La peste di Giustiniano (541 d.C.)
da Procopio di Cesarea, Le guerre
XXII
[542 d.C.] Durante quel periodo vi fu una pestilenza, che quasi portò l’intera razza umana all’annientamento. Ora nel caso di tutti gli altri flagelli inviati dal Cielo qualche spiegazione della causa può essere trovata da uomini audaci, così che molte teorie furono proposte da coloro che sono abili in queste materie; infatti coloro che amano congetturare cause che sono assolutamente incomprensibili per l’uomo, e produrre strane teorie di filosofia naturale, ben sapendo che essi non stanno dicendo nulla di sensato, considerano sufficiente per essi ingannare del tutto con i loro argomenti qualcuno di coloro che incontrano e persuaderli del loro punto di vista. Ma per questa calamità non si riesce a esprimere a parole o ipotizzare col ragionamento una spiegazione, tranne che ricondurla a Dio. Infatti, non si verificò su una parte del mondo né colpì solo alcune persone, né infuriò in una sola stagione dell’anno, cosicché da tali circostanze potrebbe essere possibile trovare sottili spiegazioni delle cause, ma s’abbatté su tutto il mondo e rovinò le vite di tutti gli uomini, sebbene differendo gli uni dagli altri in più alto grado, non rispettando né il sesso né l’età.
Sebbene, infatti, gli uomini differissero rispetto ai luoghi in cui vivevano, o per la legge della loro vita quotidiana, o per le tendenze naturali, o nelle occupazioni attive, o in tutte quelle cose in cui un uomo differisce da un altro uomo, nel caso di questo morbo soltanto la diversità non giovò per nulla. Essa attaccò alcuni nel periodo estivo, altri in inverno, ed altri ancora in diversi periodi dell’anno. Ora libero ognuno d’esprimere il proprio giudizio su questa materia, sofista o astrologo, per quanto riguarda me, mi accingo a narrare dove questa malattia ebbe origine e in che modo distrusse gli uomini.
Cominciò a diffondersi tra gli Egiziani che abitano a Pelusio. Poi si divise e si mosse da un lato verso Alessandria ed il resto dell’Egitto, e dall’altro verso la Palestina confinante con l’Egitto; da lì invase tutto il mondo, sempre movendosi in avanti e viaggiando nei momenti favorevoli. Sembrava, infatti, procedere secondo una regola e sostare per un periodo determinato in ogni regione, non danneggiando nessuno in modo superficiale, ma diffondendosi in ogni direzione fino ai confini del mondo, come se temesse che qualche piccola parte della terra le potesse sfuggire. Non tralasciò né un’isola, né una caverna, né una cima di montagna che fosse abitata da uomini: se evitava qualche regione, senza toccarne gli abitanti o sfiorandoli appena, ancora in un secondo tempo tornò indietro; quindi non attaccò per nulla quelli che abitavano nelle vicinanze, su cui si era già abbattuta pesantemente prima, ma non s’allontanò dal luogo in questione finché non ebbe reso il numero dei morti equamente proporzionato a quello delle popolazioni vicine, decimate in precedenza. Questa epidemia aveva sempre inizio dalle zone costiere, poi risaliva verso l’interno. Nel secondo anno giunse nel mezzo della primavera a Bisanzio, dove m’accadde di trovarmi a quel tempo. La situazione era la seguente. Apparizioni di creature soprannaturali in tutto simili ad esseri umani furono viste da molte persone, e coloro che l’incontravano credevano di essere colpiti dalla creatura incontrata in questa o quella parte del corpo, come accadeva, e immediatamente avendo vista questa apparizione erano subito colpiti dalla malattia. Ora in un primo tempo coloro che incontravano queste creature cercavano di cacciarli pronunciando i nomi più sacri ed esorcizandoli in tutti i modi che ognuno poteva, ma non ottenevano assolutamente nulla, perfino nei santuari dove la maggior parte di essi avevano cercato rifugio morivano costantemente. Poi decidevano di non dare ascolto neppure agli amici che li chiamavano, si chiudevano nelle stanze, facendo finta di non udire, per quanto si bussasse alla porta, temendo, evidentemente, che a chiamarli fosse uno di questi demoni. Ma nel caso di alcuni la peste non giunse in questo modo, videro una visione in sogno e credettero di subire queste