Quali epidemie (dalla peste al colera). Irriverenze storiche dal tempo del contagio
di Giorgio Gattei
Come s’è detto nella puntata precedente, per Emmanuel Le Roi Ladurie (Un concept: l’unification microbienne du monde (XIV-XVII siècles), in Le territoire de l’historien, Paris, 1978) l’avvio clamoroso ad una “unificazione microbica del mondo” si sarebbe verificato tra il 1300 e il 1600 a seguito dei viaggi terrestri degli europei verso l’Estremo Oriente (oh, Marco Polo!) e poi con la scoperta geografica dell’America (oh, Cristoforo Colombo!). In entrambi i casi si aprirono mondi nuovi di conoscenza, ma si conobbero pure “morbi nuovi” contro cui combattere o perire, come la “peste nera” che venne dall’Asia in Europa oppure il “baratto” della sifilide con il vaiolo tra gli europei e gli amerindi.
La peste era una epidemia che si era già presentata nell’antichità al tempo della “peste di Atene” del 430 a.C. raccontata da Tucidide (che se la prese ma si salvò, mentre Pericle ne morì) e al tempo della “peste di Giustiniano” del 541 d.C., descritta da Procopio di Cesarea, che desolò Costantinopoli. Però entrambe provenivano dall’Etiopia e per via di mare, dato che a quel tempo la “globalizzazione” interessava soltanto i paesi affacciati su quella pozza d’acqua che chiamiamo Mediterraneo. Il salto di dimensione spaziale avvenne quando si aprì la terrestre “via della seta” e l’Europa collegò stabilmente i propri commerci con la Cina. Fu così che arrivò la peste nera al seguito delle carovane che trasportavano, insieme alle merci, anche il veicolo animale del morbo, e cioè quel topo nero asiatico detto rattus rattus (non s’impiegò molta fantasia nel denominarlo!) che, per il tramite di una sua pulce particolarmente “affamata” di sangue umano, ci trasmise il batterio mortale della Yersinia pestis che venne isolato soltanto nel 1894. La peste, giunta sulle coste del Mar Nero, passò poi per nave nel 1348 a Messina (che fu il primo approdo italiano di sbarco) e poi da lì risalì tutta la penisola ed il continente ad una velocità di contagio tale che in capo a pochi anni si ebbero 30 milioni di morti su di una popolazione complessiva stimata attorno ai 100 milioni.
Questa peste è ben nota perché Giovanni Boccaccio ne ha fatto la cornice del suo Decamerone dove alcune disinvolte donzelle (l’iniziativa è stata tutta loro) decidono di fuggire da Firenze appestata per rifugiarsi in villa in compagnia di altri giovanotti di cui qualcuna era perfino innamorata (e perciò dispiace che Boccaccio non abbia anche narrato, dopo i piacevoli conversari diurni, anche le eventuali manovre notturne in cui potevano venir messe in esecuzione le lezioni delle novelle più licenziose con tutto quel loro «rimetti lo diavolo tuo nel mio ninferno» oppure, davanti alla donna a pecoroni, «E questa sia bella coda di cavalla! – No, che io non ci voglio coda». Ma ci sarebbe voluta la penna ben più corrosiva di un Pietro Aretino ancora di là da venire ed allora saranno i suoi Ragionamenti).
Comunque, in seguito la peste si mise in sonno (non ne so il perché), sicché gli europei poterono riprendere il loro girovagare per il mondo, ma questa volta verso occidente essendo intenzionati a “buscar l’oriente per il ponente”. Casualmente s’imbatterono così nel continente americano, dove si realizzò il più gigantesco “scambio epidemico” della storia, dato che quelle popolazioni ci “regalarono” da subito la sifilide (sul momento chiamata erroneamente “mal francese” perché diffusa in Italia dai soldati invasori di Carlo VIII) e noi ricambiammo ad abundantiam con il vaiolo.
La sifilide, che da allora in poi sarà la malattia venerea per eccellenza, non veniva affatto dalla Francia, bensì da quelle “Indie nuove” appena scoperte da Cristoforo Colombo e la cui ciurma si contagiò facendo sesso con delle indiane tanto accondiscendenti quanto ignude – soprattutto ignude, così che anche Colombo delirò scrivendo, nel diario del suo terzo viaggio in cui toccò il Venezuela, che il mondo non gli pareva affatto «rotondo come sta scritto, ma piuttosto a forma di una pera rotonda assai» e con un picciolo fatto a mo’ di «capezzolo di donna» di cui lui aveva appena raggiunto la base, sicché «grandi indizi del Paradiso terrestre sono questi».
