Il prestito e le tasse, anche. Cronache marXZiane n. 15
di Giorgio Gattei
1. Se la moneta è “Dio” (vedi la Cronaca precedente), di quanto “Dio” ci sarà bisogno sul pianeta Marx, quel corpo teorico celeste comparso improvvisamente nel cielo dell’economia e a cui Karl Marx, che più di tutti l’ha investigato, ha dato il suo nome?
Intanto facciamo il punto su quanto abbiamo finora appreso, e cioè che la moneta non deriva affatto dall’iniziativa spontanea degli “scambisti democratici” sul mercato, come l’ha raccontata Aristotele e si continua a ripetere, bensì dalla pratica di “buon vicinato” di prestare qualcosa a qualcuno con l’impegno di farsela restituire in futuro (che poi non sarebbe altro che lo sviluppo di quella originaria “economia del dono”, studiata da Marcel Mauss, che impone comunque l’obbligo di ricambiare il dono ricevuto e addirittura ad abundantiam). Se poi a certificazione del prestito concesso venisse redatta una qualche scrittura con l’indicazione di quanto prestato e del nome del debitore, saremmo davanti ad una promessa di pagamento, a queli “pagherò” che sarebbero stati all’origine della moneta «prima delle sue origini», per dirla con il bel titolo di un libro di O. Bulgarelli (2001). Quella primitiva “scrittura monetaria” (se tale ci azzardassimo di chiamarla) resterebbe però nelle mani del creditore finché il debitore non avesse restituito quanto ricevuto in prestito, dopo di che gli sarebbe riconsegnata liberandolo dalla sua obbligazione. Se così può essere stato, come la documentazione storica sembra provare, allora la moneta avrebbe trovato la sua origine in una relazione di debito/credito piuttosto che in uno scambio tra compratori e venditori, ma questa interpretazione alternativa (“cartalista” come è stata chiamata, ma il termine è equivoco e non ha fatto presa) ha potuto farsi strada soltanto nel corso del Novecento, man mano che venivano alla luce le “pratiche monetarie” di Sumeri e Babilonesi e sulle quali abbiamo adesso almeno i due testi riepilogativi di D. Graeber, Debito. I primi 5000 anni (2012) e La natura della moneta (2016) di G. Ingham. ma qui soprattutto merita citare la succosa sintesi di P. Tcherneva, Il cartalismo e l’approccio alla moneta come entità guidata dalle tasse (2019, in rete) che ha ispirato questa “Cronaca marXZiana”.
Insomma, per comprendere la nascita della moneta non c’è affatto bisogno della Grecia, bensì piuttosto della Mesopotamia, quella “terra fra i due fiumi” in cui fin dai più lontani tempi si era formata una società urbana così complessa da richiedere l’adozione di “strumenti finanziari” come i prestiti (e le tasse di cui poi diremo). La fecondità del luogo favoriva la produzione dell’orzo, che era il cereale tipico per l’alimentazione e dal quale, per qualche accidente fortuito, era derivata quella bevanda alcolica che è la birra, che altro non è se non orzo fermentato. Intendiamoci: se l’orzo serve per produrre sé stesso e la birra, la birra non può servire ad altro che a bersela per guadagnare quel felice stato di ebbrezza di cui già veniva detto nel più antico poema della umanità, quella Epopea di Gilgamesh il cui alter ego terrestre Enkidu (Gilgamesh era invece un semidio) viene introdotto, insieme al sesso, alla degustazione della birra e dopo il settimo boccale «il suo animo si rallegrò, il cuore gioì ed il volto gli si illuminò». Per i Greci, invece, la bevanda alcolica tipica era il vino ricavato dalla spremitura dall’uva (grande innovazione del dio Bacco!), così che nella tragedia di Eschilo, quando le Danaidi egiziane, per sfuggire al “matrimonio combinato” coi cugini, si rifugiano ad Argo («non sposa, non schiava!»), il suo re si opporrà agli egizi venuti a riprendersele al grido: «Maschi sì, vi si faranno incontro, genti di qui che non bevono certo vino di orzo!» (tuttavia, alla fine le Danaidi saranno riconsegnate ai mariti promessi, che esse comunque stermineranno, tranne una, la notte delle nozze).
