Pasolini, ultima vittima di Salò
di Giorgio Gattei
Premessa
A quasi cinquant’anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini la Commissione Antimafia della passata legislatura ha avanzato il sospetto che Pasolini possa essere stato ammazzato perché attirato in una trappola nel vano tentativo di recuperare le bobine del suo film Salo’ o le 120 giornate di Sodoma, allora in lavorazione, che erano state rubate da ignoti. Anch’io ho cavalcato quel sospetto e ne avevo scritto in un opuscoletto pubblicato nel 2010 dalla casa editrice bolognese “Ogni uomo è tutti gli uomini” senza però alcuna risonanza. Ora lo ripresento sul sito del “Maggio filosofico” augurandomi che possa avere una migliore circolazione
(G.G.)
Dalla “Abiura” al film «inguardabile e crudele»
Nel 1974 ebbi l’incarico dall’editore Cappelli di trascrivere dalla pellicola alla carta (allora non c’erano le videocassette ed i films bisognava ricordarseli oppure… leggerli!) la “Trilogia della vita” di Pier Paolo Pasolini per la collana “Dal soggetto al film” diretta da Renzo Renzi (consegnai all’editore il testo del Decameron a maggio, quello dei Racconti di Canterbury a settembre e infine quello del Fiore delle mille e una notte a novembre). Nel 1975, a lavoro ultimato, conobbi Pasolini che stava girando alcune scene del suo film successivo proprio a Bologna. Io giustificai l’approssimativa trascrizione delle scene e dei dialoghi che avevo tratto dalle pellicole (non avevo avuto alcuna sceneggiatura di supporto e quindi operavo direttamente alla moviola) e lui s’impegnò a scriverci una prefazione, che infatti uscì ad incipit del libro edito nell’ottobre di quell’anno[1]. Mai però avrei pensato che in quella prefazione Pasolini avrebbe pubblicamente fatto Abiura dalla “Trilogia della vita”!
Sviluppando un concetto già espresso nel dicembre 1973 al convegno bolognese su Erotismo, eversione, merce («mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei films eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi»[2]), in quella estensione della visibilità cinematografica dell’osceno, a cui aveva partecipato da maestro, Pasolini non trovava più alcun significato trasgressivo (come pure era stato all’inizio, da cui le tante denunce che avevano perseguitato il Decameron) perché, trasformata in un “genere” di cassetta (i film “boccacceschi”), l’oscenità cinematografica era solo servita a legittimare perfino i cinema “a luci rosse” in cui la pornografia filmica, da sempre confinata alla clandestinità, offriva allo spettatore, in assenza di qualsiasi intenzione artistica, il piacere di vedere finalmente “tutto del sesso” in un colossale voyeurismo di massa che regrediva i fruitori alla “scena primaria” freudiana (i genitori colti “sul fatto”) con l’aggravante del senso di colpa di aver pagato per vederli. Per questo Pasolini poteva dichiarare nella sua Abiura che «ormai odio i corpi e gli organi sessuali. Naturalmente parlo di questi corpi, di questi organi sessuali. Cioè dei corpi dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani», poveri individui ridotti dalla “mercificazione consumistica” ad essere «immondizia umana:… degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti»[3].
Pier Paolo Pasolini, Dalla Abiura dalla “Trilogia della vita”
1. Io penso che, prima non si debba mai, in nessun caso, temere la strumentalizzazione da parte del potere e della sua cultura. Bisogna comportarsi come se questa eventualità pericolosa non esistesse. Ciò che conta è anzitutto la sincerità e la necessità di ciò che si deve dire. Non bisogna tradirla in nessun modo, e tanto meno tacendo diplomaticamente, per partito preso.
Ma penso anche, che, dopo, bisogna saper rendersi conto di quanto si è stati strumentalizzati, eventualmente, dal potere integrante. E allora se la propria sincerità o necessità sono state asservite o manipolate, io penso che si debba avere addirittura il coraggio di abiurarvi. Io abiuro dalla “Trilogia della vita”, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso.