La sifilide, oltre a essere una malattia particolarmente vergognosa, al suo primo apparire in Europa fu crudelissima «con bolle bruttissime, le quali spesse volte diventavano piaghe incurabili e con dolori intensissimi nelle giunture e ne’ nervi… e privò della vita molti uomini di ciascun sesso ed età e molti diventati d’aspetto deformissimi restarono inutili e sottoposi a tormenti quasi perpetui» (così Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia del 1537). Non era però questa la sua eziologia nelle Americhe, come spiegava Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdez in un Sommario del 1525 redatto per l’imperatore Carlo V: «può Vostra Maestà tener per certo che questa infermità venne dalle Indie et è molto comune agli Indiani, ma non è così cattiva in quelle parti come in queste nostre, anzi molto facilmente gli Indiani si sanano… Et la prima volta che questa infermità si vidde in Spagna fu da poi che Don Christophoro Colombo hebbe discoperte le Indie e tornò a queste parti… et l’anno 1495 che il Gran Capitano Don Consalvo Fernando de Cordoba passò in Italia in favor del re di Napoli… passò questa infermità con alcuni di quelli spagnoli et fu la prima volta che in Italia si vidde».
Come che sia, l’agente patogeno della sifilide, quel treponema pallidum che si nascondeva dentro la vagina delle donne mentre sul membro maschile si mostrava in maniera sfacciata, venne ad intaccare a tal punto i rapporti tra i sessi che da allora essi si fecero sospettosi. E qui bastino a ricordo due citazioni d’epoca da una ballata del 1512, attribuita a Giovanni Droyn: «Temete i buchi poiché son pericolosi» e da una poesia di Francesco Berni del 1518: «Se voi avete voglia di star sano/ non guardate le donne troppo in viso/ e datevi innanzi a lavorar di mano».
Ma noi europei non restammo di certo con le mani in mano ricambiando gli Indiani di laggiù con il dono del vaiolo di cui erano affatto digiuni. E col vaiolo stramazzarono gli aztechi. Virus di provenienza animale (dall’allevamento dei bovini e quindi d’antichissima origine nel vecchio continente), era già stato il colpevole della “peste di Marco Aurelio Antonino” (che ci morì) che, tra il 165 e il 180 d.C. con una mortalità stimata al 40% della popolazione, rese poi l’impero romano incapace a resistere quantitativamente alle successive invasioni barbariche. Ma con gli Aztechi fu peggio: il vaiolo, che si trasmette da persona a persona quando gli si respira in faccia, provoca febbri e dolori simili a quelli dell’influenza ma degenerando in pustole che finiscono con croste sfiguranti finché non sopraggiunge la morte. Però in Europa la violenza del morbo si era attenuata, comparendo soltanto con alcune fiammate di contagio (fu definitivamente debellato nell’Ottocento con la vaccinazione preventiva), ma in Messico infierì come non mai, così che quando Hérnan Cortès assediò la capitale nel 1521, i suoi pochi soldati poterono avere la meglio su avversari molto più numerosi ma colpiti da quel vaiolo che gli era già stato trasmesso. Secondo una drammatica testimonianza dei vinti, «nessuno aveva più la forza di camminare, restavano coricati, distesi sul loro letto. Nessuno poteva muoversi,… non potevano stare distesi sul ventre e neppure sul dorso, né cambiar fianco e se qualcuno si muoveva anche poco, erano grida senza fine. E ci furono moltissimi morti, vittime di questa infezione senza tregua che scoppia in pustole». Il risultato fu che la popolazione messicana, di quasi 25 milioni di persone al tempo di Cortés, si ridusse in un secolo a meno di un milione!
Però non è che in Europa la peste fosse scomparsa, che infatti ritornò alla grande nella forma di quella peste bubbonica magistralmente descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi e venendogli a proposito per far trionfare il contrastato amore di Renzo Tramaglino per Lucia Mondella (che, se lei gliel’avesse data subito, non ci sarebbe stato romanzo). Sul finire della storia è proprio l’intervento epidemico ad intervenire provvidenzialmente a pareggiare i conti dei buoni (che si salvano: «“Lucia! v’ho trovata! siete proprio voi! siete viva” esclamò Renzo, avanzandosi tutto tremante. “Oh Signor benedetto!” replicò, ancor più tremante, Lucia: “voi? che cosa è questa! in che maniera? perché? La peste!”. “L’ho avuta. E voi…?” “Ah!… anch’io”») ed i cattivi che invece soccombono al crudel morbo. Può darsi che nella realtà avrebbe potuto andare diversamente, con Lucia che moriva e don Rodrigo che la scampava, ma Dio, cioè l’Autore, prediligeva l’happy end sicché Renzo e Lucia non potevano che finire l’uno nelle braccia dell’altra e dopo un anno venne una bambina e poi «ne vennero col tempo non so quanti altri», perchè adesso Renzo non si lesinava di certo…
La celebrità del romanzo manzoniano ha però fatto dimenticare che nel Seicento la peste bubbonica si è mostrata due volte in Italia: nel 1630-1631 al nord scendendo da Francia o Germania al seguito delle soldataglie straniere, impegnate in una consueta guerra di successione dinastica, e fino a Milano, Bologna e Firenze dove si fermò, e nel 1656-57 per via di mare dalla Spagna prima in Sardegna e poi a Napoli dove, con una mortalità stimata attorno alle 150.000 vittime su di una cittadinanza di circa 300.000 persone, ridusse la città «come un deserto, tutto solitudine et horrore, poche le botteghe aperte e queste di sole cose commestibili».