cose per mano di una creatura che si parava loro innanzi, o anche d’udire una voce che annunziava loro che erano iscritti nel numero di coloro che dovevano morire. Alla maggioranza però accadde d’essere contagiata dal male senza avere, né da svegli né in sogno, alcun presagio. Furono contagiati nel seguente modo. Furono assaliti da una febbre improvvisa, alcuni mentre si stavano destando dal sonno, altri mentre passeggiavano, ed altri ancora mentre erano impegnati in altre questioni, senza alcun riguardo per ciò che stavano facendo. Il corpo non cambiava dal suo precedente colore, non era caldo come uno si aspetterebbe quando è colpito dalla febbre, non si manifestava neppure un’infiammazione, ma dall’inizio sino a sera la febbre era così debole, da non essere né per i malati, né per il medico che li palpava indizio di un pericolo. Era naturale, quindi, che nessuno di coloro che contraeva la malattia s’aspettasse di morire per essa. Ma nello stesso giorno in alcuni casi, o l’indomani, o non molti giorni dopo al massimo, spuntava un bubbone, e questo aveva luogo non solo nella particolare parte del corpo che è detta “bubbone”, che è sotto l’addome, ma anche sotto le ascelle, in alcuni casi anche vicino alle orecchie, ed in alcune parti delle cosce.
Fino a questo punto, quindi, il decorso della malattia era del tutto uguale per tutti quelli che erano colpiti. Ma da quel momento in poi seguiva differenti sviluppi; non so dire se la causa di questa diversità di sintomi fu causata dalla differenza dei corpi, o dal fatto che essa seguiva la volontà di Colui che aveva inviato il morbo nel mondo. Colpiva, infatti, alcuni con un coma profondo, altri con un violento delirio, in tutti i casi subivano i sintomi caratteristici della malattia. Coloro che erano colpiti dal coma dimenticavano del tutto ciò che era loro familiare e sembrava che fossero in un sonno perpetuo. Se qualcuno si prendeva cura di loro, di tanto in tanto mangiavano, ma quelli che erano trascurati, morivano subito per mancanza di sostentamento. Quelli che erano colpiti dal delirio soffrivano invece d’insonnia ed erano vittime di visioni distorte; infatti, sospettavano che stessero giungendo uomini per distruggerli, cadevano in agitazione e si davano alla fuga, gridando con tutta la loro voce. Quelli che li accudivano subivano uno stato di continua fatica ed erano ridotti allo stremo.
Per questa ragione tutti li commiseravano non meno dei malati, non perché si prendessero la peste stando vicino a loro (infatti, né un medico né altre persone contrassero questa malattia attraverso il contatto con un malato o con un morto, molti che seppellivano costantemente o curavano persone a loro affatto estranee, resistevano in questo compito oltre ogni aspettativa, mentre molti altri erano colpiti dal morbo senza preavviso e morivano subito); ma li compiangevano per lo stato pietoso in cui si trovavano. Infatti, quando i malati cadevano dai letti e rotolavano sul pavimento li rimettevano a posto e a forza li trattenevano e tiravano a sé chi smaniava di buttarsi dal tetto. Quando trovavano dell’acqua nelle vicinanze, volevano buttarcisi dentro, non per il desiderio di bere (i più, infatti, si gettavano in mare), ma a causa soprattutto dello stato malato delle loro menti. Avevano anche gran difficoltà nel mangiare, infatti, non prendevano cibo facilmente. Molti perirono per non avere alcuno che si prendesse cura di loro, o perché oppressi dalla fame, o per essersi gettati dall’alto. Nei casi in cui non vi era né il coma né il delirio, il bubbone andava in cancrena e il sofferente, non riuscendo a tollerare il dolore, moriva. Uno potrebbe supporre che le stesse situazioni fossero vere in tutti i casi, ma poiché non erano del tutto in sé, alcuni non erano in grado di accorgersi del dolore; l’alterazione mentale toglieva, infatti, loro la sensibilità. Ora alcuni medici che erano incerti, poiché i sintomi erano incerti, supponendo di trovare il punto centrale della malattia nei bubboni, decisero d’investigare i corpi dei morti. Avendo aperto alcuni dei bubboni, trovarono una strana specie di carbonchio che si era formato in essi.