Se questa è mitologia, economicamente che cosa se ne può dire? Che, se l’orzo è un input necessario per la produzione di entrambe le merci, la birra è invece un output secondario, sebbene assai gustevole, simile a quei “beni di lusso” che sono stati studiati nel passato più dal punto di vista storico, sociologico ed antropologico (vedi ad esempio W. Sombart, Lusso e capitalismo, 1913) che da quello logico-economico. Per provarci in questo senso può servire la distinzione, introdotta da Piero Sraffa nel suo resoconto d’esplorazione del pianeta Marx (Viaggio di merci per merci, 1960), tra i “beni-base” che servono a produre ogni altro bene (nel nostro caso l’orzo = merce 1) e i “beni-non base” che invece non fanno questo e che addirittura, nel caso di un bene-non base “assoluto” come la nostra birra = merce 2, non serve nemmeno alla produzione di sé stessa. Ma se è così, è ovvio che il fabbricante di birra (d’ora in poi il “birraio”) avrà bisogno di ricevere in prestito l’orzo necessario dal suo produttore (d’ora in poi l’“orziere”), impegnandosi a ripagarlo con la birra che avrà prodotto di suo. Ora questo prestito può anche restare un fatto privato fra i due produttori, ma fin dai tempi di Sumeri e Babilonesi vi si era infilata nel mezzo una istituzione speciale, come il Tempio o il Palazzo, allo scopo di prestare ai produttori di birra quell’orzo ricevuto a titolo di offerta da parte dei fedeli (il Tempio) oppure come tassa da parte dei contribuenti (il Palazzo) – e gli storici sono ancora a discutere «se nel passato più arcaico quella economia fosse gestita dall’autorità religiosa (il Tempio) oppure dal sovrano (il Palazzo) e comunque alla lunga sarà il Palazzo ad avere sia il potere politico che quello economico» (O. Bulgarelli, Moneta ed economia nell’antica Mesopotamia (III-I millennio a.C., 2009), così che per noi solo il Palazzo sarà.
Ma proviamo a formalizzare una simile struttura produttiva di orzo e birra indicando con a11 e a12 i rispettivi coefficienti unitari di produzione, Q1 e Q2 le quantità prodotte e p1 e p2 i prezzi corrispondenti sotto la condizione di equilibrio concorrenziale per cui entrambe le produzioni devono guadagnare lo stesso Saggio Massimo del profitto R (dato che in quella estrema periferia del pianeta Marx in cui ci muoviamo s’impiega lavoro ma il salario non si paga, ossia w = 0):
Q1 p1 = a11Q1 + R a11 Q1
Q2 p2 = a12 Q2 + R a12 Q2
Prendendo ad unità di misura (“numerario”) il prezzo dell’orzo (p1 = 1), per p2 = p il tutto si riduce a:
R = (1 – a11) /a11
p = a12 /a11
a mostrare come il prezzo della birra e il Saggio massimo del profitto conseguono dai soli coefficienti unitari di produzione dell’orzo e della birra, confermando quella affermazione occasionale di Sraffa per cui «un uomo caduto dalla luna sulla terra» potrebbe ricavare i prezzi e il saggio del profitto dalla sola osservazione di quanto consumato e di quanto prodotto dalle imprese durante un anno, dato che «le condizioni dello scambio sono interamente determinate dalle condizioni di produzione» (cfr. G. Gilibert, The man from the moon: Sraffa’s upside-down approach to the theory of value, 2006).
