Tassazione e interesse (solo per astronomi esperti). Cronache marXZiane n. 16
di Giorgio Gattei
1. Dgiangoz, comincia tu!
Dgiangoz è il mio consulente in analisi logica marXZiana che, interpellato, così mi ha risposto:
– Sei tornato da me? Non ti fidi delle tue sole competenze? Ne prendo atto e ti vengo incontro. Rispetto ai miei interventi precedenti, adesso in quel dominio di Saggio Massimo del pianeta Marx in cui sei finito e dove, pur impiegando lavoro, non si pagano salari, le due sole merci prodotte (una “base” e una “non-base” secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa nel libro del 1960), invece di essere grano e tulipano sono diventate orzo e birra, ma questo cambia poco dato che l’orzo è una “merce-base” in quanto necessaria per produrle entrambe, mentre la birra è una “merce-non base” addirittura assoluta perché non serve nemmeno a produrre se stessa (che fai della birra se non berla?). Più interessante è invece la sostituzione, nella funzione d’intermediazione tra le due produzioni, del Palazzo al posto del Tempio, il che ti ha consentito di attribuirgli la doppia funzione di tassare il produttore d’orzo (d’ora in poi l’“orziere”) per poi prestare al produttore di birra (d’ora in poi il “birraio”) quel gettito fiscale così raccolto. Però hai strafatto nel supporre che il Palazzo prelevi l’intero profitto massimo dell’orziere per girarlo integralmente e gratuitamente al birraio. Certamente, così facendo, hai raggiunto d’assalto l’equilibrio di bilancio tra le entrate e le uscite del Palazzo:
R a11 Q1 = a12 Q2
dove a11 e a12 sono i coefficienti unitari delle due produzioni, Q1 e Q2 le quantità rispettivamente prodotte ed R è il Saggio Massimo del profitto, ma non ti parrebbe più plausibile che il Palazzo prelevi a titolo d’imposta soltanto una percentuale del profitto massimo dell’orziere secondo una aliquota fiscale (t < 1, mentre sul prestito al birraio si facesse pagare un interesse secondo un tasso i > 0? Però, così facendo, ne sarà modificato quell’equilibrio di bilancio del Palazzo da te dedotto che dovrà essere ripensato tenendo comunque conto che le tasse sono pagate soltanto dall’orziere produttore della merce-base, mentre l’interesse è pagato soltanto dal produttore della merce non-base, cioè dal birraio.
Ti ricordo la situazione logica di partenza con il produttore della merce-base (l’orzo = merce 1) in grado di produrla secondo un coefficiente tecnico unitario a11 che si suppone dato e ad un prezzo di produzione che dovrà consentirgli di recuperare l’orzo utilizzato maggiorato di un profitto secondo quel saggio che sarà massimo perché in quella periferia estrema del pianeta Marx, pur impiegando lavoro, non si pagano salari. Se il prezzo di produzione dell’orzo è preso a numerario (p1 = 1), allora:
1 = a11 + R a11 = (1 + R) a11 con R = (1 – a11) / a11
a prova che il Saggio Massimo è determinato dalla condizione tecnica di produzione della merce base.
Con quella eccedenza di profitto l’orziere potrebbe anche produrre personalmente una merce non-base come la birra (merce 2), ma se interviene il Palazzo, sarà questo a prelevare a titolo d’imposta l’orzo necessario a quella produzione, lasciando all’orziere un profitto che dovrà scontare il prelievo fiscale sul profitto massimo secondo l’aliquota t > 0, così che l’equazione del prezzo di produzione dell’orzo gli farà guadagnare solo un saggio netto di profitto r minore del Saggio Massimo:
r = (1 – t) R = (1 – t) (1 – a11) / a11
che, riordinando i termini:
r a11 = 1 – a11 – t (1 – a11)
conduce a:
1 = (1 + r + t R) a11
Insomma, il prezzo unitario dell’orziere, con l’orzo che continua a fungere da numerario, dovrà consentigli di recuperare il costo dell’orzo impiegato a11, pagare al Palazzo la tassa sul profitto massimo tRa11 e realizzare un saggio di profitto netto r che costituirà il “saggio generale del profitto” per la ragione che poi si dirà.