Eppure dopo la peste doveva scomparire dall’Europa lasciando un bel interrogativo agli storici: ma come mai? L’interpretazione più curiosa lo spiega con la sostituzione del pestifero topo nero asiatico col topo marrone, il rattus norvegicus, più grosso e robusto ma meno interessato nel trasmettere, tramite la sua pulce, il morbo gli umani. Ma come dimenticare l’apporto dei gatti domestici nella loro guerra quotidiana contro i topi, neri o marroni che siano, che si smise di considerare delle bestie stregonesche da bruciare sul rogo, come invece si faceva? Gli egiziani, più lungimiranti, per salvare i raccolti granari dai roditori i gatti li avevano invece promossi a divinità e li imbalsamavano anche.
La novità epidemica dell’Ottocento fu invece il colera che proveniva dalle acque infette: ingerendo cibi trattati con quelle, il vibrione (isolato nel 1882) faceva il suo micidiale percorso intestinale dando una probabilità di morte per disidratazione (vomito e diarrea) attorno al 50% e fu per questo che il toccasana risultò il controllo pubblico delle acque, così da renderle pulite ma soprattutto innocue. Sembra che l’epidemia partisse dall’India nel 1817 quando laggiù si ruppe un equilibrio epidemiologico, per raggiungere Mosca nel 1830, Parigi nel 1832, Marsiglia nel 1834 e Napoli nel 1836, dove fece 5000 morti in tre mesi. Ad agosto salì a Roma e Gioacchino Belli ci dedicò una corona di sonetti dialettali Er còllera mòribbus, da cui traiamo appena questi due versi: «Mó, ammalappena una campana sona/ sona a mmorto, e sto morto è del collèra». Però nel 1837 ritornò a Napoli a fare altre 13.800 vittime, tra cui quel Giacomo Leopardi troppo goloso di gelati preparati, evidentemente, con acqua inquinata. In precedenza Leopardi aveva visitato Pompei e ci aveva riflettuto sopra nel canto magistrale La ginestra inchiodando sulla croce della Natura quel “povero cristo” della Civiltà: «a queste piagge/ venga colui che d’esaltar con lode/ il nostro stato ha in uso, e vegga quanto/ è il gener nostro in cura/ all’amante natura…/ Dipinte in queste rive/ son dell’umana gente/ le magnifiche sorti e progressive./ Qui mira e qui ti specchia,/ secol superbo e sciocco».
Geniale quel “giovane favoloso” (è morto a soli 39 anni) che all’alba dell’età della Borghesia osava sbeffeggiarla come “superba e sciocca”! Ma poi noi sappiamo che quella stessa Borghesia si è suicidata dentro le trincee della Grande Guerra per essere sostituita da un Capitale che, dopo aver fatto il suo bel po’ di danni per il resto del Novecento, ha svoltato nel secolo Ventunesimo precipitandoci, al momento, nella peggior congiunzione possibile di una “crisi economica” come quella del 1929, di una “economia di guerra” come quella del 1943-44, di una “crisi di regime” come quella del 1789 (che, se ancora non la si vede, la si vedrà) e, tanto per non farsi mancar nulla, anche di una “crisi epidemica” come quelle del 1348 o del 1630 (ognuno scelga quella che più gli aggrada). Ci sarebbe veramente da dirgli: Troppa grazia, Capitale! Ma con quale esito maledetto? Forse quello del 1849 quando in una Venezia assediata dagli austriaci scoppiò anche la peste, nella fattispecie di colera, e il poeta Arnaldo Fusinato ci sciorinò questo formidabile ritornello: «passa una gondola della città:/ Ehi della gondola/ qual novità?/ Il morbo infuria,/ il pan ci manca,/ sul ponte sventola/ bandiera bianca». La resa, ieri. Ieri come oggi?