Passo dopo passo, l’infinito. Recensione a “Madrugada bianca” di Mario Trimeri
di Giorgio Morgione
Siamo di fronte a un’altra piccola sfida: parlare di questo libro (Mario Trimeri, Madrugada bianca. Bolivia di ghiaccio, fuoco, vento e sale, Zola Predosa, Labor, 2016, 201 pp.) è come camminare su un immenso lago ghiacciato, ma di un ghiaccio non molto spesso, che ti chiede rispetto e ti costringe a passi quieti e misurati. Perché tutto quello che avviene sta dentro gli intimi cristalli di una vita, allo stesso tempo temprata e fragile, portata e riportata in questo luogo potente e irripetibile. Da quando la conobbe nel 1979, e nei diversi viaggi fatti fino al 2014, Trimeri ha stabilito con la Bolivia un legame sublime e controverso, a tratti introspettivo («un viaggio non esclude i problemi che ti porti dentro, il cui peso non diminuisce ma addirittura a volte aumenta», p. 38) e sempre nutrito di avventura e ammirazione.
Prima cosa: è impossibile non rimanere colpiti dalle tante e meravigliose immagini presenti in ogni pagina di questo libro: lo si vuole sfogliare anche solo per godere degli scatti che Trimeri ha realizzato con maestria in quelle incantevoli latitudini.
E ora parliamo della storia, anzi: delle storie! I capitoli hanno ognuno una particolarità, ci traghettano da un luogo all’altro e in anni differenti. Si susseguono osservazioni su vecchi e nuovi costumi, come la Saya, musica afro-boliviana dei discendenti degli schiavi del Cerro Rico; sulle lingue ufficiali, che sono in totale 36, anche se si parlano in prevalenza lo Spagnolo, il Quechua e l’Aymara, ma anche su aspetti noti e meno luminosi, come la grande quantità di cocaina prodotta e destinata al narcotraffico.
Del ’79 Trimeri ripercorre i frequenti e talvolta rocamboleschi spostamenti verso luoghi d’interesse storico e naturalistico: da La Paz, alta nei suoi oltre 3600 metri di quota e sorvegliata dal fiero e leggendario Illimani (6542 s.l.m.), a Tiwanaco, con le sue giganti rovine; dalla ricca Sucre, sede della Corte Suprema, alla piccola Colchani, punto di raccolta e immagazzinamento del prezioso sale. In queste pagine il filo narrativo è leggero e gioviale, sebbene di tanto in tanto interrotto dalla consapevolezza amara e nostalgica delle ingiustizie subite un tempo da questi popoli con l’arrivo dei bianchi. Sempre a La Paz si consuma la vicenda di Bob, un amico americano che soffre inaspettatamente di un ignoto malessere che lo spegne nel corpo e nell’animo, giorno dopo giorno. Trimeri vive quest’esperienza con intenso trasporto, s’interroga e si adopera per trovare la soluzione migliore. Ciononostante, e dopo aver assicurato all’amico un rientro sicuro in patria, i vissuti riprendono liberi, al richiamo di una filosofia dell’inarrestabilità, un’irrequietezza dell’animo che esorta e a volte costringe al movimento, al viaggio, all’avventura. Si prosegue dunque con le esperienze collezionate fino al 2014: città, paesi, luoghi sperduti e austeri, tra i quali il Salar de Uyuni che con i suoi 12000 km2 è il giacimento di sale più grande del pianeta, il vulcano Uturuncu (6008 s.l.m.), il monte Huayna Potosi (6088 s.l.m.) e altri ancora, compreso un angolo della foresta amazzonica, dentro un verde pervasivo, dimora di creature temibili.
Di La Paz e di El Alto Trimeri ci parla dei costumi, delle usanze, dei modi di vivere, dell’aspetto urbanistico, persino della dispnea di chi è appena giunto alle altitudini di questa capitale andina. Un mondo caotico, eterogeneo, animato da un cristianesimo spurio, in parte evangelico, in parte con figure ed evocazioni pagane, che brulica di bancarelle, di prodotti locali, magia e tradizioni (impressiona la vendita di feti di lama rinsecchiti, da seppellire sotto la propria casa come portafortuna). È in fondo una città segnata dalla povertà, e proprio questo, che è certo un dramma, fa di essa qualcosa di unico e puro. Un calderone di suggestioni incorniciato ad arte dalla catena andina, che si staglia a perdita d’occhio all’orizzonte. Trimeri è stato a La Paz in più momenti della propria vita. Ora osserva la stessa città che visitò nel 1979. Trentacinque anni dopo, dice, non è affatto cambiata: «il tempo è come se si fosse fermato» (p. 78), strade, mercati, abitazioni, tutto gli appare come era allora, quando si ritrovò in quel luogo surreale, privo di esperienza, ma con una incontenibile voglia di vivere.
Non lontano è il complesso delle miniere del Potosì, memoriale della più grande rapina di tutti i tempi e ancora oggi risorsa di un’economia sfiorita e disumana. Trimeri ci ricorda la sua drammatica storia, che è anche quella del Cerro Rico (la montagna che mangia gli uomini), e della spietata Legge della Mita, istituita nel 1572 da Francisco de Toledo, per costringere tutti gli Indios maggiorenni a lavorare in miniera 12 ore al giorno per 4 mesi all’anno, ininterrottamente. Il resto è nei numeri spaventosi delle vittime, mietute dal regime schiavistico, dalle guerre asimmetriche, dalle malattie e dall’intolleranza religiosa. L’autore volge poi lo sguardo sul presente nel quale poco è cambiato dai tempi dei conquistadores spagnoli, in quanto si lavora ancora con ritmi estenuanti, minori e adulti, padri e figli gli uni accanto agli altri, masticando foglie di coca per resistere alle fatiche e allontanare la fame. I minatori del Potosì fanno offerte votive a El Tìo (Lo zio), un diavolo ctonio che li protegge dai continui pericoli del lavoro in cambio di oggetti simbolici o animali sacrificali. Così, mentre la vita termina tra i 40 e i 50 anni, e non di rado trascinata al fondo da malattie tremende, il Cerro Rico diviene sempre più povero, perforato e raschiato da secoli fin nelle viscere e per questo non più capace, come un tempo, di reggere l’economia del Paese.