Con quel gettito fiscale il Palazzo potrà prestare al birraio l’orzo necessario a produrre la birra e se glielo presta integralmente (non essendo interessato all’orzo ma soltanto alla birra) secondo il coefficiente unitario di quella produzione a12 che è altrettanto dato, giuste le quantità Q1 e Q2 delle due merci prodotte, per ogni possibile livello di tassazione sarà:
t Ra11 Q1= a12 Q2
che rappresenta la condizione di equilibrio tra le entrate e le uscite del Palazzo che prescinde da un processo di aggiustamento trattandosi di una equazione statica e non dinamica.
Il prezzo di produzione della birra (merce non-base = merce 2) nel caso che il Palazzo applichi al birraio un tasso d’interesse i > 0 sull’ammontare del prestito, si ottiene dalla condizione di uniformità del suo saggio di profitto netto con quello dell’orziere, che per questo è “generale”, così che per p2 = p:
p = (1 + i + r) a12
essendo:
r = (1 – t) R
Il livello del prezzo unitario della birra che assicura che anche nella sua produzione si realizzi quel medesimo saggio del profitto netto dell’orziere dipenderà dalla combinazione fra tR e i, così che possiamo riscrivere:
p = (1 + R + i – t R) a12 = (1 + R + D) a12
dove D = (i – tR) potrà essere maggiore, uguale o minore di zero, Qualora fosse proprio D = 0 ossia:
i = t R
sarebbe anche:
p (r) = (1 + R + D) a12 = (1 + R) a12 = p (R)
con il prezzo della birra a saggio generale del profitto p(r) eguale a quel suo prezzo a saggio Massimo p(R) corrispondente a (t, i) = (0, 0). La mia opinione è che però non si possa caricare di un significato speciale la condizione in cui D = 0; si tratta infatti della condizione che separa il caso in cui la combinazione (t, i) porterebbe, nell’equilibro di lungo periodo, ad un livello più alto del prezzo unitario della birra da quella in cui porterebbe invece ad un livello più basso rispetto al caso con (t, i) = (0, 0) e nulla più. Il fatto di poter scrivere quella condizione nella forma:
i / t = R
non può privilegiarla rispetto alle altre, per cui non mi sembra che possa considerarsi un risultato straordinario. E questo per me è tutto, gente (that’s all, folks!)».
– Ma non puoi affatto concludere così perché a me invece quella condizione per cui il prezzo della birra rimarrebbe costante e determinato dalle sole condizioni tecniche della sua produzione, mi piace assai. Certamente è stata ottenuta sulla base di un modello logico limitato, ma David Ricardo non ha cominciato il suo ragionamento partendo dall’ipotesi di una produzione di grano a mezzo di solo grano? E qui invece di merci ce ne sono già due e tecnicamente differenti perché una “base” e l’altra “non-base” e poi c’è quel Palazzo che tassa e presta, giuste le decisioni di politica economica che gli spettano che sono la politica fiscale nei confronti dell’orziere e la politica monetaria nei confronti del birraio che, secondo quel risultato ipotetico raggiunto, dovrebbero muoversi di concerto dentro lo spazio consentito dal livello di Saggio Massimo determinato tecnologicamente dalla produzione della sola “merce-base”. E ti pare questo un risultato da niente?
