A Genova ci sono stato. Il mio ricordo vent’anni dopo
di Fabrizio Simoncini
A Genova ci sono stato nel 2001. Fu un evento che segnò, irreversibilmente e in modo traumatico, la nostra generazione e solo a distanza di giorni capii il rischio enorme che avevo corso e la fortuna che mi assistette nelle scelte istintive che feci in quei momenti di repressione e follia collettiva.
Ci sono periodi nella vita dove cerchi di fare esperienze anche le più adrenaliniche solo perché vuoi entrare a pieno titolo nella storia che in quel momento si fa, non restandone codardamente ai margini e perché vivevo ancora nella bizzarra idea di poter cambiare il mondo o qualcosa di simile. La storia non concede mai l’esercizio provato dei “se”, cioè se fosse andata diversamente e quel movimento non fosse stato stroncato così brutalmente, che cosa sarebbe accaduto politicamente nei decenni successivi? Non lo sapremo mai, comunque fu una vera e propria prova di regime, del governo più a destra dell’era repubblicana che mai si fosse materializzato: Berlusconi, Fini, Bossi, Casini un vero concentrato di ignoranza e paura.
Così dopo aver appreso dell’uccisione di Carlo Giuliani, preso dallo sdegno, il giorno successivo alle sei di mattina del 21 giugno, partii per Genova su un treno carico di studenti e operai della Fiom. Con me, arrivati nei modi più disparati, c’erano anche tanti amici del gruppo di filosofia di Bologna e non solo.
Ricordo ancora quel senso di spaesamento, giunti in città, di fronte a vie deserte, con il continuo rumore delle pale degli elicotteri che faceva tanto Apocalypse Now. Migliaia di persone venute da ogni parte d’Europa che si ritrovano in un contesto che definire spettrale non altera in nulla l’annuncio iconico di una imminente mattanza.
La parte che segue è un estratto del racconto che scrissi a caldo pochi giorni dopo essere ritornato da Genova e che ancora mi provoca un senso di profonda inquietudine. Forse è stato veramente l’ultimo colpo di coda di quelle istanze egualitarie issate nel XX secolo, perché come dice ironicamente uno dei suoi personaggi allo Zerocalcare disegnato: “sveglia, cresci il novecento è finito”. E in effetti da allora politicamente e socialmente sembrano passate ere geologiche, non certo vent’anni. Rileggere quelle vicende sul piano storico diventerà necessario, ora è giusto ricordare quei drammatici eventi attraverso l’esperienza diretta di chi li ha vissuti per dare lena e vigore alla memoria.
“Il cielo terso, blu violento, contrasta con i palazzi alti e vuoti di vita. Non una persona affacciata, strade deserte senza una macchina parcheggiata, sembra di essere tra le calle di Venezia. Il tempo trascorre e la fiumana di gente si ingrossa talmente da non vedere più l’inizio e la fine del corteo. Bandiere verdi rosse e nere, striscioni e rumori di fondo sono immersi in un mesto silenzio che lascia trasparire la sottile tensione che attraversa i manifestanti. Gli elicotteri cominciano a volteggiare sopra le nostre teste, quasi in avvertimento, per ogni spicchio del serpente umano. Lentamente quel continuo e fragoroso roteare delle pale comincia a divenire inquietante, quasi minaccioso. Il corteo ora è enorme, mai visto nulla di simile. Il caldo si fa soffocante: sono le due del pomeriggio, non c’è uno straccio d’ombra sotto cui raffreddarsi. Un originale autobus inglese, rosso a due piani, staziona in mezzo alla via con la scritta “Drop the Debt”.
La folla dei “giottini-giacobini” (così definiti in maniera sprezzante dai rappresentanti del governo Berlusconi) è la più variopinta e composita. Mi fermo per lasciare scorrere la marea e fotografare. Sfilano i comunisti greci accompagnati da un infinito numero di bandiere rosse, gli anarchici riconoscibili da uno striscione nero tra cui spicca la sezione di Carrara, i gruppi cattolici, fra i quali alcuni sostano in una zona che hanno destinato al digiuno e alla preghiera, i Cobas organizzati con un servizio d’ordine perfetto che non lascia spazio a infiltrazioni. Presenziano innumerevoli striscioni di rifondazione comunista seguiti dai militanti di ogni città d’Italia. Non una bandiera dei DS, ma la base c’è, quella che nel vecchio PCI veniva chiamata lo “zoccolo duro”. Noi di filosofia siamo una quindicina, fra cui molte ragazze. Sembra impossibile che possa accadere qualcosa di grave. Di poliziotti nemmeno l’ombra nonostante si cammini già da più di due ore. È in un momento che il clima si elettrizza, volano i primi cori “assassini”, “assassini”. Abbiamo incrociato una via che il mio sguardo immediatamente percorre: due corsie, un corridoio alberato che le separa, in fondo a cento metri, un muro silenzioso nero-blu: la polizia schierata in assetto anti-sommossa, visiere abbassate, manganelli e scudi impiantati a mo’ di testuggine. Confesso: un senso di angoscia mi assale.