2. Adesso facciamo intervenire il Palazzo che preleva orzo dal suo produttore a titolo d’imposta per cederlo a titolo di prestito al birraio. Il massimo di tassazione T che potrà esercitare sarà pari all’intero profitto dell’orziere, se gli vuole consentire di ripetere la produzione lasciandogli l’orzo a ciò necessario:
max T = R a11 Q1
a sua volta il massimo di prestito P che potrà concedere al birraio sarà quanto serve alla sua produzione:
max P = a12 Q2
che sarà pari all’intero gettito fiscale incassato dal Palazzo qualora nulla ne vemga consumato per sè, così che in questo caso estremo l’equilibrio di bilancio tra le sue entrate ed uscite risulterà dall’equivalenza:
a12 Q2 = R a11 Q1
A garanzia del quantitativo d’orzo prestato al birraio il Palazzo emetterà una nota di debito M (un “pagherò” dalla forma canonica di “io ti devo” che a quei tempi veniva incisa con scrittura cuneiforme su di una tavoletta di argilla) per un ammontare pari al prestito concesso:
M = a12 Q2
e questa tavoletta sarebbe rimasta nella disponibilità del Palazzo finché non fosse stato rimborsato il prestito da parte del birraio. Il quale però lo potrà fare soltanto in birra, essendo quella la merce da lui prodotta. così che fin da subito sarebbe necessario stabilire a priori il rapporto di conversione dell’orzo (prestato) con la birra (da restituire), come in effetti era deciso fin dal Codice di Hammurabi (XVIII secolo a. C.) che all’articolo 111 recitava che «se una tenutaria di locanda serve 60 ka (unità di misura non meglio specificata) di bevanda, riceverà 50 ka di orzo al raccolto», giustificando il rapporto di una misura d’orzo contro 1,2 misure di birra.
Però non ci sarebbe stato anche bisogno di misurare la quantità dell’orzo prestato? Certamente, ma a quei tempi l’unità di misura poteva essere soltanto una grandezza di peso da incidere, a garanzia del creditore, sulla tavoletta d’argilla ed è stato proprio in base a questa necessità di pesare l’orzo che a quei tempi doveva sorgere una complessa gerarchia di misure ponderali su base sessagesimale che F. Ferlaino (Banche ed operazioni bancarie nella storia. Le origini nel Vicino Oriente antico, 2019) ha descritto partendo dal valore massimo del “talento”, un termine poi è trapassato ad indicare una speciale qualità della persona, che all’origine aveva «il significato letterale di “carico”, che era pari a 30 kg. circa corrispondenti al peso medio trasportabile da un adulto maschio, che poi si suddivideva in 60 “mine” da 500 gr. circa – laddove il termine “mina” può essere tradotto in “contatore” – e in 3600 “sicli” da 8,30 gr. ciascuno – laddove il termine “siclo” trae origine dal verbo “pesare” – fino all’unità più piccola del “grano”, corrispondente al peso teorico di un chicco d’orzo pari a 1/20 di grammo circa, con 180 grani circa equivalenti ad un siclo».
In quegli appunti sulle Antiche monete che J. M. Keynes aveva scritto negli anni ’20 del Novecento senza mai pubblicarli (lo sono stati soltanto nel 1982), anche per lui il “chicco” aveva un peso di 0,046-0,047 grammi così che approssimativamente ci siamo, ma da Wikipedia apprendo che il talento poteva cambiare comunque di peso secondo il luogo ed il tempo, così che quello attico corrispondeva a 26 kg, a Roma era fissato a 32,3kg, in Egitto a 27 kg, mentre al tempo dei Vangeli sarebbe arrivato ai 58,9 kg. (e se poi tutto questo pare complicato, valga la lezione di J. A. Schumpeter nella magistrale Storia dell’analisi economica (1959) èer cui non è detto che, andando a ritroso nel tempo, le cose si semplifichino: al contrario «le forme primitive di esistenza, come regola, non sono più semplici, ma più complesse delle forme successive», essendo la semplificazione proprio un indice di modernità.
Per il commercio a lunga distanza e per di più con gente straniera, il Palazzo non avrebbe prestato orzo bensì argento, ricevuto come al solito a titolo d’imposta dai contribuenti. Anch’esso sarebbe stato misurato in termini di peso secondo l’identica nomenclatura dell’orzo, e quindi in talenti, mine, sicli e grani, da restituire al Palazzo al termine della operazione commerciale, ma se il debitore non vi avesse ricavato argento, il solito codice di Hammurabi aveva previsto all’art. 51 che allora il debito si sarebbe potuto saldare in orzo «secondo la tariffa reale» (che non conosciamo, ma che avrebbe potuto anche essere semplicemente l’equivalenza di un grammo d’orzo ad un grammo d’argento). Però anche il prestito d’argento avrebbe dovuto essere certificato, con la differenza che, rispetto a quello d’orzo, se ne sarebbe potuto incidere l’ammontare direttamente sul pezzo di minerale prestato (se ne sono trovati esemplari), così da dar luogo ad una incipiente moneta metallica che già recava iscritta su se stessa il proprio ammontare di peso, e questo doveva avere avuto luogo fin dai tempi della Bibbia se Abramo pagò «400 sicli d’argento di moneta corrente tra i mercanti» per la sepoltura della moglie Sara. A questo punto che altro poteva servire se non l’apposizione di un simbolo (animale o divinità) a certificazione del Palazzo emittente per rendere quel pezzo d’argento misurato una vera e propria moneta coniata (cfr. M. Fornasari, Puzzle. Una storia del denaro, 2024)?