In un mastodontico volume di oltre 400 pagine (Money and Government, 2008) Robert Skidelski , già grande biografo di Keynes in tre volumi, ha ripercorso il complicato rapporto negli ultimi due secoli della politica monetaria (money) con la politica fiscale (government) arrivando alla desolante conclusione che le politiche fiscale e monetaria che dovrebbero essere «coordinate e non separate», sono affidate al momento a due istituzioni differenti se non concorrenti come il Governo (per le tasse) e la Banca Centrale (per l’interesse) conducendo al risultato che «il futuro della combinazione del fiscale col monetario resta irrisolto». Ma da quanto sopra è stato ricavato la ragione dovrebbe essere evidente: perché manca la consapevolezza che tra le due politiche monetaria e fiscale potrebbe (o dovrebbe?) giocare la sua parte quel Saggio Massimo del profitto che soltanto con Piero Sraffa nel suo resoconto di esplorazione del pianeta Marx Viaggio di merce per merce (1960) è arrivato a presentarsi sulla scena. Ma dopo quale percorso di avvicinamento intellettuale progressivo?
2. Una storia d’interesse.
Il prestito ad interesse è una pratica finanziaria antichissima con fissazione in origine del suo tasso per decisione d’autorità se fin dal tempo del Codice di Hammurabi era stabilito «al 33,33% per il prestito d’orzo e al 20% per il prestito d’argento» (cfr. E. Chancellor, The price of time. The real story of interest, 2022). La giustificazione era intuitiva: se col dare ad altri ci si privava temporaneamente dell’uso della cosa prestata, non si doveva essere ricompensati per questa rinuncia, dato che il prestito non è un regalo? C’erano però delle eccezioni, dato che nella Bibbia Dio avrebbe imposto agli ebrei che «se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, non devi imporgli interesse» (Esodo, 22.24), mentre «allo straniero tu potrai prestare ad interesse» (Deuteronomio, 23.20), e così fu che gli ebrei si sono storicamente specializzati in quella pratica dell’usura della quale sono stati colpevolizzati per secoli, fino alla mostruosità dell’olocausto nazista quando un intero popolo ha dovuto pagare con la vita affinché una nazione di debitori non restituisse il dovuto.
Per i cristiani la questione era invece controversa dato che nel Vangelo di Luca (6.34) si sarebbe dovuto «prestare senza sperare ricompensa» (6.34), ma in quello di Matteo (25.14-30) la “parabola dei talenti” giudicava «malvagio e infingardo» il servo che, avendo ricevuto in custodia dei talenti dal padrone, li seppelliva sotto terra per riconsegnarglieli tali e quali invece di affidarli «ai banchieri così che al ritorno avrei ricavato l’interesse» (ma la parabola andava letta per traslato, dovendo insegnare che la fede ricevuta dal Signore non andava custodita soltanto nel cuore, ma mostrata in pubblico per accrescerne per l’appunto l’interesse). Comunque, un giudizio morale negativo sul prestito ad interesse era stato autorevolmente espresso da Aristotele nella Politica, dovendosi considerare «l’usura, in quanto trae guadagno dal denaro stesso, come il più innaturale di tutti i modi di arricchire» dato che il denaro è fatto per scambiarsi con le merci e non con sé stesso, e questo giudizio avrebbe dominato nei secoli fino a codificarsi nella Somma teologica (1265) di Tommaso d’Aquino nello slogan che «il denaro non fa figli» (cfr. M. Amato, Nummus non parit nummus. La questione genealogica dell’uso proprio del denaro, 2006).
Eppure, il prestito ad interesse rimaneva una pratica corrente negli affari a cui ricorrevano perfino papi e sovrani, ed invano i dottori della Chiesa si provarono a darne una giustificazione, ma «non avendo ancora sufficientemente sviluppato la teoria del profitto, … procedettero a tentoni e spesso presero scivoloni logici e usarono molti argomenti inadeguati e spesso erronei» (J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, 1959). Fu soltanto nel “secolo dei Lumi” che si arrivò a collegare esattamente l’interesse col profitto, così che Adam Smith poté spiegare nella Ricchezza delle stelle (1776) che «si chiama interesse il compenso che chi prende a prestito il denaro paga a chi lo dà a prestito per il profitto che il primo ha la possibilità di ricavare dall’uso di quel denaro». Era fatta, dopo di che Karl Marx nel terzo volume del Capitale nello spazio (pubblicato postumo nel 1894) poté confermare che «l’interesse è regolato dal saggio del profitto, più esattamente dal saggio generale del profitto… che si deve considerare come il limite massimo assoluto dell’interesse» che si raggiunge «durante le crisi quando per pagare bisogna prendere a prestito, costi quel che costi». Certamente la sua determinazione «è una questione in sé per sé puramente empirica che appartiene al regno della casualità», dato che «non esiste un tasso naturale dell’interesse… trattandosi unicamente della ripartizione del profitto tra i due proprietari del capitale a diverso titolo», ossia i creditori che prestano e i debitori che restituiranno, e con sempre maggiori difficoltà per i secondi se nell’antichità (ma questo è detto nel primo libro del 1867) il loro braccio di ferro sarebbe finito «con la disfatta del debitore plebeo che viene sostituito dallo schiavo, mentre nel Medioevo la lotta finisce con la disfatta del debitore feudale che ci rimette, con la base economica, la sua potenza politica».
