(Neo)fascismo e antifascismo, oggi*
di Valerio Romitelli
La frase con cui Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte riprende e rettifica Hegel per misurare le differenze tra Napoleone e il suo nipote Napoleone III è arcinota: “i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte (…) la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”.
1. Ci si azzarderà allora a sostenere che la Meloni è la farsa di Mussolini? Il suo governo la caricatura di quello formato dall’allora futuro Duce nell’ottobre di cent’anni fa? Non esageriamo. Nell’ottobre scorso, 2022, il senatore Scarpinato[1] in un memorabile discorso[2] al parlamento ha messo i puntini sulle i. La tradizione che il governo Meloni incarna non è esattamente il fascismo, ma il neofascismo. Questa precisazione è decisiva. A partire da essa si spiegano molte cose.
Si spiega lo sbaglio colossale di tutti coloro più o meno “rosso-bruni” che hanno intravisto in questo governo una qualche possibile protezione nazionalista di fronte alle perversioni della globalizzazione neo-liberale. Si spiega perché questo governo non lasci la ben minima speranza a qualsiasi pur vaga nostalgia per l’autarchia degli anni Trenta. Si spiega come mai la leader di Fratelli d’Italia non abbia dimostrato alcuna riserva critica rispetto alla fedeltà atlantista che il governo precedente, l’indecorosa ammucchiata attorno all’ineffabile Draghi, aveva eretto a suo vessillo principale. Si spiega perché nel prossimo avvenire nulla possa moderare l’adesione italiana alle politiche europee di sostegno sistematico, fatto di armi e soldi, al governo Zelensky. Si spiega fino a che punto la sottomissione italiana ed europea alle strategie di guerra americane sia confermata e proiettata ad oltranza, costi quel che costi[3].
Cosa vuol dire infatti che il governo attualmente in carica “da noi” si situa nel solco del neofascismo piuttosto che fascismo? Vuol dire che, se il fascismo di un secolo fa era stato (ahinoi!) un fenomeno comunque autoctono, deciso e strutturato dalle lotte sociali e politiche interne al bel paese, non così è stato per il neofascismo, né così è per il governo Meloni.
Chi sono stati infatti e cosa hanno fatto i neofascisti nel secondo dopoguerra italiano? Non solo e non tanto hanno militato per tenere viva la nostalgia per il Ventennio del Duce, ma hanno sopratutto tenuto fede ai sentimenti più primari che avevano dato vita allo stesso fascismo propriamente detto, quello che aveva fatto i primi passi nel corso del “biennio rosso”. Sentimenti primari che andavano dall’antisocialismo e dall’anticomunismo più viscerali all’odio sistematico per ogni visione e lotta “di classe” intese in senso marxista. Il tutto galvanizzato dal rilancio dell’ideologia bellicista, già diffusasi nel corso della Grande Guerra. È proprio seguendo questa ostilità militaresca verso qualunque gradazione del “rosso”, ma in un’Italia e un’Europa oramai completamente sotto tutela angloamericana, che i neofascisti nella loro maggioranza hanno finito per collaborare coi servizi segreti delle potenze anglosassoni, rafforzandone l’egemonia tramite quegli attentati, trame, complotti depistaggi, assassini singoli o di gruppo, eccellenti o ignoti che hanno fatto la ben nota ma sempre faticosamente e solo parzialmente riconosciuta “strategia della tensione”. Strategia da “guerra fredda” il cui unico senso stava nel fungere da opera di “contenimento” di quel comunismo dilagato nel frattempo in tutto il mondo proprio ad est dell’Italia e dell’Europa, nonché presente “da noi” col più corposo partito comunista di tutto l’occidente capitalista.
Questo il succo desumibile dall’ammirevole e coraggioso, quanto sintetico discorso dell’onorevole Scarpinato, di cui è consigliabile l’ascolto onde anche tarare l’interpretazione qui fornita.
2. Tutto ciò non vuol comunque dire che il governo Meloni sia da considerare un governo fantoccio, le cui fila sono tirate da Washington. Ma vuol dire che lungi dallo spezzare o anche solo attenuare i condizionamenti globali subiti dai precedenti governi, l’attuale non promette alcuna discontinuità di rilievo.