3. Quando rimborsato in birra al Palazzo il prestito ricevuto in orzo, la tavoletta con l’impegno di pagamento sarebbe stata restituita al birraio che avrebbe avuto due possibilità di comportamento: distruggerla fisicamente, così da cancellare del tutto la sua obbligazione, oppure mantenerla in vita per servirsene quale mezzo di acquisto diretto di orzo dal suo produttore (che nel frattempo avrebbe dato luogo ad una ulteriore produzione con relativo guadagno di massimo profitto) impegnandosi a riprendersela indietro in cambio della birra cedutagli in equivalenza dopo averla a sua volta prodotta. L’ammontare della tavoletta consentiva al birraio di ricevere proprio quanto orzo gli serviva per la nuova produzione, che peraltro era pari al nuovo profitto guadagnato dall’orziere, così che, se costui accettava quello scambio di orzo contro birra “a pagamento differito” in quanto garantito dalla cessione della tavoletta emessa dal Palazzo, sarebbe diventato a sua volta creditore nei confronti del birraio. È stata questa la prima “giravolta” della tavoletta in grado di trasformarla in un titolo di credito trasferibile e sulla quale ha insistito F. Martin (Denaro. La storia vera, 2014) citando H. MacLeod (un genialoide di metà Ottocento che però, a detta di Schumpeter, era «incapace di mettere le sue molte buone idee in una forma professionalmente accettabile») che nei Principi di filosofia della ricchezza (1873) così scriveva: «se ci venisse domandato: chi ha fatto la scoperta che più ha influito sui destini della razza umana? Pensiamo, tutto considerato, che potremmo rispondere con certezza: l’uomo che per primo scoprì che il Debito è una Merce Vendibile… Moneta e Debito Trasferibile sono termini intercambiabili: qualsiasi cosa rappresenti debito trasferibile di ogni sorta è Moneta e di qualsiasi materiale sia costituito, essa rappresenta Debito Trasferibile e nient’altro». Naturalmente un simile passaggio di mano di una promessa di pagamento sarebbe stato possibile solo se il creditore avesse piena fiducia che poi il debitore avrebbe pagato, ma non è lo stesso Martin a ricordare il caso dell’isola di Malta assediata dai turchi nel 1565 che, dovendo coniare la moneta in rame e non più in argento, fece circolare la nuova moneta con la dicitura «non aes sed fides» (non il metallo, ma la fiducia), essendo soltanto la fiducia la garanzia per la circolazione di qualsivoglia titolo di pagamento differito?
Tuttavia, se il passaggio di mano della tavoletta rimanesse limitato al trasferimento dal birraio all’orziere sarebbe stato un trasferimento economico privato con la sola differenza che, invece di essere il baratto di una merce contro un’altra, sarebbe lo scambio di una merce oggi contro una merce domani, ossia uno scambio differito nel tempo. Che cosa allora dovrebbe succedere perché la “giravolta” della tavoletta acquistasse una dimensione tale da rendersi appetibile per chiunque? Si deve considerare che cosa ne avrebbe potuto fare l’orziere che adesso la possedeva: avendo realizzato nel frattempo una ulteriore produzione con relativo guadagno di profitto, avrebbe dovuto pagare nuovamente quella tassa al Palazzo pari all’intero suo profitto, ma non poteva più farlo in orzo avendone già ceduto l’ammontare al birraio in cambio della tavoletta. Poteva però decidere di pagare l’imposta al Palazzo girandogli quella tavoletta che era stata di sua propria emissione e che peraltro era di esatto ammontare fiscale e questa è stata l’estrema giravolta che ha promosso la tavoletta a mezzo di circolazione universale, a moneta a tutti gli effetti, dato che, se la tavoletta è venuta ad esistenza per un debito che è in grado di estinguere, essa potrà estinguere non solo quel debito particolare, ma qualsiasi altro debito verso il Palazzo, ma con ciò riconfermando la posizione debitoria del birraio che, pur avendo saldato in precedenza il suo debito al Palazzo, si vedrebbe nuovamente suo debitore per la sopravvivenza della tavoletta che è stata emessa in origine a suo carico e che tale rimarrebbe finché il Palazzo non decidesse di liberarlo con quel gesto magnanimo di “cancellazione del debito” che concretamente si è ripetuto nella storia dell’antichità e che in lingua sumera si chiamava amargi che vuol dire “libertà”.