Tuttavia, il confronto tra il tasso d’interesse e il saggio del profitto è improprio in quanto le due variabili non incidono sullo stesso spazio temporale, essendo il primo al momento della contrattazione del prestito una grandezza certa stabilita tra le parti, mentre il secondo è soltanto una speranza futura, una previsione o una attesa di profitto che si sarebbe poi potuta confermare, ma pure no. Per questo per Marx «il saggio generale del profitto appare come una immagine nebulosa, evanescente, rispetto al saggio dell’interesse che per tutti coloro che prendono a prestito si presenta sempre ad essi come una entità fissa, data» e sarà proprio su questa discrepanza tra un “certo” e un “incerto” che avrebbe insistito John Maynard Keynes nella Teoria generale del cielo della terra (1936), ridefinendo l’interesse come la remunerazione che spetta per la rinuncia al possesso della propria “liquidità monetaria”, mentre il saggio del profitto resta affidato alla speranza soggettiva degli “spiriti animali” (animal spirits) di chi prende a prestito di guadagnarci in futuro, che però è una speranza «non basata su di un calcolo preciso di vantaggi futuri molto più di quanto lo sia una spedizione al Polo sud».
Eppure, quel confronto viene sempre fatto! Ma sulla base della “convenzione psicologica” che «lo stato di cose esistente continuerà indefinitamente, salvo in quanto vi siano motivi specifici per attendersi un cambiamento», così che il saggio del profitto di oggi sarà lo stesso pure domani e anche dopodomani e chi ha preso a prestito «non perderà il sonno soltanto perché ignora quale valore avrà il suo investimento di qui a dieci anni,… purché possa confidare con un discreto grado di sicurezza che il valore della convenzione non verrà a cessare e abbia la possibilità di rivedere il suo giudizio e di variare il suo investimento prima che gravi fatti abbiamo avuto il tempo di accadere». Ma se si prevedano variazioni? Allora il titolo del prestito verrà reso “liquido” trasferendolo da un impiego ad un altro, dando così il via a quella speculazione di borsa che «costituisce una non piccola parte del nostro problema contemporaneo di assicurare un investimento sufficiente» e «lo spettacolo dei moderni mercati d’investimento mi ha talvolta portato alla conclusione che un rimedio utile per i nostri mali contemporanei potrebbe essere quello di rendere un investimento permanente e indissolubile come il matrimonio, salvo che per causa di morte o altro grave motivo. In tal modo, infatti, si obbligherebbe l’investitore ad orientare la sua mente verso le prospettive a lungo termine e verso queste soltanto, … Ma se gli acquisti individuali di investimenti fossero resi illiquidi, ciò non potrebbe ostacolare seriamente l’investimento nuovo fino a quando non si mettessero a disposizione dell’individuo modi alternativi nei quali tenere i suoi risparmi? Questo è il dilemma».
