Come le parole costruiscono la realtà
di Daniela Calzolaio*
[Note dall’intervento al Maggio filosofico, 2023]
Una delle cose che accade quando gli Stati entrano in guerra – come in qualche modo suggerisce lo stesso Einstein nella sua lettera del ’32 a Sigmund Freud – è che le minoranze al potere attivino dei meccanismi di influenzamento della popolazione al fine di ottenere l’adesione alla propria politica. I vari mezzi di comunicazione di massa sono ovviamente un ottimo strumento in tal senso. Di solito, quando si pensa a questo fenomeno, la mente corre alla propaganda bellica. Non è in questo tema, però, che mi voglio addentrare qui: proverò, invece, a dire qualcosa sul linguaggio, con l’obiettivo di persuadervi di quanto le parole siano potenti e incredibilmente concrete nei loro effetti. A tal fine, lancerò delle rapide suggestioni volutamente colte da terreni estremamente distanti tra loro.
Comincio dunque col primo riferimento. Sono sicura che tutti conosciate Alice nel Paese delle Meraviglie (1865), ma forse pochi sanno che il suo autore, Lewis Carroll, era un professore di matematica all’Università di Oxford e uno studioso appassionato di logica, e che quel libro e il suo meno noto sequel Attraverso lo Specchio (1871) sono citati in testi importanti sulla comunicazione. C’è un personaggio di questo racconto – Humpty Dumpty – che, al termine di una bizzarra conversazione con Alice, sostiene qualcosa che qui, per noi, è di grande interesse:
«Quando io uso una parola» […] «questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno».
«Bisogna vedere» disse Alice «se lei può dare tanti significati diversi alle parole».
«Bisogna vedere» disse Humpty Dumpty «chi è che comanda… è tutto qua». (Carroll, 1871, p. 248 tr. it.) [1]
Andiamo adesso in un territorio lontanissimo da questo: quello dell’effetto placebo. In sintesi estrema, si può definirlo come l’effetto della somministrazione di un farmaco finto o, in generale, di una terapia finta. Questa comune e striminzita definizione non lascia vedere un aspetto fondamentale del fenomeno, ovvero il suo stretto legame con il contesto psicosociale intorno alla terapia, che include cose come i rituali terapeutici e le parole usate dal personale sanitario. Fabrizio Benedetti, professore di Fisiologia umana e Neurofisiologia all’Università di Torino, è considerato uno dei massimi esperti al mondo di effetto placebo. Nel suo libro La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia (2018), parla delle parole in un modo che è davvero d’impatto (ma attenzione a non trarne facili generalizzazioni: quanto riporto qui di seguito non significa in alcun modo che i farmaci possano essere sostituiti da parole né che le parole “funzionino” sempre, per tutti, in ogni malattia). Così scrive Benedetti:
«Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in vere e proprie armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre». (Benedetti, 2018, p. 8) [2]
Facciamo un nuovo salto. Voglio raccontarvi ora di George Lakoff e Mark Johnson, il primo linguista di stampo cognitivo e il secondo filosofo. Nel 1980 esce il loro libro Metafora e vita quotidiana, in cui si legge che non possiamo considerare la metafora semplicemente come una figura retorica, perché di natura metaforica è (almeno in gran parte) il nostro stesso sistema concettuale e i concetti sono ciò che struttura il nostro pensiero, ciò che percepiamo, il modo in cui agiamo (ovvero il modo in cui ci comportiamo nel mondo). La metafora ha il potere – scrivono – di «creare una realtà piuttosto che semplicemente concettualizzare una realtà preesistente» (Lakoff e Johnson, 1980, p. 193 tr. it.) [3].
È interessante notare che, più o meno negli stessi anni, qualcosa di (per certi versi) molto simile veniva affermato da Paul Watzlawick, uno dei massimi studiosi della comunicazione, che sosteneva che «un linguaggio non rispecchia la realtà, ma piuttosto crea una realtà» (Watzlawick, 1977, p. 24 tr. it.) [4].
Ci sono molti modi in cui possiamo dire ed esemplificare che un linguaggio “crea una realtà”: per esempio, potremmo riferirci alle singole parole usate per nominare le cose, alle metafore adoperate, a modelli comunicativi più ampi. Ho qui lo spazio per fare un solo esempio.
Le riflessioni che seguono sono certamente influenzate dai miei studi, ma hanno un carattere totalmente personale e quindi arbitrario. Spero però che possano offrire spunti, anche critici, per la riflessione e la discussione.
L’esempio di cui voglio discutere è legato a una parola: “sfida”. In questi mesi, l’abbiamo ascoltata o letta, in associazione alla guerra in Ucraina, un numero enorme di volte: «Putin sfida le nostre democrazie», «Questa è una sfida per l’Europa», «Dobbiamo raccogliere questa sfida per difendere i nostri valori». Potrei continuare quasi all’infinito. Non dovremmo stupirci più di tanto, perché si tratta di un termine davvero alla moda da parecchi anni, che troviamo dunque accostato a una grande varietà di situazioni e fenomeni (“sfida climatica”, “sfida energetica”, e così via). Ma possiamo pensare che l’assidua associazione tra “guerra” e “sfida” sia priva di conseguenze? Sino ad ora, in effetti, ho cercato di convincervi del fatto che le parole potenzialmente hanno conseguenze, e queste spesso sono legate ai loro poco appariscenti richiami semantici, valoriali, emotivi. Desidero, a questo punto, condividere due mie riflessioni su questa parola.
