Perché le epidemie? Irriverenze storiche dal tempo del contagio
di Giorgio Gattei
Sono confinato in casa da giorni come se fossi un mafioso agli arresti domiciliari, io che non ho commesso alcun reato di mafia. Dicono che l’isolamento domestico favorisca la riscoperta dell’interiorità, ma a me proprio non succede e invece avverto solo una sorda rabbia contro quel giudice che così mi ha condannato. Ma chi è mai questo giudice? Questa volta non c’entra affatto la Storia con la S maiuscola, come nel caso delle guerre che ci cascano addosso, ma è invece la Natura, anche lei con la N maiuscola, che ci ha travolto nei suoi movimenti inconsulti. Non ci avevo mai pensato in precedenza, ma nella mia segregazione casalinga ho avvertito che la Natura, che pure ci crea, non ci ama affatto e ci vorrebbe tutti morti, e non soltanto individualmente (come prima o poi arriva comunque a fare), ma come specie, come intero genere umano. Per questo, nella costrizione domiciliare che sto soffrendo, mi sono ritrovato a condividere il “pessimismo cosmico” di Giacomo Leopardi, di cui ho riletto non tanto le poesie (con quell’Infinito ultra-celebrato e iper-cerebrato che poi non è altro che una fuga tutta di testa, hippy ante litteram, dal “natio borgo selvaggio”), bensì le Operette morali che sono uno straordinario prodotto letterario, sebbene avrei qualcosa da dire su di un linguaggio che non è più il nostro, in cui la filosofia leopardiana si presenta al suo meglio (mentre invece nel suo Zibaldone di pensieri io mi ci perdo…)
Queste Operette sono state pubblicate definitivamente a Napoli nel 1835. Perchè Leopardi ce l’aveva poi fatta a fuggir da Recanati e dopo un vario girovagare aveva raggiunto finalmente una metropoli, com’era Napoli a quel tempo, sulla quale incombeva pur sempre minacciosa la silhouette di quello “sterminator Vesevo” che aveva già annichilito Pompei, Ercolano ed Oplonti. Era stato un episodio clamoroso di omicidio di massa da parte della Natura, quella stessa che nel 1837 l’avrebbe fatta finita anche con il “giovane favoloso”, vinto da una epidemia di colera per il tramite di quei sorbetti di cui era tanto goloso e che consumava al Caffè “Due Sicilie” in Largo della Carità, a ridosso dei Quartieri Spagnoli, consumandone porzioni enormi talché «la gente intorno a lui lo derideva dicendo che era più grande il suo gelato che lui».
Comunque la sua lotta contro l’“empia madre” Natura era stata combattuta ad armi impari perchè la Natura se ne infischia dei Leopardi e di ogni altro, sia o meno come lui. E nel Dialogo della Natura con un islandese glielo aveva fatto confessare: rimproverata di essere «nemica scoperta degli uomini e degli altri animali e di tutte le opere sue», come lei aveva risposto? Che le conseguenze del suo agire le erano del tutto indifferenti, che in lei non c’era alcuna intenzione né malevola né benevola e che delle conseguenze lei non si poteva curare affatto essendo questa la sua “natura” e «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».
Va però detto che la Natura non ce l’ha mai avuto in specifico contro il genere umano. Ce l’ha con la vita in quanto tale se, da quando se l’è vista comparire davanti sulla terra, sarebbero già state cinque (dico cinque!), secondo gli esperti, le “estinzioni di massa” che ha fatto delle specie viventi, fortunatamente non mai totali perchè altrimenti non ci saremmo noi (la quinta è la più celebre: è quella che ha fatto fuori quegli stupidi dinosauri con una pioggia di meteoriti). Però noi umani potremmo essere la sua sesta estinzione se non ci fossimo subito opposti con tutta l’intelligenza della Civiltà, anche qui con la C maiuscola, a partire da quella benemerita Arca di Noè che ci ha ospitato in quell’anno che fu “tutto d’acqua” seguìto al Diluvio universale e che durò dal 600° anno di vita di Noè, al 17 del secondo mese, quando «si apersero le cateratte del cielo e piovve a dirotto per 40 giorni e 40 notti», al 601° anno di sua vita, al 27 del secondo mese, quando finalmente «la terra fu asciutta» e Dio permise che i sopravissuti mangiassero carne, che in precedenza erano vegetariani: insomma, una bistecca per Dio! (Leggere nella Bibbia per credere).
Il fatto è che l’ambiente naturale che ci circonda ci è ostile, e non soltanto per le cose e gli animali, ma per gli stessi umani che ci fiatano addosso, sicché il precetto evangelico “Ama il prossimo tuo” andrebbe forse meglio corretto con “Temi il prossimo tuo”, quel prossimo nostro che inconsapevolmente ci può trasmettere degli esserini, come i batteri e i virus, che nemmeno si vedono ad occhio nudo. E questi sono nostri nemici che ci aggrediscono dall’esterno all’interno venendo da qualche “bacino microbico” animale (come il vaiolo dai bovini, la peste dai topi oppure il colera dal vibrione dell’acqua) che poi noi si scambiamo reciprocamente col semplice respirarci addosso. E questo è successo da sempre, tanto che un emerito storico francese, Emmanuel Le Roi Ladurie, ne ha teorizzato che la nostra infaticabile guerra contro la Natura potrebbe dirsi terminata solo quando si fosse realizzata l’unità microbica del mondo, quando cioè tutti i virus del pianeta fossero resi compatibili, e quindi innocui, a ciascuno di noi (Un concept: l’unification microbienne du monde (XIV-XVII siècles), in Le territoire de l’historien, Paris, 1978).
S’immagini il mondo come composto di tante comunità separate di animali e di umani, ciascuna con i propri virus specifici addomesticati perchè patrimonio del loro codice genetico (si può dire così? Io dico così). Però agli umani amano scorazzare per il mondo (oggi la chiamiamo “globalizzazione” ma c’è sempre stata, sebbene limitata dai continenti progressivamente conosciuti) così che, quando due comunità s’incontrano, non fanno altro che passarsi i reciproci “patrimoni virali” e scoppiano le epidemie, che durano finché la forza del virus non si attenua spontaneamente (chiedere ai virologi!) oppure perchè la comunità aggredita impara a difendersene producendo anticorpi oppure trovando il vaccino adeguato che l’ammazza. E quelli che non ce la fanno? Sono le vittime delle epidemie, da cui quelle ecatombi umane mostruose di cui la storia ci racconta ad abundatiam.
Ora nel 1835, dopo che da Napoli era andato a visitare Pompei, Giacomo Leopardi ci scrisse sopra il canto magnifico La ginestra. E’ stata la sua riflessione massima sulla spietatezza di una Natura che è «madre di parto e di voler matrigna» alla quale dovrebbe essere opposta «l’umana compagnia,/ tutti fra sé confederati/ gli uomini/… porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce /della guerra comune». Perchè se mai nella guerra dovesse vincere la Natura (dubbio amletico: forcse che «l’uom d’eternità s’arroga il vanto?»), si realizzerebbe la fosca prospettiva con cui si chiude il romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo (che tuttavia ne attribuisce la responsabilità a noi stessi) con la terra che, dopo una grande esplosione (che potrebbe anche essere una grande epidemia), «ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». Perchè sulla terra il maggior virus per la Natura resta pur sempre «l’uman genere nostro» ed alle volte, nella mia reclusione carceraria presente, mi viene da pensare, considerando le conseguenze della nostra presenza invasiva, che lei potrebbe anche avere le sue buone, ovviamente naturali, ragioni (continua).