Tale sincerità e necessità hanno diverse giustificazioni storiche e ideologiche. Prima di tutto esse si inseriscono in quella lotta per la democratizzazione del “diritto a esprimersi” e per la liberalizzazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli Anni Cinquanta e Sessanta.
In secondo luogo, nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli Anni Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei “mass media” e quindi della comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali. Infine, la rappresentazione dell’eros, visto in un ambito umano appena superato dalla storia, ma ancora fisicamente presente (a Napoli, nel Medio oriente) era qualcosa che affascinava me personalmente, in quanto singolo autore e uomo. Ora tutto si è rovesciato.
Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.
Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.
2. Però, a coloro che criticavano, dispiaciuti o sprezzanti, la “Trilogia della vita”, non venga in mente di pensare che la mia abiura conduca ai loro “doveri”. La mia abiura conduce a qualcos’altro. Ho il terrore di dirlo: e cerco, prima di dirlo, com’è mio “reale” dovere, degli elementi ritardanti. Che sono:
a) l’intrasgredibile dato di fatto che, se anche volessi continuare a fare film come quelli della “Trilogia della vita”, non lo potrei: perché ormai odio i corpi e gli organi sessuali. Naturalmente parlo di questi corpi, di questi organi sessuali. Cioè dei corpi dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani. Mi si obietterà: “Tu per la verità non rappresentavi nella “Trilogia” corpi e organi sessuali contemporanei, bensì quelli del passato”. È vero: ma per qualche anno mi è stato possibile illudermi. Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dir che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano – che son poi quelli che io ho proiettato nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo – se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.
b) I miei critici, addolorati o sprezzanti, mentre tutto questo succedeva, avevano dei cretini “doveri”, come dicevo, da continuare a imporre: erano “doveri” vertenti la lotta per il progresso, il miglioramento, la liberalizzazione, la tolleranza , il collettivismo ecc. ecc. Non si sono accorti che la degenerazione è avvenuta proprio attraverso una falsificazione dei loro valori. Ed ora essi hanno l’aria di essere soddisfatti! Di trovare che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta più democratica, più tollerante, più moderna ecc. Non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l’Italia: relegano questo fenomeno nella cronaca e ne rimuovono ogni valore. Non si accorgono che non c’è alcuna soluzione di continuità tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono: e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani.[…] Non si accorgono che la liberalizzazione sessuale, anziché dare leggerezza e felicità ai giovani e ai ragazzi, li ha resi infelici, chiusi, e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi: ma di ciò addirittura non vogliono occuparsene, perché non gliene importa niente dei giovani e dei ragazzi.[…]
3. Insomma, è ora di affrontare il problema: a cosa mi conduce l’abiura dalla “Trilogia”?
Mi conduce all’adattamento. Sto scrivendo queste pagine il 15 giugno 1975, giorno di elezioni. So che se anche – com’è molto probabile – si avrà una vittoria delle sinistre, altro sarà il valore nominale del voto, altro il suo valore reale. Il primo dimostrerà una unificazione dell’Italia modernizzata in senso positivo; il secondo dimostrerà che l’Italia – al di fuori naturalmente dei tradizionali comunisti – è nel suo insieme ormai un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici. L’Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente. Tout va bien: non ci sono nel paese masse di giovani criminaloidi, o nevrotici, o conformisti fino alla follia e alla più totale intolleranza, le notti sono sicure e serene, meravigliosamente mediterranee, i rapimenti, le rapine, le esecuzioni capitali, i milioni di scippi e di furti riguardano la pagina di cronaca dei giornali, ecc. ecc. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione.
Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (“Salò”?)[4].
Alla nuova realtà dell’omologazione edonistica imposta dal capitale consumistico anche Pasolini si sarebbe quindi adattato, ma da par suo e cioè cinematograficamente ed in una maniera ancora così scandalosamente eversiva da non poter più essere “recuperata” dal sistema. Perché questa volta egli avrebbe portato sullo schermo proprio il sesso trionfante, ma come imposizione, come «obbligo e bruttezza»[5], un sesso che si sarebbe rivelato portatore di morte invece che di liberazione.