La prima è che, una volta entrati nell’ambito concettuale della “sfida”, cioè – potremmo dire – dentro la realtà creata da questa parola, ci troviamo dinanzi a certe alternative di comportamento tra cui scegliere (e non ad altre): quando siamo di fronte a una sfida, possiamo raccogliere oppure non raccogliere il guanto e, se decidiamo di farlo, disponiamo di certe mosse e di certe armi per cercare di vincere. Quanto ho detto significa anche che ci sono dei comportamenti che in questo ambito non sono contemplati, cioè “non esistono”: per esempio, trattare con lo sfidante è un’azione che non fa parte del nostro senso comune circa la sfida.
La seconda riflessione che voglio esplicitare è che, dentro l’ambito concettuale disposto da questa parola, le alternative di comportamento disponibili non sono tutte uguali. Alcune risultano, infatti, più desiderabili di altre: confrontati con una sfida, sentiamo di doverla accettare, perché nella nostra cultura la sfida intrattiene tradizionalmente un legame molto intenso con l’onore. Se accettiamo la sfida, restiamo degni di fronte agli altri e a noi stessi. Di converso, non raccogliere il guanto getta nell’infamia (a questo proposito, è il caso di notare che il discorso pubblico sulla guerra in Ucraina è pieno di parole che fanno riferimento all’ambito semantico-valoriale del coraggio-onorabilità da una parte e della viltà-indegnità dall’altra: un possibile modo per spiegare questa osservazione può essere trovato – io credo – in quanto ho sostenuto poc’anzi).
Per portare un po’ di acqua al mulino delle mie riflessioni, chiamerò ora in mio aiuto Lakoff e Johnson, gli studiosi della metafora che ho citato più sopra. C’è, in particolare, un esempio molto eloquente che i due hanno portato a sostegno delle loro argomentazioni: essi hanno notato come nelle nostre società occidentali sia diffusissima la metafora secondo cui “la discussione è una guerra” (il che – per inciso – è già di per sé interessante, perché ci mostra come noi concettualizziamo in termini di “guerra”, senza neanche accorgercene, una quantità di cose). Questa metafora è visibile in numerosissime espressioni di uso comune usate per riferirsi alle discussioni: per esempio, diciamo cose come “attaccare il punto debole” dell’argomentazione altrui, “colpire nel segno” con una critica, “avere la meglio” sull’interlocutore. Noi diciamo queste cose, e noi anche concettualizziamo le discussioni in termini di guerra: per esempio, vediamo il nostro interlocutore come un “nemico da battere”, pensiamo di dover “difendere la nostra posizione” e “attaccare la sua”, e così via. Non sorprende, allora, che molte delle cose che noi concretamente facciamo, quando siamo impegnati in una discussione, siano strutturate dal concetto di guerra. Tutto questo perché – dicono gli studiosi – «l’essenza della metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa in termini di un altro» (Lakoff e Johnson, 1980, p. 31-2 tr. it.) [3]. Comprendere e vivere. E’ ora interessante notare che, in un’ipotetica cultura in cui le discussioni fossero viste in modo differente, per esempio come una danza – suggeriscono ancora Lakoff e Johnson –, le persone le vivrebbero in modo diverso, si comporterebbero differentemente nel corso delle stesse, ne parlerebbero in modi altri.
Allora mi spingo a dire che cambiare metafore – in generale cambiare parole – può significare innescare cambiamenti che sono oltre e al di là di una pura questione linguistica o, meglio, che c’è un altro modo di vedere le “questioni linguistiche”: come qualcosa che è molto oltre e al di là di quanto abitualmente pensiamo di esse.
Le parole possono avere un potere straordinario, come ben sapeva Humpty Dumpty, e questo significa anche che il dare alle parole la giusta attenzione può essere un grande strumento di cittadinanza attiva nelle nostre mani.
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* Psicologa e psicoterapeuta.
[1] L. Carroll, Attraverso lo Specchio e Quello che Alice vi trovò, in Alice annotata, edizione annotata da M. Gardner, traduzione di M. D’Amico, BURextra Rizzoli, RCS Libri, Milano, 2010 (il testo originale di L. Carroll, Attraverso lo Specchio, è uscito nel 1871).
[2] F. Benedetti, La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Mondadori, Milano, 2018 (ebook).
[3] G. Lakoff, M. Johnson, Metaphors We Live By, University of Chicago, Chicago, Illinois, U.S.A., 1980 [tr. it. Metafora e vita quotidiana, ROI Edizioni, Macerata, 2022].
[4] P. Watzlawick, Die moglichkeit des andersseins. Zur technik der therapeutischen kommunikation, Verlag Hans Huber, Bern, 1977 [tr. it. Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1980].