Laddove la realtà sociale ed economica di questi popoli si presenta nelle sue tinte cupe, i luoghi naturali sono invece un interminabile sfoggio di forme e colori camaleontici, fenomeni osservabili in modo particolare presso la Laguna Colorada, con le sue caratteristiche acque tra il rosso e il marrone e le sue alghe dal pigmento singolare. Troviamo poi le descrizioni dei geyser e delle vasche di fango bollente di Sol de Mañana (pp. 110-112), testimonianza dell’incontenibile attività vulcanica presente nel sottosuolo.
Solare e romantica è anche la narrazione della Puna, un deserto in alta quota che regala fotografie mozzafiato. È una vastissima distesa gialla, con chiazze bianco-rosa di concrezioni saline, ai bordi della quale si stagliano coni vulcanici ricoperti di neve. Misteri aleggiano sulle origini e la storia del complesso rituale del Kalasasaya, un tempio a pianta quadrata, nei pressi di Tiwanako, costruito con enormi blocchi di arenaria rossa e andesite «incastrati tra loro con precisione millimetrica e provenienti da cave distanti dalla loro ubicazione finale». Come per le piramidi egizie, si pone l’interrogativo su come fosse stato possibile spostare simili pesi, trasportarli a leghe e leghe di distanza e, soprattutto, porli l’un l’altro combacianti con una nettezza sbalorditiva.
E ancora per Trimeri la Bolivia non poteva non diventare uno scrigno di ascese invidiabili. La sua passione per i vulcani, la stessa che lo ha spinto al primato delle Volcanic Seven Summits, e la sua brama di vetta, lo hanno portato in cima al già citato supervulcano Uturuncu, con le sue cime gemelle ricoperte di polvere bianca come zucchero a velo; al Pabellon (5315 s.l.m.), che si affaccia superbo sulla Laguna Colorada; al Licancabur (5916 s.l.m.), con ai piedi – come fosse un unico velo da sposa – la Laguna Verde e la Laguna Bianca; al Huayna Potosi (6088 s.l.m.), con i suoi imponenti scenari di ghiaccio. Il diario dell’ascesa all’Illimani merita invece un’attenzione diversa, perché se per un verso trasmette il richiamo della sfida che sempre ribolle nell’animo di chi vuole toccare il cielo, per un altro verso dà prova della conoscenza e del rispetto che ognuno dovrebbe avere della montagna. In quell’inverno australe del 1997 infatti, Trimeri non può portare a termine la salita. L’Illimani è una meta da sogno, ma dopo giorni di bel tempo, durante la serata che precede l’arrivo in vetta si addensano nuvole scure e un vento sale fino a scuotere pericolosamente le tende. Trimeri ci spiega come non sia facile da accettare, ma se la montagna ci avverte è necessario darle ascolto, mettere da parte l’ambizione e portarsi in salvo.
Infine, un posto di rilievo è certamente occupato dalle due esperienze che hanno acceso il desiderio di scrivere questo libro: le traversate del Salar de Uyuni. Sempre fedele alla propria prassi, prima di viverlo col corpo, Trimeri si documenta e lo studia. Apprende ad esempio che oltre che di sale, questo luogo è ricchissimo di litio, indispensabile per la produzione di batterie di ultima generazione. Senz’altro una risorsa determinante per l’economia del paese, sebbene la sua estrazione, insieme a quella dello stesso sale, provochi seri danni a questa meravigliosa opera della natura. La prima traversata, 149,20 km, da ovest a est in quattro giorni, è stata realizzata tra il Luglio e l’Agosto 2008; la seconda, 119,25 km, da nord a sud in tre giorni, nell’Agosto del 2014.
Trimeri descrive con ricchezza di dettagli le preparazioni fisiche e tecniche, le tappe e le sensazioni che provoca il bianco abbagliante e sconfinato del Salar. Questa interminabile meraviglia naturale si colloca inoltre nella cornice sulfurea di imponenti vulcani, tra i quali l’Aucanquilcha (6176 s.l.m.) e l’Ollague (5860 s.l.m.). In entrambe le esperienze non sono mancate difficoltà e paure, ma è nella seconda, compiuta per la maggior parte in solitaria, che la mente e il corpo levano le ancore per incontrare l’estasi della natura infinita, come sempre mischiata al tremore per l’ignoto. Forse Trimeri non sa, o meglio non vuole spiegare cosa accade esattamente in quei momenti, sa però che è proprio quello che cerca, qualcosa che ha ripetutamente cercato per anni, nei luoghi più remoti del mondo.
Luglio 2022
Scorrere le immagini, seguire i racconti, entrare in contatto con uno spirito incontenibile come quello di Mario, un outsider, sia a livello fisico che mentale, dà al lettore l’illusione di poter vivere certe esperienze con facilità. Grazie a lui e ai suoi libri si possono conoscere aspetti inusuali di popoli e paesi, si possono apprezzare esperienze che, per la maggior parte dei lettori, non si potranno mai praticare. Un grazie a Mario, protagonists di tante leggendarie imprese, ed un grazie a Giorgio che ce ne parla con tanto entusiasmo
Grazie a te Angela. Le tue parole completano e colgono pienamente il senso di questa narrazione.