Ma allora la moneta come origina? Per dirla con P. Thcherneva, come «una unità di conto designata da una autorità pubblica per la codifica degli obblighi di debito nella società» con l’autorità che esercita il doppio potere «di imporre tasse ai suoi cittadini e di dichiarare che cosa accetterà per il pagamento della tasse», essendo «lo scopo della tassazione non tanto di finanziare la spesa pubblica, ma di creare la domanda per la valuta». In questo senso, invece che una invenzione spontanea del mercato, per utilizzare il titolo di un articolo di A. Lerner (1947) la moneta è «creazione dello Stato» (che poi sia un Tempio, un Palazzo, un Sovrano, un Parlamento o una Banca centrale non fa fatto), ma «solo se lo Stato dichiara di accettare quella pretesa moneta in pagamento delle tasse o di altre obbligazioni, il trucco riesce: chiunque abbia obbligazioni verso lo Stato sarà disposto ad accettare quel pezzo di carta con cui può saldare le sue obbligazioni, e chiunque altro sarà disposto ad accettarlo perché sa che i contribuenti l’accetteranno a loro volta».
La consapevolezza di questa dipendenza della circolazione della moneta dal pagamento delle tasse c’è sempre stata in passato e M. Forstater (Tax-driven money, 2004) ne ha repertoriato gli autori principali da Adam Smith a Phillip Wicksteed, ma qui vale citare John Stuart Mill per chiarezza e concisione: «la moneta trova la sua perfezione solo quando l’autorità che l’ha emessa acconsente a riceverla in pagamento della tasse». E Marx? Qualcosa doveva saperne anche lui se in un passaggio dei Grundrisse, che sono gli appunti preparatori alla stesura del Capitale, aveva annotato che «in Prussia esiste carta moneta a corso forzoso il cui riflusso è assicurato dal fatto che una aliquota delle imposte deve essere pagata in quella moneta cartacea».
4. Ma a che pro’ si pagano le tasse? Per farci entrare, volenti o nolenti, nel grande circuito dello scambio delle merci e del lavoro, come spiegato chiaramente da D. Graeber: «perché far pagare le tasse ai sudditi? Che cosa significa estrarre oro, stamparci sopra un’immagine, farlo circolare tra i propri sudditi per poi chiedere agli stessi sudditi di restituire quell’oro al mittente?… Si tratta della maniera più semplice ed efficace per creare i mercati». Siccome anche sul pianeta Marx si produce impiegando lavoro (soltanto nella periferia di Saggio Massimo non lo si paga, così che laggiù il saggio del profitto è massimo, però altrove il salario c’è e il saggio del profitto è meno che massimo), bisognerà che dappertutto ci sia chi è disposto a lavorare “per altri” («labouring poor» li aveva chiamati Adam Smith) e di cui Marx ha ricostruito il processo storico di formazione per il tramite di una «accumulazione originaria» (anche questo termine è di Smith) precedente all’accumulazione capitalistica “sulle sue gambe”: si tratta infatti di quella “preistoria del capitale” destinata a «trasformare la massa popolare in operai salariati, in liberi “poveri che lavorano”, questa opera d’arte della storia moderna» che pure «gronda sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro». Marx ne ha ricostruito la «forma classica» in Gran Bretagna, dal XVI secolo in poi, a seguito della scoperta dell’America (ma quale “destino manifesto”! Piuttosto sciagura manifesta!) perché da allora prese ad affluire in Europa una tal massa d’oro e d’argento che, monetata, rialzò i prezzi delle merci, della lana soprattutto, inducendo i proprietari terrieri inglesi a recintare i propri campi per destinarli al pascolo delle pecore cacciandone i contadini che vi abitavano. I quali affluirono così in massa nelle città a sopravvivervi pitoccando finché una «legislazione sanguinaria» non li costrinse a farsi assumere “sotto padrone” a qualsivoglia remunerazione potendone andare della loro stessa vita (i mendicanti recidivi venivano giustiziati). Fu così che quella «popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra e resa vagabonda, venne spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato», così da produrre alla fine «una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel nuovo modo di produzione… Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alla sua dipendenza dal capitale che nasce dalle stesse condizioni della produzione e che viene garantita e perpetuata da esse».
