La Peste di Londra (1665) da Daniel Defoe
a cura di Giorgio Morgione
1665-1666, a Londra la peste portò via 100.000 persone, circa un quarto della città. Le parole che seguono chiudono il romanzo di Daniel Defoe, La peste di Londra, uscito anonimo nel 1722 con l’interminabile titolo Diario dell’anno della peste, contenente osservazioni o testimonianze sugli avvenimenti più notevoli, pubblici e privati, che ebbero luogo a Londra durante l’ultima grande epidemia del 1665. Scritto da un cittadino che visse durante tutto quel tempo in Londra. Finora inedito. Il narratore, un immaginario sellaio del cui nome si rivelano solo le iniziali, H.F., descrive in prima persona il tanto sperato giorno, quello in cui si seppe che la malattia stava finalmente abbandonando la città. Dinanzi a un male tanto ignoto, angosciante e mortifero, il pensiero degli umani si volge al sovrannaturale. Una reazione quasi istintiva che accompagna la loro sorte nell’epidemia, sia nelle fasi più disperate, sia nel momento della liberazione, così a lungo atteso da sembrare un sogno. Poi, concludendo, una nota amara di pessimismo vuole forse ricordarci che gli uomini, anche dopo il vissuto più terribile, dimenticano facilmente.
È impossibile descrivere il cambiamento che si manifestò su ogni volto quella mattina di giovedì in cui vennero pubblicati i bollettini. Fu un cambiamento che denotava sorpresa e gioia. E tutti cominciarono a stringersi le mani per le strade, e a salutarsi e a parlarsi, aprir le finestre e chiamarsi da una casa all’altra, e domandarsi come andava. “Avete saputo la buona notizia?” si diceva da ogni parte. Quelli che ancora non sapevano, se ne uscivano ad osservare: “Quale buona notizia?” Gli altri li informavano, pronti del fatto che i bollettini segnalavano circa duemila decessi in meno, e che la peste stava per finire. “Dio si lodato!” gridavano allora quelli, e si mettevano a piangere per la gioia, poiché in verità sembrava loro di rinascere alla vita.
Più di tutto meraviglioso fu, in questo, trovare che il morbo aveva perduto il suo veleno e uccideva una parte minima delle persone infette. I medici stessi se ne stupivano. Vedevano che i pazienti miglioravano; sudavano abbondantemente e avevano i bubboni in via di maturazione, le pustole non più infiammate, la temperatura non più elevata, né più soffrivano di dolori al capo. E questo non accadeva per qualche nuova medicina data loro, o qualche nuovo metodo di cura sperimentato su di loro; accadeva dunque per intervento dell’invisibile mano di Colui che il flagello stesso aveva mandato su di noi a castigarci dei nostri peccati. Io lo dico senza timore di esser chiamato fanatico dagli atei. I filosofi potranno cercare nella natura le cause del fenomeno per svalutare quanto gli uomini debbono al Creatore, eppure anche i medici meno religiosi si trovarono allora costretti a riconoscere che l’improvviso declino della pestilenza era sovrannaturale.
Se io ora dicessi che in tutto ciò bisogna vedere un richiamo alla fede e alle rettitudine, qualcuno mi accuserebbe forse di fare una predica invece di scrivere una storia; e come non mi spetta di salire in cattedra interrompo il discorso. Ma, in verità, se su dieci lebbrosi che furon mondati solo uno tornò indietro a lodare Iddio, io voglio esser quest’uno e dimostrare la mia riconoscenza.
Non negherò che moltissime persone si mostrarono in quel tempo riconoscenti. Troppo era forte l’impressione, in tutti, e anche nei più malvagi, della misericordia divina. Così accadeva spesso di incontrar per la strada sconosciuti che vi esprimevan la loro sorpresa. Andando un giorno per Aldgate, piena di gente come da un pezzo non lo era più stata, vidi un uomo che, venuto fuori dall’angolo dei Minoriti, guardò la strada da una parte e dall’altra, e poi allargò le braccia, e disse: “Qual cambiamento, Signore qui! La settimana scorsa non c’era che una persona o due!”
Un altro allora soggiunse; “È meraviglioso! Sembra un sogno!”
E un terzo esclamò: “Benedetto Dio, è tutta opera Sua e Lui dobbiamo ringraziare”.
Costoro erano estranei l’uno all’altro, ma spesso, ripeto, accadeva che la gente si parlasse per le strade senza che l’uno conoscesse l’altro, e tutti lodavano Iddio per averli liberati dalla pestilenza.
Nessuno, ora, temeva più il proprio simile; né esitava ad avvicinare anche chi aveva la testa o il collo fasciati, o chi camminava zoppicando per le piaghe lasciategli dai bubboni all’inguine. Le strade, invero, apparivan piene di queste persone appena guarite; e io debbo dire ch’eran tutte esultanti e grate a Dio per la loro guarigione. Quanto al resto debbo invece dire che, come i figli di Israele dopo il passaggio del Mar Rosso e lo sterminio degli egizii, lodarono Iddio ma presto si dimenticarono della Sua opera.
Qui, ad ogni modo, mi fermo. Sarei certo tacciato di severità, e forse anche di ingiustizia, se mi mettessi a riflettere sulle consuetudini di malvagità alle quali, per motivi e circostanze varie, fece ritorno il popolo di Londra, e delle quali io mi trovai e mi trovo ad essere testimone oculare.
Concluderò il racconto di quell’anno funesto con quattro versi di mia fattura, rozzi ma genuini, che apposi al piede dei miei appunti il giorno stesso in cui terminai di scriverli:
Vi fu a Londra una peste spaventosa,
Nell’anno sessantacinque, nostro evo;
Si portò via centomila anime,
Eppure io rimasi vivo