Capitalismo sì sempre abbastanza ricco, nonostante tutto, ma anche sempre più disperso di altri, quello italiano pare quindi tutt’oggi destinato a restare quello che è sempre stato dal dopoguerra in poi: dotato di una potenza di secondo grado rispetto alle strategie globali, specie quelle decise dall’imperialismo yankee, per quanto declinante, sempre a capo del mondo.
Se novità ci saranno col governo Meloni, ciò dipenderà dal mutato “spirito del tempo” a livello globale. Spirito del tempo che pare caratterizzato anzitutto dalla conversione delle democrazie liberali ad immagine americana, in democrazie, sì sempre fondamentalmente neoliberali (specie sui luoghi di lavoro e nelle amministrazioni pubbliche al loro interno), ma anche e soprattutto sovraniste, specie in politica estera: aventi come ideale nelle relazioni internazionali, non più tanto il libero scambio di mercato, né l’impegno per una democratizzazione universale, ma la gelosa e intransigente difesa di una supposta identità etnica occidentale, sempre più esagitata e posseduta da una ostilità irriducibile nei confronti dei due maggiori concorrenti orientali Russia e Cina.
Chiaro esempio delle conseguenze di un simile contesto viene dalla Polonia. Se questo paese infatti, prima della invasione russa dell’Ucraina, si trovava non di rado criticato per il suo lacunoso rispetto dei valori democratici e liberali, dopo tale invasione pare essersi scagionato da ogni critica solo grazie all’impegno profuso nell’appoggiare la reazione militare di Kiev contro le truppe di Mosca. Ecco dunque un fatto caratteristico della presente epoca di sovranismo dilagante: il fatto che priorità obbligatoria nell’agenda di ogni governo occidentale sta nell’esibire la più ferma convinzione nel partecipare alla guerra verso l’oriente, oggi contro Putin, domani forse contro Xi Jinping. Se quindi, come pare, il governo Meloni perseguirà senza tentennamenti su questa via, si può stare certi che il suo background più o meno fascistoide sarà sempre meno problematico per l’Ue e la Nato.
3. Può allora insorgere la domanda: se questo background incide così poco sulle strategie del capitalismo italiano e occidentale non hanno forse ragione i commentatori che ne banalizzano la particolarità ideologico-politica di estremissima destra, anziché perdere tempo a scandalizzarsi, denunciarlo e provare soppesarne le conseguenze? Questa è in effetti la più certa conclusione cui si giunge se si crede che i destini del mondo siano sempre integralmente decisi dalle “operazioni del capitale” e le eventuali lotte contro di esse. Il discorso può prendere invece un’altra piega se si pensa che anche le ricerche e le sperimentazioni di alternative al capitalismo abbiano contato e possano sempre contare nel condizionare i destini del mondo.
È sotto questo profilo che l’andata al governo di Fratelli d’Italia appare in tutta la sua disastrosa rilevanza. Disastrosa rilevanza che chiama in causa un orientamento che dal secondo dopoguerra ad oggi ha enormemente condizionato simili ricerche e sperimentazioni in Italia. Si tratta ovviamente dell’orientamento antifascista. Di quell’orientamento antifascista che di fronte all’immagine della Meloni a palazzo Chigi non può non riconoscere una considerevole sconfitta. Così considerevole che se non viene discussa e rielaborata adeguatamente rischia di trasformarsi una disfatta di lunga durata. È ben noto infatti che una volta superato un tabù, la tentazione di far saltare ogni altro limite può divenire incontenibile.
Sì perché in tutta la storia dell’Italia repubblicana non è forse stato uno dei più solidi tabù anche solo la vaga idea che dei fascisti comunque travestiti potessero tornare al potere? Come non prendere atto che per quanto contrastato l’antifascismo dal 1945 ad oggi è stato uno dei primi, se non il primo orientamento culturale e politico di tutte le istituzioni pubbliche italiane? Come non sorprendersi che dopo più di settant’anni di tale egemonia sia proprio il suo nemico dichiarato a conquistare il potere di governo? Come non chiedersi se, dato un simile risultato clamorosamente negativo, non ci sia stato qualcosa di profondamente equivoco in tutto il discorso antifascista?