È stato questo il tragico significato da lui affidato a Salò o le 120 giornate di Sodoma, un adattamento filmico del testo maledetto del marchese de Sade riambientato nei tempi oscuri della Repubblica Sociale Italiana. La pellicola venne finita di girare (in parte anche a Bologna) proprio nel 1975, ma quando uscì in prima nazionale il 10 gennaio 1976 Pasolini era già stato assassinato all’Idroscalo di Ostia la notte sul 2 novembre 1975. Allora subito sequestrato, processato, condannato, poi riprocessato e solo alla fine assolto (tanto da poter circolare nelle sale dal febbraio 1977), questo ultimo film di Pasolini resta a tutt’oggi insopportabile allo sguardo e soprattutto irrecuperabile sul piano cinematografico. Non è un caso che nessuno l’abbia preso ad imitazione né che da esso sia scaturito alcun “genere” cinematografico. Così Salò rimane nella storia del cinema un masso erratico inqualificabile, un pugno in faccia al pubblico cinefilitico. Infatti, come qualcuno subito profetizzò, «da questo film (film?) non si caverà mai nulla di buono» perché «Salò non è un valore, né d’uso né di scambio, se ha avuto una committenza l’ha scordata, se ha avuto un autore l’ha ucciso (letteralmente) prima di potersi dare come valore»[6].
Pier Paolo Pasolini, Dalla auto-intervista al “Corriere della Sera” del 25 marzo 1975
– […] E allora Salò?
Salò sarà un film “crudele”, talmente crudele che (suppongo) dovrò per forza distanziarmene, fingere di non crederci e giocare un po’ in modo agghiacciante. […] Nel ’70 ero nella valle della Loira. Facevo dei sopralluoghi per il Decameron. […] Mi hanno dato da leggere un libro su Gilles de Rais e i documenti del suo processo, pensando che potesse essere un film per me. Ci ho pensato seriamente per qualche settimana. […] Naturalmente poi ci ho rinunciato. Ero ormai preso dalla Trilogia della vita.
– Perché?
Un film “crudele” sarebbe stato direttamente politico (eversivo e anarchico, in quel momento): quindi insincero. Forse ho sentito un po’ profeticamente che la cosa più sincera dentro di me, in quel momento, era fare un film su un sesso la cui gioiosità fosse un compenso – come infatti era – alla repressione: fenomeno che stava per finire ormai per sempre. La tolleranza di lì a poco avrebbe reso il sesso triste e ossessivo. Ho evocato nella Trilogia i fantasmi dei personaggi dei miei film realistici precedenti. Senza più denuncia, ovviamente, ma con un amore così violento per il “tempo perduto”, da essere una denuncia non di qualche particolare condizione umana ma di tutto il presente (permissivo per forza). Ora siamo dentro quel presente in modo ormai irreversibile: ci siano adattati. La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante che, di tutte le repressioni, è la più atroce. Niente di gioioso c’è più nel sesso. I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti.
– È questo che vuole esprimere in Salò?
Non lo so. Questo è il “vissuto”. Certo non ne posso prescindere. È uno stato d’animo. È quello che cova nei miei pensieri e che soffro personalmente. Dunque è questo forse ciò che voglio esprimere in Salò. Il rapporto sessuale è un linguaggio (ciò, per quanto mi riguarda, è stato chiaro ed esplicito specialmente in Teorema): ora i linguaggi o sistemi di segni cambiano. Il linguaggio o sistema di segni del sesso è cambiato in Italia in pochi anni, radicalmente. Io non posso essere fuori dell’evoluzione di alcuna convenzione linguistica della mia società, compresa quella sessuale. Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali. Da ciò deriva un comportamento sessuale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Per me dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile.
– In pratica per quanto riguarda Salò…
Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni, il sesso come obbligo e bruttezza.
– Mi sembra di capire, però, che in lei ci siano anche altre intenzioni, meno interiori, forse, ma più dirette…
Sì, ed è a queste che voglio arrivare. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. Tutto il contrario che nella Trilogia (se, nelle società repressive, il sesso era anche un’irrisione innocente del potere).