3. L’interesse di Sraffa per Saggio Massimo.
Assicurato ormai il collegamento sicuro del tasso d’interesse con il saggio generale del profitto (curiosamente ridenominato da Knut Wicksell “saggio naturale dell’interesse” a sottolineare la stretta affinità fra i due sebbene «non siano fondamentalmente la stessa cosa» (J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, 1959), non si è andati oltre finché Piero Sraffa, sia pure nella maniera evasiva che gli era propria, non ha inventato (nel senso latino di “invenire”, ossia ritrovare) quel Saggio Massimo del profitto che potrebbe inserirsi bene frammezzo (anche se lui non l’ha fatto). Ma come ci è riuscito?
Riparato a Cambridge (Gran Bretagna) nel 1927 su invito di Keynes anche per sfuggire, lui comunista, alle minacce esplicite dei fascisti (come sul giornaletto universitario “La Forca” da parte di un anonimo «tirapiedi del boia»: cfr. N. Naldi, Dicembre 1922: Piero Sraffa e Benito Mussolini, in “Rivista italiana degli economisti”, 1998), Sraffa ha dovuto innanzitutto liberarsi della educazione accademica ricevuta in Italia e questo ha fatto nell’articolo Le leggi della produttività in regime di concorrenza (1926) in cui dimostrava l’incoerenza logica di un approccio astronomico “per singola stella”, così da dover ripiegare sulla “concorrenza imperfetta” dove ogni stella decide la propria orbita invece di subirla, oppure passare al livello superiore della “costellazione di stelle” («l’equilibrio simultaneo di numerose industrie», come scriveva) verso il quale si stava peraltro già muovendo il suo maestro Keynes, che nel 1939 avrebbe poi denunciato come «si sono commessi gravi errori nell’estendere al sistema preso nel suo complesso conclusioni correttamente raggiunte in base alla considerazione di una parte del sistema presa isolatamente», dato che (con buona pace di Totò) non è la somma a fare il totale e se anche se tutti i senatori sono «boni viri», il Senato resta comunque «mala bestia» (il detto latino è attribuito a Cicerone).
C’era però un’altra lezione che Sraffa doveva apprendere da Keynes, e cioè che l’argomento di maggiore interesse per l’astronomo non stava tanto nel complesso delle stelle già note, ma nell’incremento consentito dall’inserimento di quelle che si aggiungono aumentando la conoscenza (come con i “buchi neri” e adesso, dietro di loro, i “buchi bianchi”). Era stato per questo fatto che nel 1935 all’allievo Richard Kahn aveva confessato di aver potuto procedere alla stesura della sua Teoria generale soltanto dopo avere «risolto l’enigma della definizione del reddito nel senso del Reddito netto» (cit. in R. Skidelsky, John Maynard Keynes, II. L’economista come salvatore 1920-1937, 1992), ossia il Reddito Lordo al netto del capitale impiegato per produrlo Tuttavia, anche il Reddito netto (come peraltro il Reddito Lordo noto come PIL), si presenta come un ammasso di merci difformi che si possono amalgamare soltanto se vengono moltiplicate per i rispettivi prezzi. Ma quali prezzi? Non di certo i prezzi correnti di mercato che sono troppo sensibili alle variazioni occasionali di domanda ed offerta, bensì quei “prezzi di lunga lena” che sono “necessari”, “normali” o “di produzione” che erano propri degli astronomi classici e che rappresentano gli attrattori (i “centri di gravità”) degli altri scontando un identico saggio del profitto in tutte le produzioni qualora il processo di produzione in libera concorrenza debba venire ripetuto nel tempo (per una ricognizione recente del problema cfr. Anonimo, Prezzi normali e prezzi di mercato, Rappresentazioni statiche e dinamiche del processo di gravitazione, in “Homolaicus”, 2000).
Dopo di che l’equazione di riparto del prezzo di produzione del prodotto netto (d’ora in poi “prezzo del Netto” = Y) tra le parti sociali che hanno partecipato alla sua produzione, i capitalisti per il profitto P ed i lavoratori per il salario complessivo W, è presto detta: essendo K il prezzo di produzione del capitale impiegato e r il saggio generale del profitto, risulterà:
Y = r K + W
Che, azzerando i salari (W = 0), porta alla definizione del Saggio Massimo (del profitto) R:
max r = R = Y /K
che Sraffa ha incontrato esattamente il 27 gennaio 1944 appuntando nel suo taccuino che «per w = 0 otteniamo R e questo R è la misura che vogliamo» (cit. da G. De Vivo in Piero Sraffa. Contributi per una biografia intellettuale, a cura di M. Pivetti, 2000).
