Wesh, wesh, che c’è in Francia?
di Luca Salza
Gennaio 2023, manifestazioni e cortei di giovani, lavoratori, pensionati, disoccupati percorrono le strade delle città francesi.
Un sacco di gente.
Sono numeri di un secolo fa.
Il 19 gennaio sfilano più di tre milioni di persone… Si battono contro la riforma delle pensioni che vuole imporre il governo presieduto da Macron e diretto dalla prima ministra Borne. Ma non lottano solo per questo. Due anni in più sono tanti. Tuttavia, il fondo della questione, dibattere di pensioni, si squarcia, perché parlare di pensioni significa mettere in gioco anche la questione dei salari, il senso stesso del lavoro, la società, il suo funzionamento. La vita che facciamo. (è un caso che la riforma delle pensioni sia l’ossessione di tutti i governi liberisti?).
(…) La più grande manifestazione degli ultimi trent’anni!
Febbraio? Fa più fresco, ma si continua.
Ancora per strada, a marzo. Il 7 marzo 250.000 persone sono in corteo solo a Marsiglia. Oltre tre milioni in tutta la Francia.
Eppure, eppure…
Eppure sembra che non stia succedendo nulla. Forse non sta succedendo nulla.
Come? Che dici?
Da decenni non si vedevano manifestazioni del genere… Tutta questa febbrilità nelle strade…
Appunto, siamo in un film di anni fa.
I sindacalisti alzano la voce, aggrottano le sopracciglia, fanno fermare qualche settore (innanzitutto nei servizi pubblici), organizzano cortei festosi.
Familiari.
Quasi scampagnate. Ci sono birre e wurstel a poco prezzo.
I sindacati portano qualche spiccio nelle loro casse.
In cambio fanno uscire vecchie musiche dai loro altoparlanti. Zebda… I soliti slogan. Identici, dal 1995: «Tous ensemble, tous ensemble, yeah!».
Noi camminiamo con loro. In molti non vogliamo recitare in questo film. E già successo altre volte: cortei, cortei, cortei; settimane, giorni, ore: ore di salario perse. Ripetizione senza differenza. Sappiamo come va a finire.
Esausti, la smettiamo e il governo di turno incassa la sua vittoria. Dopo il 1995 è quasi sempre andata così. (Ma, diceva Rosa L., la storia del movimento operaio non può che essere un susseguirsi di sconfitte, fino alla fine, che è la rivoluzione).
Siamo in un vecchio film, ci sentiamo un po’ così in quei cortei, in quelle numerose «giornate di azione» (lessico sindacale per evitare la troppo compromessa parola sciopero), giornate di azione senza azione: siamo felici, siamo protagonisti del film, ma manca qualcosa. Poca azione (non siamo a Hollywood, ma in un interno malinconico, un locale del sindacato forse). Soprattutto è assente l’antagonista.
(Immagina un film con gli indiani, senza i cattivi cercatori d’oro…)
Macron non c’è.
Nelle stanze del potere non c’è nessuno. Il vuoto.
Il sindacato voleva il suo antagonista. Nel loro film, ci voleva. Come tanti anni fa, loro battevano, con eleganza, senza fracasso, il pugno sul tavolo e l’antagonista arrivava. A volta bastava annunciare solo lo sciopero. Il governo allora si sedeva subito ad una delle due estremità del tavolo e si metteva a trattare coi sindacati. Trovavano un compromesso.
Ma appunto chi è Macron? La fine di quel compromesso capitale-lavoro.
Almeno questo, è chiaro (è chiaro?).
E stato scelto, lui, per terminare la guerra contro il vecchio mondo (quello delle garanzie sociali offerte dal Welfare State, di cui forse, come dice Friot, le pensioni sono il sigillo) che i vecchi presidenti francesi, socialisti o di destra, non sono riusciti a compiere. Troppi lacci o lacciuoli, con troppi interessi da difendere. Non ce l’hanno fatta a svuotare tutto.
Macron deve finalmente mettere tutto fuori, o a terra, sicuramente in vendita.
La liquidazione è la battaglia decisiva della guerra.
Per questo Macron non c’è per i sindacati. Non c’è per nessuno probabilmente. Non esiste. Una fiction inventata dai mercati finanziari.