– Ma le sue Centoventi giornate di Sodoma non si svolgono appunto a Salò nel 1944?
Sì, a Salò, e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. Quel potere arcaico mi facilita la rappresentazione. In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme… E poi… Ecco: è il potere che è anarchico. E, in concreto, mai il potere è stato più anarchico che durante la Repubblica di Salò.
– E De Sade che c’entra?
C’entra, c’entra, perché De Sade è stato appunto il grande poeta dell’anarchia del potere.
– Come?
Nel potere – in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo – c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e render attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. L’anarchia degli sfruttati è disperata, idillica, e soprattutto campata in aria, eternamente irrealizzata. Mentre l’anarchia del potere si concreta con la massima facilità in articoli di codice e in prassi. I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli.
– Ma in pratica come tutto ciò si realizza nel film?
È semplice, più o meno come nel libro di De Sade: quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore), ontologici e perciò arbitrari, “riducono a cose” delle vittime umili. E ciò in una specie di sacra rappresentazione che, seguendo probabilmente quella che era l’intenzione di Sade, ha una specie di organizzazione formale dantesca. Un Antinferno, e tre Gironi. La figura principale (di carattere metonimico) è l’accumulazione (dei crimini): ma anche l’iperbole (vorrei giungere al limite della sopportabilità) [7].
Sulla morte di Pasolini
Al di là della sentenza giudiziaria finale che ne attribuisce la responsabilità al solo Pino Pelosi, sulla circostanza della morte di Pasolini si sa ben altro. Niente affatto esito tragico di un litigio per una prestazione sessuale malvoluta, essa si presenta sempre più come l’aggressione premeditata di più persone che aspettavano il regista all’Idroscalo per dargli (come anche ipotizzato dalla sentenza della Corte di primo grado) «una lezione per un precedente ‘sgarbo’» [8]. Ma per quale “sgarbo” infame Pasolini avrebbe dovuto essere così selvaggiamente punito? C’è chi ha avanzato la supposizione che lo “sgarbo” potesse essere contenuto in un capitolo del romanzo Petrolio che il regista stava allora scrivendo, dove sarebbe stato denunciato l’effettivo mandante della morte di Enrico Mattei, da cui la necessità di sopprimerlo e sottrarre il manoscritto. In effetti di quel capitolo resta soltanto la prima pagina, con il titolo di “Lampi sull’ENI”, perché il resto ci si dice che sarebbe stato trafugato da ignoti subito dopo la morte del regista. Di recente un esponente politico di riguardo, anche bibliofilo, aveva annunciato di aver avuto modo di vedere quel testo che finalmente sarebbe stato esposto alla Mostra del Libro Antico di Milano del marzo 2010. Però poi l’apparizione dell’inedito non c’è stata, mentre da parte di testimoni autorevoli si è messa in dubbio l’esistenza sia del manoscritto che del furto[9].
Che la “rivelazione” dell’uomo politico di riguardo sia stata soltanto una presa in giro? Niente affatto, perché un fondo di verità è pur stato sollevato dalla polemicaccia subito sgonfiatasi. E cioè che un furto ai danni di Pasolini in effetti c’è stato, ma esso riguardava il film Salò, la cui ultima scatola di negativi impressionati venne rubata nell’estate del 1975 dai laboratori della Technicolor sulla Tiburtina. E c’è chi ha ricordato come il regista venisse perfino contattato per concordare l’eventuale riscatto della pellicola. Il produttore del film Alberto Grimaldi, che era ne era giuridicamente il proprietario, se ne tirò però fuori limitandosi a denunciare il furto all’autorità giudiziaria. Pasolini invece si sarebbe mosso autonomamente per recuperare il filmato fino ad accettare un incontro fuori Roma con quei “ladri di Salò” che però non cercavano affatto dei soldi, bensì volevano soltanto attirarlo in una trappola per punirlo. Ma di che? Forse dell’equiparazione sullo schermo di un pezzo di storia politicamente ancora così “sensibile” come la Repubblica del Duce alle sanguinarie perversioni sessuali dei libertini di de Sade? Se questa supposizione è plausibile, allora quella notte Pasolini sarebbe stato attirato in un agguato: spinto dall’intenzione di poter “riscattare” il finale del suo film più sentito anche a caro prezzo (oltre a due libretti d’assegni, aveva nascosto del denaro contante sotto i tappetini della macchina e c’era anche fotocopia di un telegramma del Ministro del Turismo e Spettacolo che incaricava il presidente dell’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche di «esprimere a Pasolini solidarietà per il furto di alcune scatole di negativi del film Salò»[10]), trovò invece all’Idroscalo un luogo di punizione che purtroppo si trasformò nel suo luogo di esecuzione. E così quel finale già girato di Salò, invece di tornare alla luce nelle mani del suo regista, è sprofondato nelle tenebre perché ragione incidentale di un omicidio.
