfruttare contemporaneamente un accesso privilegiato all’enorme e florido mercato americano e i bassi costi di produzione garantiti dagli arbitraggi salariali globali. I dazi rappresentano pertanto quel deterrente economico da cui far partire le trattative bilaterali con gli altri paesi per negoziare eventuali sconti.
4. La signora nello specchio
Arriviamo alla seconda questione, che riguarda la risposta della presidente Ursula von der Leyen. La sua reazione immediata è stata la programmazione di una ritorsione speculare, ovvero l’imposizione di dazi doganali sui prodotti statunitensi. Tuttavia, alla luce delle dinamiche analizzate, sorge una domanda rilevante: ha senso, dal punto di vista diplomatico, adottare contromisure che non farebbero altro che esacerbare le tensioni che hanno originato la guerra commerciale di Trump? In altri termini, ha senso imporre dazi doganali quando si registra già da un decennio un esorbitante surplus commerciale, che è quella medesima condizione che ha spinto gli Stati Uniti ad introdurre le loro misure protezionistiche?
Una prospettiva alternativa, che von der Leyen continua ad ignorare, è quella delineata da Mario Draghi che, nel corso del 2024, ha più volte criticato le scelte di politica economica adottate nell’Eurozona – pur essendone stato in passato uno dei principali interpreti, ma, come spesso accade, la storia porta a ripensamenti.
Nel suo discorso di aprile a La Hulpe ha affermato: “Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale”. Nell’analisi per il CEPR di dicembre ha ribadito: “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita salariale come mezzo per aumentare la competitività esterna, aggravando il debole ciclo reddito-consumo. Dal 2008, la crescita media annua dei salari reali è stata quasi quattro volte superiore negli Stati Uniti rispetto all’area dell’euro” (Draghi, 2024, p. 2). Tra questi due interventi, è stato pubblicato il suo dettagliato Rapporto sulla competitività europea, articolato in due volumi, in cui vengono discusse le strategie di investimento necessarie all’Europa nei settori dell’alta tecnologia, dell’energia e della difesa.
Si dovrebbe intuire che la soluzione da lui prospettata sarebbe quella di accantonare il modello, finora adottato, basato sulle esportazioni, che non si è rivelato un fattore di crescita in senso proprio, ma piuttosto un modello stagnazionistico. In ultima analisi, il suggerimento di Draghi sarebbe quello di rilanciare gli investimenti per colmare l’enorme ritardo tecnologico accumulato rispetto agli USA e alla Cina, nonché sostenere la crescita salariale per garantire un adeguato rendimento degli investimenti attraverso l’espansione dei consumi interni e, infine, finanziare le transizioni gemelle attraverso un programma di deficit pubblici coordinati a livello sovranazionale (il cosiddetto “debito comune europeo”). Tuttavia, in completa mancanza delle condizioni politiche compatibili, non sembra che un tale programma possa essere adottato tempestivamente con quell’urgenza imposta dalla guerra commerciale.
Di fronte a questa situazione, von der Leyen sceglie di assumere il ruolo della “signora nello specchio”, che replica specularmente le mosse degli USA senza delineare alcuna strategia autonoma di lungo periodo. Questo approccio dai tratti controproducenti rischia di penalizzare proprio i cittadini europei, i quali si troverebbero a fronteggiare una doppia pressione ad un tempo: da un lato, la riduzione di quelle esportazioni che finora hanno rappresentato una delle principali fonti di reddito e occupazione; dall’altro, l’aumento dei prezzi generato dai contro-dazi, che eroderebbe ulteriormente il loro potere d’acquisto già ridotto dalle politiche di austerità e dall’inflazione energetica post-pandemica.
Riferimenti bibliografici
Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno. 2025. “Più forte l’impatto dei dazi americani sull’export del Mezzogiorno.” Comunicato Stampa della SVIMEZ, 4 febbraio.
Commissione Europea. 2025. “Dazi statunitensi su acciaio e alluminio: le contromisure dell’UE in sintesi.” Comunicato Stampa della Commissione Europea, 12 marzo.
Draghi, M. 2024. “Europe: Back to domestic growth.” Center for Economic Policy Research, CEPR Policy Insight No. 136.
Nordgen L., N. Norell, P. Stalenheim. 2024. “Economic backfire: The costly impact of Trump’s proposed tariffs.” National Board of Trade Sweden.
Parlamento Europeo. 2025. “Relazioni commerciali UE–USA: l’impatto dei dazi sull’Europa.” Direzione Generale della Comunicazione, 13 febbraio.