I sindacati sono ancora al tavolo ad aspettarlo. Ancora ora.
Nascosto da qualche parte, nel suo sordo silenzio, l’Eletto ha un elmetto. Spara. Come un soldato in un vecchio film. Deve sparare per salvarsi. Non ha altra scelta. Sparagli Piero, sparagli adesso. Emmanuel Macron lo sa. Non vuole fare la fine di Piero. La guerra è ora. Tira il petto fuori, gigioneggia a reti unificate (la smorfia di troppo?).
Non ha i numeri in Parlamento? Che importa? Scova un dispositivo della costituzione gollista (beata democrazia) che permette al governo di approvare delle leggi senza il voto del parlamento (beata democrazia e beato legalismo).
49.3.
Sono delle cifre. Come quelle di un carrarmato o di una mitragliatrice.
Con questo numero in verità vi dico: non voglio più niente davanti a me, a noi. Nemmeno i miei compari di destra.
Non c’è nessuno in Parlamento.
Chi non lo capisce è un cretino.
Altrove, chissà dove?, si decide.
Finis politicae. Finis rei publicae.
La politica? La… cosa? Missed. Solo la polizia.
49.3.
Sono dei numeretti.
O una formula magica?
Quando la prima ministra pronuncia questa cifra accade l’imprevisto. Anziché rintanarsi nelle loro tiepide case, giovani, lavoratrici, disoccupate, pensionate, inoccupate cercano la strada, si gettano per strada, senza aspettare i richiami dei sindacati. Spontaneamente.
Tam-tam: la voce arriva a tutte. Tutti fuori.
Una risposta straripante al vuoto. Un grido munchiano nel vuoto. Una mano, una fragile mano, che cerca di frenare la catastrofe.
Occupano il vuoto. La piazza più vuota di Parigi, la Place de la Concorde, la piazza di fronte all’Assemblea Nazionale, è invasa dal popolo di Parigi. Un venerdì sera difficilmente dimenticabile.
I poliziotti caricano, spruzzano gas. Circondano i manifestanti. Ne arrestano 50 o 100. Fanno il loro lavoro di guardia.
Svuotano la piazza.
Il vuoto?
No, la «folla» – nella lingua neoliberista di Macron anche «branco» – inizia a tracciare, ogni notte – impassibile, inarrestabile, invincibile – strani labirinti per le strade di Parigi, di Lille, di Lione, di Bordeaux. I «branchi» riempiono delle città, solitamente morte, squallidamente tetre, somme senza scarti di stanche sopravvivenze, o fintamente allegre, consegnate al consumismo di turisti e al chiasso delle terrazze dei bar.
Qualcosa è successo. Le città sono di nuovo colme. Dell’errare, disperato e vitale, di giovani in rivolta: macchine da guerra imprevedibili. È vuoto solo il palazzo dell’Eliseo.
Le manifestazioni notturne si susseguono.
Intanto, fin dall’alba, picchetti risoluti davanti alle raffinerie, agli inceneritori, nelle stazioni. Bisogna bloccare tutto.
Riappaiono su qualche crocicchio i gilets gialli. Fermano di nuovo i flussi (rendiamo onore al loro coraggio, hanno pagato con prigione, processi, mutilazioni, ma tutto è re-iniziato con loro).
I netturbini continuano il loro straordinario sciopero. Carla Bruni deve sfilare fra i cumuli di immondizia delle vie del suo elegante quartiere. Dove sono le passerelle di Versace? Triste, solitario y final.
Vecchie figure, storiche, del movimento operaio sono, come sempre, presenti e combattive: ferrovieri, tranvieri, operai e tecnici dell’ente per l’energia elettrica. Guardano, attoniti e felici, le migliaia di giovani, colorati, energici, maschi, femmine, trans, nogender, queer… I lockdown, la depressione per una istruzione che non dà gioia, né futuro, ma solo insicurezze, non hanno avuto ragione di loro.
Sono in tanti. Vogliono vivere. Schiavi, non maledicono più la sorte: «l’amour est à réinventer». I ragazzi e le ragazze hanno sempre lo stesso poeta, Rimbaud. La vita.