È strano come in mille altre situazioni la presenza delle forze dell’ordine mi desse sicurezza, ora percepisco quel “blocco blu” come profondamente pericoloso, ostile. Resto comunque convinto che nulla possa accadere: il corteo immenso è straordinariamente pacifico, non c’è nessuna avvisaglia del dramma che di lì a poco ci vedrà coinvolti nostro malgrado. Svoltiamo e siamo sull’ampio viale del lungomare di Genova, il Tirreno fa da meraviglioso specchio alla città. Il corteo si spande su entrambe le corsie, i vari gruppi di manifestanti si sovrappongono quasi a confondersi l’un l’altro. Camminiamo ancora per una ventina di minuti poi una brusca frenata, cominciano a rimbalzare voci di scontri in testa alla manifestazione, quello che prima sembrava assurdo ora comincia a prendere forma a pochi metri da noi. Siamo a ridosso di un muro enorme, dall’altra parte della strada il mare a picco: non ci sono vie di fuga. Capisco che se succede qualcosa e si genera il panico rischiamo di essere calpestati o schiacciati contro la parete di pietra.
Due elicotteri si abbassano sulle nostre teste vicinissimi, non si muovono sospesi nell’aria, il loro rumore è tale da impedirci quasi di comunicare. Serpeggia una forte inquietudine. Siamo in curva e non si vede la testa del corteo. È un attimo, non so come né da dove ma piomba sui manifestanti più avanzati rispetto a noi un lacrimogeno che comincia a spargere il suo veleno. Sono incredulo, non capisco, nessuno ha fatto alcunché di grave che meriti una tale reazione delle forze dell’ordine. Cominciamo ad avere paura, sensazione premonitrice della pioggia di lacrimogeni che ora ci assale proprio da dietro questo muro enorme che pensavo ci proteggesse. Due, tre decine di questi bussolotti venefici ci investono senza spiegarci il perché. È subito panico, sento un sibilo fortissimo e vedo cadermi accanto un lacrimogeno. Solo il generoso “caso” mi ha permesso di non incocciarlo con la testa, non faccio in tempo a saltarlo che già la sua nuvola densa mi avvolge, non capisco più nulla. In pochi secondi gli occhi si gonfiano piangendo involontarie lacrime, la testa mi sembra esplodere, il respiro si fa affannoso, intorno a me la gente urla e spinge: ho paura di morire. Non sono lacrimogeni ma orticanti, un veleno decisamente peggiore che solo a respirarlo ti sembra di ammattire.
La polizia ha cominciato a caricare. Mi ritrovo solo in mezzo a una folla che sembra impazzita. Alcune persone urlano schiacciate contro il muro, altre cercano rifugio dai lacrimogeni e dalla calca nelle vie laterali: questo sarà l’errore più grande viste le retate che di lì a poco inizieranno. Andrea, senza avere fatto nulla verrà picchiato, caricato su un cellulare e portato all’ormai tristemente famoso centro di detenzione di Bolzoneto: lì sarà l’inizio di un vero incubo, in salsa sudamericana. Intanto si comincia a vedere l’effetto dei pestaggi indiscriminati che alcune frange della polizia hanno messo in atto: anziani e donne come i ragazzi grondano di sangue, impauriti e tremanti. Regna sovrana la confusione. Si alzano alte grida di dolore e disperazione che si sommano alle imprecazioni contro la destra e questo Governo: si ha la netta impressione di una prova di regime.
A questo punto decido di ritornare verso la stazione di Quarto, intorno a me una rabbia montante da parte di quelle persone venute qui a manifestare pacificamente e ritrovatesi drammaticamente in mezzo a un campo di battaglia. Solo l’autocontrollo e la disciplina dei gruppi organizzati ha evitato la tragedia. La tensione è altissima, vedo gente di ogni età, le classiche persone che diresti perbene, stravolte che insultano gli equipaggi degli elicotteri e la polizia che si trova a presidio di alcuni punti critici. Loro rispondono con il dito medio alzato e la mimica del mitra: è un delirio collettivo. Dopo circa due ore incontro alcuni degli amici. Decidiamo di ritornare indietro alla stazione e come se non bastasse ci prendiamo un’altra dose di fumogeni-orticanti.
A Quarto nessuno ha notizie in merito al da farsi. Come d’incanto dal nulla compare un treno navetta su cui ci imbarchiamo per la stazione principale di Genova: Brignole. Verso le 20 lo scalo comincia a riempirsi di manifestanti quasi a scoppiare. Gli elicotteri continuano a volteggiare sinistri sulle nostre teste. Con una lentezza esasperante i treni cominciano a partire. Ci viene comunicato che il nostro, Bologna-Rimini, partirà verso le 2.30. Cadiamo nello sconforto. Verso mezzanotte le radio libere cominciano a diffondere la voce dell’attacco al Social Forum. Si intuisce già dai racconti la brutalità e la violenza con cui l’azione è stata portata a termine. Sembrava finita dunque, ma non è così.
Nuovamente comincia a serpeggiare il brivido sottile della paura: si teme un attacco alla stazione che si va svuotando per le continue partenze. L’angoscia si attenua appena il treno muove i primi passi. Il viaggio sarà lungo, quasi infinito. Arriviamo alle 8.30 di domenica mattina in una Bologna già afosa. Scendiamo e mentre il treno attende di proseguire verso Rimini c’è l’applauso commovente dei compagni che ci salutano. Sono persone che non conosci eppure in quel momento senti una comunione e una solidarietà fortissime: condividere eventi così drammatici lega e annulla ogni presunta differenza. Salgo in macchina direzione letto. Mentre attraverso Bologna la città non sembra più la stessa: irreale nella sua realtà. Io mi sento una sorta di reduce miracolato: qualcosa dentro di me è cambiato, forse solo chi è stato a Genova potrà capire.”