La morte in alcuni casi giungeva immediatamente, in altri dopo molti giorni; i corpi di alcuni si ricoprivano di nere pustole grandi come una lenticchia e questi non sopravvivevano neppure un giorno, ma tutti morivano immediatamente. Molti altri furono colpiti da uno sbocco spontaneo di sangue senza una causa visibile e furono subito condotti alla morte. In ogni modo posso affermare questo, i medici più illustri diagnosticarono la morte a molti, che inaspettatamente sfuggirono interamente alla malattia dopo poco tempo, e garantirono la salvezza a molti, destinati invece a morire subito dopo. Così accadde che quest’epidemia non avesse alcuna motivazione riconducibile alla logica umana; in tutti i casi, infatti, giungeva ad esiti imprevedibili. Per esempio, mentre alcuni trovavano giovamento nei bagni, altri invece ottenevano danno da essi. Quelli che non ricevevano alcuna cura morivano, ma altri, contrariamente alla ragione, si salvavano. Inoltre, i metodi di trattamento mostravano differenti risultati con differenti pazienti. Pertanto l’intera questione può essere riassunta così, dall’uomo non fu trovato alcun mezzo di salvezza, né per chi facesse attenzione a non contagiarsi né per chi, contagiato, cercasse di sopravvivere; la malattia colpiva senza preavviso e la guarigione sopraggiungeva senza alcuna causa esterna.
Nel caso delle donne incinte la morte le colpiva senz’altro se erano prese dal morbo. Alcune morivano per aborto, altre subito dopo il parto con il figlio che avevano partorito. In ogni modo dicono che tre puerpere sopravvissero mentre morirono i loro figli, e che una donna perì durante il parto ma che il bambino nacque e sopravvisse. Ora in quei casi in cui il bubbone si gonfiava e finiva in pus, accadeva di liberarsi della malattia e sopravvivere, chiaramente perché la virulenza del carbonchio trovava sfogo in questa direzione, e questo era in genere indizio di ritorno alla salute; ma nei casi in cui il bubbone restava nella sua forma usuale sopraggiungevano i mali che ho prima menzionato. Ad alcune persone accadde che le cosce si rinsecchissero, in questo caso, sebbene il bubbone fosse lì, non divenne mai purulento. Altri che sopravvissero non ebbero più integra la lingua, e vissero o balbuzienti o incapaci di parlare se non a stento e con difficoltà.
XXIII
L’epidemia imperversò a Bisanzio per quattro mesi, e la sua maggior virulenza infuriò per tre. All’inizio le morti furono poche più del solito, poi la mortalità conobbe un crescendo, quindi il numero dei morti raggiunse le cinquemila persone al giorno, poi divennero diecimila e in seguito anche di più. All’inizio ognuno provvedeva di persona a seppellire i membri della propria famiglia, gettandoli nelle tombe degli altri, o di nascosto o usando la forza; ma in seguito il disordine e la confusione divennero completi ovunque. Schiavi rimasero privi di padroni, uomini che nei tempi passati erano stati molto prosperi furono privati del servizio dei loro domestici che erano o malati o morti, molte case furono del tutto private d’abitanti umani. Per questa ragione accadde che alcuni tra gli uomini più illustri della Città per le generali ristrettezze rimasero insepolti per molti giorni. Fu incarico dell’imperatore, com’era naturale, fronteggiare la situazione. Distaccò quindi dei soldati dal Palazzo e distribuì del denaro, ordinando a Teodoro di occuparsi di questa questione; quest’uomo sovrintendeva alle risposte imperiali, annunciando sempre all’imperatore le petizioni dei suoi clienti, e comunicando poi ad essi ciò che egli aveva deciso. In lingua latina i Romani designano quest’ufficio con il termine di “referendarius”. Quelli a cui la casa non s’era ancora svuotata del tutto si occupavano di persona della sepoltura dei loro congiunti. Teodoro, distribuendo il denaro dell’imperatore e spendendone di suo, si occupò di seppellire i cadaveri che erano abbandonati. Quando accadde che tutte le tombe esistenti furono piene di morti, iniziarono a scavare fosse in tutti i luoghi intorno alla città uno dopo l’altro, gettavano i cadaveri lì, come ognuno poteva, ed andavano via: ma quando coloro che compivano questo lavoro non furono più in grado di fronteggiare il numero dei morti, salivano sulle torri delle fortificazioni di Sica, scoperchiavano i tetti e vi gettavano dentro i cadaveri in completo disordine; e accatastandoli come capitava, le riempivano praticamente tutte quante di morti, quindi le coprivano di nuovo con i tetti. Come risultato di ciò un lezzo pestilenziale iniziò a pervadere la Città e ad affliggere ancor di più gli abitanti, specialmente quando il vento fresco soffiava da quel quartiere.