Sono loro la novità principale, più bella, sono loro che danno slancio alle ultime manifestazioni. Un giorno, il 23 marzo 2023, una data particolare, 23/03/23, un grande fragore. Una notizia… delle voci si diffondono: tutto quello che ci hanno raccontato negli ultimi trenta, quaranta anni è falso. Un’impressionante manifestazione fra la Bastiglia e place de l’Opéra destituisce gli idoli del presente: ce lo chiede l’Europa, le riforme sono necessarie, l’aspettativa di vita si è allungata (infami, chiedetelo alla classe operaia), attenzione allo spread, bla bla bla bla. È tutto un blaterare. Il 23/03/23 è dadaista perché smonta e ridicolizza tutto. Annuncia, come Zarathustra, la nuova verità o solo la fine delle antiche menzogne. Non parla, in effetti. Poche, efficaci, parole durante il corteo. L’inno dei gilets gialli: «On est là, on est là, pour l’honneur des travailleurs et pour un monde meilleur». Tutto è detto. Qualche giovane sale sul tetto di un palazzo haussmaniano e fa dei gesti. Bisogna stare attenti soprattutto.
Polizia provoca. Polizia picchia. Vecchio professore con bombetta charlottesca si muove strampalato. I suoi occhi pizzicano. Brucia la pelle. Non correte, non correte… Abbiamo le mani in alto. Abbiamo ragione.
Di fronte, in mezzo, pazzi furiosi sfrecciano sulle motociclette brandendo manganelli. Fieri. I loro attributi sono grossi. Frasi di Gadda rimbombano in testa: i soli genitali disponibili sulla piazza, e comunque i più eretti, i più validi, i più grossi, i più rossi.
Alti quanto l’obelisco della Concorde.
Non vogliamo misurare con loro né i nostri muscoli né altro. Basta. La vita…
Teneteveli. Mostrateli pure.
A difesa del vuoto.
A guardia dell’Hotel de la Marine, comprato da un fondo di investimento del Qatar.
In assetto di guerra.
Sono in guerra.
L’ultima battaglia.
I parlamentari del partito-azienda di Macron fanno baldoria, gridano vittoria, senza vergogna, dopo l’adozione, via il 49.3, della legge per l’innalzamento dell’età pensionabile.
Ostriche e champagne.
Noblesse oblige. La nobiltà è obbligatoria, traduce Totò.
Oppure no.
Place de la Concorde è situata nella parte occidentale della città. Dove abitano Carlà e Sarkozy. Il paradiso della città, diceva Zola. C’è luce e aria pura. Dietro c’è l’Eliseo, il palazzo vuoto.
Place de la Concorde, tuttavia, è stata, per un tempo, Place de la Révolution. Vi perse la testa Luigi XVI.
Qualcosa è successo.
Una memoria storica sotterranea, come uno spettro, si è materializzata.
Quel venerdì, la piazza non è piena di macchine e di bus turistici. Ci sono scioperanti, uomini e donne in carne ed ossa che non si sono arresi. Una mano dispettosa scrive su una lamiera: «l’ombra della ghigliottina arriva».
La tradizione politica francese è di nuovo là.
1789
1830
1848
1871
1936
1968
1995
2006
23/03/23?
Forse…
Chissà cosa succede, adesso, dopo il 23/03/23?
Non possiamo sapere niente. Forse, stanchi, tutti torniamo a casa. Troppa repressione, troppa violenza. Troppo difficile. Troppi pochi soldi per fare ancora sciopero. Troppo care le bollette da pagare. Troppo indecente il costo della vita. L’inflazione, la desolazione generale, la guerra (la guerra! le armi, nuove armi), no future, è il modo di governare e di farci vivere delle élite dirigenti liberali, da Pinochet in poi. Noemi Klein la chiama strategia dello choc, io cultura della putrefazione. I guerrieri sono sempre mortiferi. Vogliono un cimitero per comandare. Nemmeno i morti sono tranquilli. Hanno stravinto.
Ma dentro questa fine senza fine, può anche accadere, perché no?, che «la lutte continue»…
Già la settimana prossima sono previste nuove manifestazioni. I picchetti continuano…
La primavera sarà calda? Dentro la catastrofe climatica, un altro dis/astro, spostamento di astri, un altro orizzonte degli eventi, forse, pourquoi pas?: il comunismo è una questione nuova.
23/3/2023