È questo Saggio Massimo che incombe come una presenza sovrastante (anche se pochi se ne sono accorti) sul Viaggio di merce per merce che Sraffa ha pubblicato nel 1960, mostrandolo a partire dal “Rapporto tipo” di un astratto “sistema tipo” (sul quale non occorre dilungarci) che avrebbe la sfacciata qualità di essere un rapporto «fra quantità di merci senza bisogno di ricorrere ai loro prezzi». Ma che farsene se la sua presenza rimanesse «limitata all’immaginario “sistema tipo” e non atta ad essere estesa al sistema economico reale»? Eppure, la soluzione c’è ed è quanto mai semplice: infatti «possiamo trovarlo come massimo saggio del profitto dalle equazioni della produzione facendo w = 0», così che quel Rapporto tipo (senza prezzi) del sistema immaginario finisce per esprimersi nel Saggio Massimo (a prezzi) del sistema reale a dimostrazione che «particolari proporzioni, come quelle del “sistema tipo”, possano conferire trasparenza a un sistema e rendere visibile quello che vi era nascosto senza modificarne le proprietà matematiche». Ma non è questo un risultato geniale?
Né basta perché la presenza di questo Saggio Massimo finisce per riverberarsi sull’intero territorio del pianeta Marx anche dove si pagano salari, e questa dimostrazione, che è stata data dallo stesso Sraffa, qui la si può ricavare immediatamente dalla stessa equazione di distribuzione del “prezzo del Netto” assumendolo a numerario (Y = 1), così che:
1 = r K/Y + W/Y = r / R + w
dove w = W/Y rappresenta la quota dei salari sul “prezzo del Netto” (una misura ben diversa dal tradizionale salario per unità di lavoro che è invece w = Y/L). Riordinando il tutto si arriva a:
R = r / (1- w)
che mostra come il Saggio Massimo sia il vincolo che condiziona la proporzione del saggio generale del profitto sulla quota del “prezzo del Netto” che va ai salariati (con la conseguenza che il saggio generale del profitto non potrà che risultare minore del Saggio Massimo se si pagano i lavoratori e più li si paga più sarà basso. Però nella vulgata sraffiana quel risultato viene pubblicizzato come:
r = R (1 – w)
e per questo non piaceva al più che scrupoloso all’attento Gianfranco Pala (Un numero è un numero: r = R (1- w), una verità sbagliata, in “Studi economici”, 1979) dato che equivocava nei cattivi discepoli inconsapevoli della differenza tra w e w.
Ed ora in questa nostra Cronaca Dgiangoz cosa ha fatto? Sia pure sotto specialissime condizioni ha trovato una ulteriore manifestazione di Saggio Massimo nel caso di due merci come l’orzo e la birra e di un Palazzo che tassa e presta, arrivando al risultato conclusivo (qualora risultasse Dp = 0) che:
i / t = R
con il Saggio Massimo che verrebbe a costituire il contesto, determinato dalla condizioni tecnologiche di produzione della merce base, in cui far muovere di concerto il tasso d’interesse (ossia la politica monetaria) rispetto all’aliquota d’imposta (ossia la politica fiscale), così che se il primo diminuisce, anche la seconda deve diminuire e viceversa. Ma guai a generalizzare questo risultato che è stato raggiunto sulla base di tante (troppe) ipotesi limitative, compresa quella che si tassi soltanto il profitto dell’orziere e che si presti soltanto al birraio. Per generalizzare bisognerebbe che qualsiasi profitto venisse tassato e che ad ogni produttore si potesse prestare, ma è questo uno sviluppo ulteriore che lascio volentieri ad altri, così che questa “Cronaca marXZiana” finisce qui.