La peste nera (1348) da Giovanni Boccaccio, Decameron
a cura di Adriano Simoncini
Giovanni Boccaccio (Certaldo 1313-1375) col suo Decameron – una raccolta di cento novelle che raccontano poeticamente la quotidianità del Trecento in tutti i suoi aspetti, tanto che l’opera è stata definita la “commedia umana” – ha elevato l’idioma toscano, e con lui Dante e Petrarca, a lingua italiana. Nessun altro libro (cito il Sapegno) come questo ci offre, alle soglie della civiltà moderna, una così ampia documentazione di fatti, di figure e di costumi. Tradotto in tutte le lingue – e addirittura ritradotto nell’italiano contemporaneo per chi non intende affrontare le difficoltà del testo originale, peraltro minime (e non sa cosa perde… ) – è il libro più vivo (ancora Sapegno) della nostra letteratura. Di seguito propongo alcune pagine che descrivono il diffondersi della peste in Firenze, tragico evento di cui fu testimone.
INTRODUZIONE (pp. 6-10)
(…) Dico che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di mille trecento quarant’otto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale, o per operazion de’ corpi superiori[1] o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in un altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.
E in quella[2] non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati, e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo, e molti consigli dati a conservazion della sanità; né ancora umili supplicazioni, non una volta ma molte, e in processioni ordinate, e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone; quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa, a’ maschi e alle femmine parimente, o nell’anguinaia o sotto le ditella[3], certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavòccioli[4]. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavòcciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire; e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le coscie, e in ciascuna altra parte del corpo, apparivano a molti, a cui grandi e rade, e a cui minute e spesse. E come il gavòcciolo primieramente era stato, e ancora era, certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto; anzi, o che la natura del malore nol patisse, o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini, senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse, e, per conseguente, debito argomento[5] non vi prendesse, non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e, i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò, che essa dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male; ché non solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator trasportare.
(…) Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno ad altro, che, non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa[6] dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. (…)
Dalle quali cose, e da assai altre a queste simiglianti o maggiori, nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi; e tutti quasi ad un fine tiravano[7] assai crudele, ciò era di schifare[8] e fuggire gli infermi e le lor cose; e così facendo, si credeva ciascuno a sé medesimo salute acquistare.
Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il vivere moderatamente, e il guardarsi da ogni superfluità, avesse molto a così fatto accidente resistere[9]; e, fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano; e in quelle case ricogliendosi e rinchiudendosi dove niuno infermo fosse e da vivere meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire, con suoni o con quelli piaceri che aver potevano si dimoravano.
Altri, in contraria opinione tratti, affermavano, il bere assai e il godere, e l’andar cantando attorno e sollazzando, e il soddisfare d’ogni cosa allo appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridere e beffarsi, essere medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna, ora a quell’altra andando, bevendo senza modo e senza misura facendo (…) e, con tutto questo proponimento bestiale, sempre gli infermi fuggivano[10] a lor potere.
E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta, per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti morti o infermi (…)
Alcuni erano di più crudel sentimento (come che per avventura più fosse sicuro), dicendo niun’altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona, come il fuggire loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi, e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire la iniquità degli uomini con quella pestilenza, non dove fossero procedesse[11], ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa[12] intendesse; o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere, e la sua ultima ora esser venuta.
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[1] per operazion … superiori: per influsso dei corpi celesti.
[2] in quella: contro quella pestilenza.
[3] ditella: ascelle.
[4] gavòccioli, bubboni.
[5] argomento: rimedio.
[6] la cosa: gli oggetti, le vesti.
[7] tiravano: tendevano.
[8] schifare: evitare.
[9] avesse… resistere: giovasse molto a resistere a così fatto accidente.
[10] fuggivano: sfuggivano.
[11] procedesse: li seguisse.
[12] commossa: è l’ira di Dio.