Banche centrali, tassi di interesse e inflazione
di Toni Iero
Da più parti si parla diffusamente della stretta monetaria attuata dalla BCE, argomentando come l’innalzamento dei tassi di interesse comporterà una frenata della crescita economica (fino a poco tempo fa si parlava di recessione) e un aggravamento della posizione dei debitori (tra cui lo Stato italiano) causato dall’incremento del costo del servizio del debito.
D’altra parte, occorre tenere presente che la Banca Centrale Europea ha un limitato margine di manovra, stretta com’è tra la politica monetaria adottata dalla Federal Reserve americana e il rilevante aumento dell’inflazione registrato, seppure con intensità anche molto diverse, in tutti i Paesi europei.
In effetti, se guardiamo il grafico rappresentativo del tasso sui FED Funds (riportato qui sotto[1]), appare evidente l’impennata verificatasi nel corso del 2022.
Un andamento non dissimile si ritrova, con riferimento agli ultimi mesi, anche nel principale tasso di politica monetaria della Banca Centrale Europea[2] (si noti che l’arco di tempo considerato è diverso nei due grafici a causa della diversa disponibilità di dati).
Siamo quindi di fronte ad una accentuata stretta monetaria che, sulle due sponde dell’Atlantico, mette a rischio la crescita economica? Prima di sottoscrivere una tale affermazione, sarebbe il caso di considerare che, nella maggior parte dei casi, quello che conta in termini di effetti sul comportamento degli operatori economici non è tanto il tasso di interesse nominale, bensì il tasso reale, ossia quello calcolato al netto dell’inflazione. I due grafici che seguono associano al tasso nominale delle due banche centrali l’inflazione[3] delle rispettive aree economiche.
Osservando i due grafici precedenti, si nota come spesso l’inflazione risulti maggiore del tasso di politica monetaria, configurando in tal modo lunghi periodi in cui i tassi reali sono stati negativi. Per chiarezza, qui sotto si riporta il grafico rappresentante proprio i tassi reali di politica monetaria delle due banche centrali prese in considerazione.
Nel periodo da dicembre 2008 a gennaio 2023, la FED ha operato con tassi reali negativi per 137 mesi (80,6% del periodo esaminato), la BCE per 142 mesi (83,5% del periodo esaminato). In particolare, entrambe le banche centrali presentano tassi reali negativi particolarmente accentuati proprio nel corso degli ultimi 18 mesi, effetto determinato da un aumento dell’inflazione più forte dell’aumento dei tassi di politica monetaria.
È giustificata l’accusa, rivolta ai due istituti di emissione, di praticare una politica monetaria restrittiva nel momento in cui la dinamica dell’aumento dei loro tassi di interesse è inferiore a quelle dell’incremento dei prezzi al consumo?
Su un altro piano, qualche dubbio sul fatto che l’intervento sui tassi di interesse abbia come finalità (o sia efficace per) il governo dell’inflazione emerge dalla lettura dei dati storici. Se così fosse, ci si dovrebbe aspettare una apprezzabile correlazione tra tassi di politica monetaria e incremento dei prezzi al consumo, magari con un certo ritardo dovuto ai tempi necessari per la trasmissione degli impulsi della politica monetaria dalla banca centrale agli operatori economici (imprese e famiglie). Ebbene, i coefficienti di correlazione tra tassi di politica monetaria e tasso di inflazione, a seconda dell’entità del ritardo preso in considerazione, sono i seguenti:
Ritardo | FED | BCE |
3 mesi | 15,92% | 13,57% |
6 mesi | -2,96% | 8,44% |
9 mesi | -16,33% | 4,95% |
12 mesi | -20,78% | 2,17% |
15 mesi | -18,18% | -0,26% |
18 mesi | -12,17% | -2,35% |
Al di là del segno, prevalentemente negativo nel caso della FED e per lo più positivo per la BCE, il modesto valore assoluto di tali indicatori porta alla conclusione che, almeno nell’intervallo temporale esaminato, non vi sia una relazione significativa tra tassi di politica monetaria e andamento dell’inflazione[4]. Insomma, la variazione dei prezzi al consumo sembra essere influenzata solo marginalmente dagli interventi sui tassi da parte delle banche centrali. Il massimo dell’effetto si rileva dopo 12 mesi per la FED e dopo 18 mesi per la BCE.
Si tratta di un tema controverso ma, almeno in prima approssimazione, sembrerebbe che la dinamica dell’inflazione sia scarsamente sensibile alle condizioni di politica monetaria e risulti invece consistentemente legata alle vicende che attraversa il mondo dell’economia reale (materie prime, libertà di scambio, catene di fornitura, trasporti, etc.).