Tuttavia, Marx era stato cauto ammettendo che altrove e in altri tempi quella “forma classica” di accumulazione originaria avrebbe potuto assumere «sfumature diverse», come nel XIX secolo nei territori coloniali occupati dalle nazioni, ormai già capitalistiche, europee. In questo caso alla violenza della cacciata forzata delle popolazioni indigene dalle campagne poteva bastare la pratica della tassazione obbligatoria in moneta della madrepatria per costringere le popolazioni indigene, per acquisirne la quantià necessaria a pagare le imposte, a spostare le loro produzioni dall’autoconsumo al mercato dei beni oppure ad offrirsi come manodopera disponibile su di un mercato del lavoro in formazione. Come ha scritto C. Ake (A political economy of Africa, 1981) «non è che l’esperienza di pagare le tasse fosse nuova in Africa, ma era nuova la richiesta che le tasse venissero pagate in moneta europea… che era la misura critica per la monetizzazione delle economie africane nonché per la diffusione del lavoro salariato», così da fare di un intero continente la “loro Africa”, per parafrasare il titolo del romanzo autobiografico di Karen Blixen ma così reticente che, così come tace della sifilide che il marito le ha “regalato” (non però nel film tratto da romanzo), nulla dice della rivolta tentata nel febbraio 1922 dai kikuju contro l’obbligo, per l’appunto, di pagare le tasse in moneta britannica, al punto che Ngugi wa Thiang’o (Her cook, her dog. The Africa of Karen Blixen, 1980) l’ha bollato come «il più pericoloso scritto europeo sull’Africa e sul Kenya».
È stato questo lo “sporco segreto della accumulazione originaria coloniale” che M. Forstater ha ricostruito in Taxation: a secret of colonial capitalist (so called) primitive accumulation (2003), ma che comunque era già stato intravisto, se non da Marx, dal suo sodale Friedrich Engels che in una nota aggiunta al terzo libro del Capitale (1894) ha lasciato scritto come contadini russi e indiani fossero spinti a «vendere una parte del loro prodotto… al fine di ottenere del denaro per le imposte estorte loro dallo spietato dispotismo dello Stato… senza riguardo al loro costo di produzione e venduti al prezzo offerto dal commerciante, avendo il contadino assolutamente bisogno di denaro per la scadenza delle imposte». Ma se poi questi contadini non avessero avuto produzione propria da vendere, che altro potevano fare se non offrire il loro lavoro ai colonialisti pur di guadagnare un salario da girare come tassazione a quella “madrepatria” che per loro “madre” di nascita non era certamente, bensì soltanto “matrigna” per conquista militare? Oh, qual bontà del “sistema delle tasse”! Ha scritto ancora K. Marx che, «inaugurato per la prima volta in Olanda, il gran patriota De Witt l’ha quindi celebrato nelle sue Massime come il miglior sistema per rendere l’operaio sottomesso, frugale, laborioso e… sovraccarico di lavoro», ma senza portargli fortuna se, insieme al fratello, sarebbe finito linciato dai suoi concittadini nel 1672 come ha descritto A. Dumas nel romanzo Il tulipano nero (1850) a prova che se i giacobini di Parigi erano stati feroci con i reali di Francia, un secolo prima gli olandesi non erano stati da meno con i fratelli De Witt.