Sergio Citti, Dalla testimonianza al giudice Guido Calvi del 30 maggio 2005
– […] Che cosa ricordi dei giorni precedenti la morte di Pier Paolo Pasolini e che cosa accadde nei giorni precedenti il 2 novembre 1975?
Andiamo per logica. Io parlo dell’ultima volta che vidi Pasolini. Siamo stati a mangiare insieme a Ostia. In quell’occasione Pasolini mi disse che gli avevano telefonato per riconsegnargli le pizze di Salò, senza voler alcun riscatto. Lui mi disse che, poiché doveva partire per andare a Stoccolma, quando tornava aveva un appuntamento con questa persona per riavere il materiale cinematografico.
– Quelli che avevano rubato la pellicola di Salò chiesero soldi per riconsegnarla a Pasolini?
No. Dissero che avevano sbagliato. Dissero solo che avevano sbagliato e che volevano riconsegnargli le pizze. Anzi, in realtà ricordo che qualche giorno prima venne da me un ragazzo, che io conoscevo, […] che mi disse che il film era in mano a persone che chiedevano un riscatto per riconsegnare la pellicola. Riferii questo a Pasolini, il quale a sua volta lo disse a Grimaldi, che volle una conferma del fatto che queste persone avevano la pellicola, tanto è vero che dopo qualche giorno fecero ritrovare un pezzo della pellicola in un posto concordato.[…] Quando Pasolini tornò da Parigi, la mattina del primo novembre 1975 io lo contattai per incontrarlo, ma lui mi disse che quella sera non potevamo incontrarci perché lui doveva incontrare la persona o le persone che dovevano riconsegnargli il film. Quella fu l’ultima volta che vidi Pasolini perché la sera fu ucciso. […]
– Pasolini era preoccupato quando ti ha detto che doveva incontrare le persone che avevano rubato le pizze di Salò?
No, non era preoccupato. Anzi ricordo che mi disse: “Hai visto che me lo restituiscono”, con molta soddisfazione, e questo perché secondo me gli aveva telefonato sempre e solo una persona. Sempre secondo me questa persona gli aveva dato l’appuntamento alla stazione Termini e infatti Pasolini, dopo essere stato a cena al ristorante Pomidoro con Ninetto Davoli e la moglie andò alla stazione Termini.
– Quindi secondo te dopo la cena al ristorante Pomidoro Pasolini va a ritirare le pizze del film?
Secondo me va dove gli avevano dato l’appuntamento.
– Perché secondo te prima di andare all’appuntamento è passato alla stazione Termini?
Pasolini mi disse: “Stasera vengono a riconsegnarmi le pizze di Salò” e io credo che l’appuntamento fosse proprio alla stazione Termini verso le 10 di sera. Dopo la cena quindi è andato alla stazione Termini per aspettare chi gli doveva consegnare le pizze. A quel punto un testimone dice di aver visto Pelosi salire sulla macchina di Pasolini. I due vanno via e dopo 25 minuti ritornano alla stazione. Poi vanno a mangiare al ristorante Il biondo Tevere, secondo me perché chi doveva riconsegnare il film gli ha dato un appuntamento a più tardi. Pelosi dunque ha avuto il ruolo di esca, perché sapevano che sarebbe piaciuto a Pasolini.[…] Secondo me i venticinque minuti trascorsi tra quando Pasolini e Pelosi vanno via dalla stazione Termini e poi ritornano sono importantissimi.