In quel periodo furono abbandonati tutti i riti relativi alle esequie. I defunti, infatti, non erano accompagnati da un corteo funebre come di norma, né onorati con canti secondo la consuetudine, ma era sufficiente caricarsi sulle spalle il corpo di un morto, andare nella zona costiera della Città e gettarlo lì; poi i cadaveri sarebbero stati stipati su delle imbarcazioni e sarebbero stati condotti dove capitava. In quel periodo anche quelli tra i popolani che in precedenza erano stati membri delle fazioni dimenticarono la loro inimicizia reciproca e di comune accordo si prendevano cura dei riti funebri e trasportavano con le proprie mani i corpi anche di coloro che non erano loro congiunti e li seppellivano. Inoltre, persino coloro che un tempo avevano goduto dello stare in mezzo a turpitudini e nequizie, abbandonavano i tratti perversi delle loro vite quotidiane ed esercitavano la pietà religiosa con diligenza, non perché avessero appreso la saggezza o perché fossero divenuti tutto di colpo amanti della virtù (ciò ch’è radicato negli uomini per natura o per lunga consuetudine non si muta di certo facilmente, a meno che, naturalmente, sopraggiunga una qualche ispirazione divina), ma allora tutti, per così dire, spaventati dai terribili eventi che stavano avvenendo, e supponendo che la morte fosse vicina, si videro costretti, com’è naturale, a volgersi alla continenza per necessità. Infatti, appena furono liberati dalla malattia e guarirono, supponendo già di essere in salvo, essendosi spostato il morbo su altre persone, si volsero di nuovo al peggio e tornarono una volta ancora alla loro meschinità di cuore, ed ora, più di prima, mostrarono l’assurdità della loro condotta, superando se stessi in malvagità ed in scelleratezze d’ogni sorta. Uno potrebbe enfaticamente sostenere senza mentire che questa malattia, o per caso o per qualche disegno divino, scelse con esattezza le persone peggiori e le lasciò in vita. Ma queste cose furono mostrate al mondo in un secondo tempo.
In quel tempo non era cosa facile vedere un uomo per le strade di Bisanzio, ma tutti quelli che avevano la buona sorte di essere in salute erano rintanati nelle loro case, o per curare i malati o per piangere i morti. E se ad uno capitava d’incontrare qualcuno, questi stava trasportando qualche cadavere. Cessò l’attività d’ogni tipo, tutti i mestieri furono abbandonati dagli artigiani, come pure ogni altra attività che uno avesse per le mani. Pertanto nella Città, già fiorente e ricca d’ogni sorta di beni, dilagava una carestia vera e propria. Certamente era una cosa difficile e degna di nota avere sufficiente pane od ogni altra cosa; cosicché alcuni malati parvero giungere alla fine della vita più velocemente a causa della mancanza del necessario. Per dirla in una parola, non era possibile vedere un solo uomo a Bisanzio che girasse in clamide, specialmente quando l’imperatore cadde malato (infatti anche a lui uscì un bubbone), ma nella Città sede del dominio dell’impero romano ogni uomo indossava vesti adatte a cittadini semplici e rimaneva tranquillo a casa. Tale fu il corso della peste nel resto dell’impero romano ed a Bisanzio. L’epidemia s’abbatté anche sul territorio dei Persiani e visitò inoltre tutti gli altri barbari.