4. Senza pretendere affrontare le enormi questioni connesse ad un tale doveroso quanto spinoso bilancio limitiamoci qui solo a qualche osservazione schematica per così dire di metodo.
Da quando l’antifascismo esiste (diciamo dal Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925 promosso da Benedetto Croce) esso è stato la posta in gioco tra differenti visioni, tra le quali due prevalenti.
A) Da un lato, la visione moderata, liberal-democratica, favorevole al capitalismo, che critica e combatte il fascismo proprio in quanto antidemocratico, illiberale, più protezionistico che aperto al libero mercato, ma che (come fece Churchill e la maggior parte dei successivi primi ministri britannici assieme a tutti i presidenti americani a partire da Truman) lo considera “utilizzabile” in casi di “pericoli” supposti più gravi, quali il comunismo o oggi i “dispotismi orientali”, Russia e Cina in testa.
B) Dal lato opposto, la visione più “intransigente”, “di classe” e alla ricerca di alternative al capitalismo, che critica e combatte il fascismo in quanto una delle peggiori forme di governo dello stesso capitalismo (come teorizzò Togliatti nel 1935 a Mosca, ammettendo però poi una vasta gamma di compromessi).
Ora, queste due visioni A) e B) si sono contrastate apertamente durante l’epoca della “Guerra fredda” e i “Trent’anni gloriosi”, tra il 1945 e il 1975, quando il comunismo era egemone in mezzo mondo e puntava a dilagare nell’altra metà, nonostante le politiche di “contenimento” da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, i quali appunto ricorsero al reiterato utilizzo di neo fascisti per scopi terroristici.
Dagli anni Ottanta però la visone B ha perso quasi ogni supporto istituzionale, data la perdita di credibilità di tutti regimi a direzione comunista, il crollo dell’Urss e l’adeguamento al capitalismo della Cina. Cosicché a difendere effettivamente questa visione da allora in poi sono rimasti solo movimenti più o meno antagonisti e alcuni intellettuali di prestigio internazionale.
Il tutto mentre invece la visione A ha conosciuto il suo massimo trionfo, supportando quella che è stata giustamente chiamata l’”epoca della democrazia”, durante la quale la specificità stessa dell’analisi critica e del contrasto al fascismo è stata dispersa a profitto della identificazione di una categoria (fino agli anni Cinquanta inedita in tutta la storia del pensiero politico) designante il nuovo nemico ideologico delle democrazie con a capo quella americana. Sarebbe a dire quel “totalitarismo” che si suppone contenga e omologhi ogni forma di fascismo, nazismo e comunismo. Si è dunque avuta così una conversione di questa visione liberal-democratica dell’antifascismo in antitotalitarismo. Conversione, la quale ha di fatto comportato la moderazione di ogni condanna del neofascismo, come quello di cui la Meloni è erede. È dunque anche da qui che viene una delle ragioni del suo successo.
La bruciante domanda che resta aperta è quindi, in conclusione: come non lasciare estinguere la visione più militante, anticapitalista dell’antifascismo, proprio ora che i neofascisti sono al potere e paiono persino aumentare i loro consensi? Di sicuro, vano non sarebbe adoperarsi per smascherare tutte le equivocità non solo della tradizione liberal democratica dell’antifascismo, ma anche della sua più recente conversione in antitotalitarismo. E vano pure non sarebbe ripensare la tradizione di classe, anticapitalista dell’antifascismo, per farla riemergere dall’emarginazione politica e culturale che ha subito a partire dagli Ottanta in avanti.
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* Questo articolo è anche sulla rivista on line Machina-DeriveApprodi.
[1] Ex magistrato e senatore per il Movimento 5 stelle.
[2] https://www.youtube.com/watch?v=oNabMzqHvH8
[3] Se l’astensionismo alle ultime elezioni è risultato così alto non è da escludere che ciò sia accaduto anche perché Fratelli d’Italia si è presentato meno nazionalista e più europeista e atlantista di quanto le opinioni più critiche rispetto alla globalizzazione e all’egemonia americana potevano sperare.