– Perché secondo te percorrono la via Ostiense per andare all’Idroscalo, cosa vuol dire secondo te?
[…] Il fatto che Pasolini abbia preso la via Ostiense e non la via del mare per andare all’Idroscalo vuol dire che lui aveva appuntamento sulla via Ostiense con le persone che dovevano riconsegnargli il film [11].
Sul finale di Salò
Eppure veramente di quel finale, peraltro già girato e stampato (almeno in negativo), non è possibile sapere alcunché? Può anche darsi che non si arriverà mai a vederlo, però un’idea se ne può avere grazie alla sceneggiatura del film, che «fu quella sicuramente impiegata durante le riprese»[12], ora depositata presso la Cineteca di Bologna. La pellicola che circola nelle sale ed in DVD come si conclude? Con i quattro libertini repubblichini, che hanno organizzato le “120 giornate di Salò”, che pongono fine ai loro “piaceri” torturando a morte le vittime delle precedenti violenze sessuali. E mentre nel cortile della villa ha luogo il massacro, al quale alcuni di loro partecipano direttamente ed altri assistono dalle finestre, in una stanza un giovane milite salotino, trafficando alla radio, capta una canzonetta. Allora invita un altro camerata a ballare e gli domanda se ha la fidanzata. Sì – risponde l’altro – ce l’ha e si chiama Margherita. Con questo timido accenno alla speranza (così almeno si è voluto leggere questa conclusione) finisce il film come viene distribuito. Ma questo non era affatto il finale previsto dalla sceneggiatura, che aveva invece un seguito crudele, veramente “sadiano”.
Nella sceneggiatura si legge infatti che, al termine delle stragi, i libertini abbandonano la villa che è stato il luogo delle loro nefandezze. Nessuno li insidia, si sentono tranquilli e sicuri perché al di sopra della giustizia degli uomini. Sono perfino allegri e mentre si allontanano lungo la strada hanno anche il tempo di filosofeggiare sulla “qualità” della loro perfidia assassina, che però nei fatti risulta sempre insufficiente rispetto alle attese.
Dalla sceneggiatura di Salò o le centoventi giornate della città di Sodoma
Scena 69 : LA VILLA – Esterno
Il grande portale del Castello lentamente viene aperto. Ecco apparire i signori seguiti dalle tre mezzane, dai sodomizzatori e da due fanciulli.
Li vediamo, di schiena, attraversare il grande piazzale, sembrano allegri.
Durcet si è fermato a chiudere con cura il grande portale. Ora raggiunge gli altri.
Sempre vedendoli di schiena li vediamo allontanarsi.
BLANGIS – E di qui… cari amici… nasce una ancor più forte certezza: il più grande dei piaceri deriva dalla più infame delle sorgenti. La dottrina che dovrà d’ora innanzi governare la nostra condotta è questa: quanto più cercate il piacere nella profondità del delitto, tanto più deve essere terribile il delitto…
DURCET – Molto bene… allora è possibile, secondo voi, commettere crimini tali quali le nostre menti desiderano ardentemente? Da parte mia devo sostenere che la mia immaginazione ha sempre distanziato di gran lunga le mie facoltà… Manco dei mezzi per fare ciò che vorrei, ho concepito un centinaio di volte più e meglio di quello che ho fatto e ho sempre avuto da lamentarmi della natura che, mentre mi dà il desiderio di oltraggiarla, mi ha sempre privato dei mezzi per farlo…
CURVAL – Non ci sono che due o tre delitti da compiere in questo mondo… Una volta fatti questi non c’è più nulla da dire; tutto il resto è inferiore, smettete completamente di sentire. Ah, quante volte ho ardentemente desiderato di poter assalire il sole, di ghermirlo via dall’universo, fare una generale oscurità o usare quella stella per bruciare il mondo. Oh, quello sì che sarebbe un delitto e non un piccolo misfatto quali sono tutti quelli che si limitano, nel giro di un intero anno, a trasformare una dozzina di creature in una zolletta d’argilla…
Una risata collettiva associa gli amici al resto della compagnia. Ormai sono lontani. Alla fine dei campi, dove incomincia la strada”[13].