Insomma, gli interventi sui tassi effettuati dalle banche centrali, se sono rivolti a governare l’inflazione, appaiono inefficaci. Varrebbe allora la pena pensare ad altre finalità. In questo senso appare interessante la tesi recentemente riproposta da alcuni autori che suggeriscono come il livello dei tassi di interesse fissati dalla banca centrale vada messo in relazione alle condizioni di solvibilità da applicare agli operatori economici (imprese in primis)[5]. Insomma, la determinazione del tasso di politica monetaria sarebbe un complesso meccanismo finalizzato a regolare l’equilibrio tra posizioni creditorie e posizioni debitorie all’interno di un determinato sistema economico. Con buona pace della cosiddetta Taylor’s Rule[6].
Per concludere, vale la pena accennare ad altri due temi relativi all’andamento reciproco di tassi e inflazione.
Vi è abbondanza (e concordia) di commenti sui nefasti effetti che l’incremento dei tassi, attuato dalla BCE, avrà sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. Si sostiene, in sostanza, che la maggiore spesa per interessi rischi di mettere in crisi l’equilibrio finanziario (in verità, già piuttosto precario) dello Stato. Pochi, invece, hanno richiamato l’attenzione sulla svalutazione del valore reale del debito pubblico conseguente al rilevante incremento dell’inflazione. Una stima grossolana, calcolata in attesa dei dati definitivi di Istat e ipotizzando che il deflatore del PIL italiano sia simile al tasso medio di inflazione del 2022 (8,1%), porta a ritenere che l’incremento dei prezzi comporterà una riduzione di circa 10 – 11 punti dell’incidenza del debito pubblico sul PIL nel corso del 2022. Non proprio un’inezia!
Quindi tutto bene? No, perchè vi è un ulteriore aspetto di cui è necessario essere consapevoli. Dal grafico che segue si nota bene come l’inflazione italiana si presenti superiore a quella di molti degli altri Paesi europei.
Quindi i prezzi con cui opera il sistema produttivo italiano stanno crescendo più rapidamente di quelli dei Paesi concorrenti. Se tale situazione persistesse anche in futuro (specialmente con gli attuali ampi differenziali) tenderebbe a penalizzare molte produzioni italiane, poiché esse risulteranno più costose di quelle dei concorrenti europei. Questo si rifletterà negativamente nel saldo commerciale con l’estero (più importazioni e meno esportazioni), già in rosso a causa dell’impennata dei costi dell’energia. Ricordiamo che una delle condizioni di sostenibilità del nostro debito pubblico è rappresentata dalla posizione netta sull’estero[7], oggi moderatamente positiva, raggiunta proprio grazie ad apprezzabili avanzi commerciali con il resto del mondo, conseguiti a partire dal 2012. Se la bilancia commerciale con l’estero dovesse stabilmente ritornare in deficit si aprirebbero scenari complicati per l’Italia. Infatti, più in generale, la perdita di competitività che potrebbe derivare da una perdurante maggiore inflazione rispetto ai principali partner europei si rifletterebbe in un ulteriore impatto negativo sul nostro sistema industriale. Quest’ultimo già adesso soffre a causa di diversi fattori come la minor innovazione tecnologica, le dimensioni aziendali inferiori, etc. Una ulteriore erosione della base industriale italiana porterebbe inevitabilmente ad un diffuso impoverimento del Paese: se qualcuno pensa che una nazione delle dimensioni dell’Italia possa crescere (economicamente, socialmente e culturalmente) solo grazie a turismo, edilizia ed “eccellenze enogastronomiche” ha fatto male i propri conti.
Marzo 2023
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[1] Federal Reserve of St. Louis. Economic Research Divisiom.
[2] BCE. Main Refinancing Operations Rate.
[3] Inflazione USA: US Bureau of Labor Statistics. Inflazione UE: Eurostat.
[4] Addirittura, nel caso della BCE, emerge il paradosso che un aumento dei tassi di politica monetaria sia spesso seguito da un aumento dell’inflazione e viceversa nel caso di riduzione dei tassi (infatti i coefficienti di correlazione sono sempre positivi per i primi 12 mesi).
[5] Brancaccio E. Giammetti R., Lucarelli S., La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis 2022.
[6] Regola elaborata nel 1993 dall’economista statunitense J.B. Taylor, che indica come la banca centrale dovrebbe far variare il tasso di interesse nominale in risposta a shock che provochino lo scostamento del PIL reale e del tasso di inflazione dai loro valori obiettivo.
[7] La posizione netta sull’estero (anche nota con l’acronimo inglese NIIP da Net international investment position) è la differenza tra le attività e le passività finanziarie esterne di un Paese.
E’ stato difficile ma finalmente ho trovato un articolo scritto bene e soprattutto obiettivo rispetto a quanto stia accadendo. La manovra monetaria dei tassi di sconto sarà inutile e forse dannosa rispetto al contenimento dell’inflazione. In europa l’inflazione importata imporrà alle imprese di scaricare sui listini di vendita l’aumento dei tassi di interesse, alimentando di fatto l’inflazione. Speriamo si fermi questo massacro economico!
Per approfondimenti https://www.ascuoladimpresa.net/tassi-di-interesse-inflazione/