* * *
La strada su cui si conclude la sceneggiatura del film è la strada di MARZABOTTO dove le efferatezze hanno avuto luogo («Scena 12: sulla strada vero Marzabotto – giorno. Una colonna di macchine e vecchi camion percorre una stradina sull’Appennino… Arriva un vista di un piccolo paese dalle vecchie case scrostate. Da un cartello stradale si legge il nome del paese: “Marzabotto”) [14]. Ma siamo sicuri che questa conclusione che c’è nel copione sia stata anche il finale del film appena girato da Pasolini e trafugato da ignoti?
È noto che il regista, quando procedeva alle riprese, utilizzava la sceneggiatura solo come canovaccio, mettendo in scena il film con tutte le modifiche (e anche la soppressione di scene) che veramente girato come da sceneggiatura. C’è però almeno una prova indiretta che sembra confermarlo. Presso la Cineteca di Bologna è pure conservata la copia di lavoro del film, in cui sono contenute le modifiche introdotte da Pasolini al momento delle riprese e da un pur fugace confronto che si è potuto fare risultano questi dati di fatto: che sì, quel finale è stato girato (è la “Scena 78”), che il dialogo tra i libertini è presente ma è stato modificato e che la sequenza termina proprio sul nome emblematico di “Marzabotto” scritto in mezzo alla pagina alla conclusione del manoscritto.
Se quindi nel film che circola, e che Pasolini aveva completato poco prima di essere assassinato, quel finale così amaro manca è perché gli era stato rubato e Pasolini non aveva cercato di rimpiazzarlo essendo convinto di poterlo recuperare con il semplice pagamento di un eventuale riscatto. Ciò però non era affatto nelle intenzioni di chi aveva realizzato il furto e che, dopo aver preso atto della conclusione del film (perché «qualcuno deve pur avere visionato gli spezzoni di Salò rubati in produzione prima del delitto»[15]), ha dato ordine di fargliela pagare a chi si era permesso di diffamare la memoria dei camerati di Salò equiparandoli ai sadici personaggi delle Centoventi giornate di Sodoma.
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[1] P.P. Pasolini, Trilogia della vita, Cappelli, Bologna, 1975.
[2] P.P. Pasolini, Tetis, in V. Boarini (a cura di), Erotismo, eversione, merce, Cappelli, Bologna, 1974, p. 102.
[3] P.P. Pasolini, Abiura dalla “Trilogia della vita”, in P.P. Pasolini, Trilogia della vita, cit., p. 12.
[4] P.P. Pasolini, Trilogia della vita, cit., pp. 11-13.
[5] P.P. Pasolini, Il sesso come metafora del potere, in «Corriere della Sera», 25 marzo 1975.
[6] R. Tomasino, Il vuoto della traccia, in «Filmcritica», 1975, n. 275, p. 270.
[7] W. Siti e F. Zavagli (a cura di), Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano, 2001, vol. II, pp. 2063-2066.
[8] Cit. in M.T. Giordana, Pasolini, Mondadori, Milano, 2005, p. 276.
[9] Cfr. C. Benedetti, Giallo Pasolini, in «L’Espresso», 31 marzo 2010.
[10] Cfr. M. T. Giordana, Pasolini, cit., pp. 127-128.
[11] “Non abbiate paura della verità”, in «Diario», 28 ottobre 2005, pp. 16-17.
[12] W. Siti e F. Zavagli (a cura di), Pasolini per il cinema, cit., p. 3157.
[13] Salò o le centoventi giornate della città di Sodoma, PEA, s.i.a., s.i.l., pp. 193-195.
[14] Ibid., p. 37.
[15] D. Del Giudice, In un paese orribilmente sporco, in «Paese Sera», 21 ottobre 1977.