I Bolsonaro e i legami con le milizie paramilitari*
di Francesco Guerra
Non è semplice illustrare, con dovizia di particolari, la linea del tempo che riconnette i vari membri della famiglia dell’attuale Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, con le milizie paramilitari di Rio de Janeiro, alle quali Adriano da Nóbrega, ucciso alcuni giorni fa in una operazione congiunta delle forze di polizia dello Stato di Bahia e di Rio de Janeiro, apparteneva. Ancora più complicato è far risaltare questa connessione tra i Bolsonaro e le milizie per chi, tanto in Italia quanto in Brasile, ha sentito poche volte parlare del complesso tema – invero sudamericano, non specificamente brasiliano – concernente le pericolose relazioni volta a volta intrattenute dalla politica con questi territori “borderline” della criminalità organizzata.
Possiamo fare cominciare la nostra storia dal 15 maggio 2003, quando, alle ore 00:30, nella favela conosciuta col nome di Cidade de Deus, un tecnico frigorista, Anderson Rosa de Souza, è ucciso durante una operazione di polizia. A distanza di quasi diciassette anni l’inchiesta, per accertare le responsabilità di questo omicidio, ancora non è stata conclusa. Accusati del fatto sono due poliziotti militari appartenenti alla medesima unità all’epoca: Adriano da Nóbrega e Fabrício Queiroz. Il primo già lo conosciamo, il secondo lo conosceremo meglio più avanti a causa del suo coinvolgimento nel cosiddetto schema delle rachadinhas all’interno della Assemblea Legislativa dello Stato di Rio de Janeiro con riferimento al gabinetto politico del figlio del Presidente: Flávio Bolsonaro. Con il termine rachadinha si intende una pratica mediante la quale parte del salario di un collaboratore di un determinato politico è restituita allo stesso parlamentare.
In data 25 ottobre 2019, durante la sua visita in Cina, il Presidente Jair Bolsonaro dichiarò, con riferimento a Queiroz, quanto segue: “Lui [Queiroz] è mio amico dal 1985, è un mio soldato”. Una amicizia di lunga data, quindi, quella che lega Bolsonaro a uno dei due poliziotti militari accusati dell’omicidio del tecnico frigorista nel 2003. L’espressione “è un mio soldato” si spiega per il fatto che Bolsonaro conosce Fabricio Queiroz da quando questi fu sua recluta nella Brigata di fanteria paracadutisti dell’esercito nel 1984.
Chi è Fabrício Queiroz?
Secondo quanto riportato da un articolo apparso il 21 giugno 2019 sulla rivista Veja (Fabrício Queiroz: un passato che condanna), Queiroz sarebbe il destinatario di più di venti denunce e di una decina di inchieste, che lo vedono coinvolto, la maggior parte delle quali, tuttavia, ad oggi, non si è ancora conclusa. Da queste denunce emerge la personalità altamente violenta del poliziotto militare Queiroz, il quale, non a caso, faceva parte del temuto 16. Battaglione della Polizia Militare di Rio de Janeiro, che, all’epoca, era famoso per la crudeltà nel condurre le operazioni di polizia e per taglieggiare quegli stessi criminali che avrebbe dovuto perseguire. La favela preferita per svolgere simili incursioni era quella de Cidade de Deus, da dove, poco sopra, la nostra storia è cominciata. La fama del 16. Battaglione è legata alla cosiddetta gratificação faroeste, risalente ai primi anni 2000, che consisteva nel premiare gli “atti di coraggio” – per la gran parte vere e proprie esecuzioni – di cui i poliziotti militari si rendevano protagonisti. Il nome di Queiroz è legato a due casi di presunto omicidio. In uno di questi il suo collega era Adriano da Nóbrega, che entrerà a fare parte del 16. nel 2003, rimanendoci per sei mesi. L’altra morte, legata al nome dell’amico ed ex soldato del Presidente Bolsonaro, risale al 16 novembre 2002, sempre nella favela Cidade de Deus. Gli abitanti della favela hanno sempre riferito che il motivo degli spari tra la polizia e i supposti banditi fu il mancato pagamento del pizzo da parte dei secondi ai primi per poter realizzare la loro festa a base di musica funky. A farne le spese fu un giovane di 19 anni, Gênesis Luiz da Silva, il quale, ferito, morì 25 minuti dopo essere arrivato in ospedale. Queiroz e il suo collega dichiararono che avevano sparato esclusivamente per difendersi. Anche questa inchiesta, sebbene ancora aperta, è da considerarsi arenata e non ha condotto ad alcun risultato concreto. Ma c’è di peggio.
Come riportato dal summenzionato articolo della Veja, alcuni testimoni dichiararono che i feriti furono caricati dai due poliziotti sulla loro macchina, girando per un buon tempo intorno alla favela. Secondo quanto detto dal medico di servizio quella notte, se Gênesis fosse arrivato prima in ospedale, sarebbe sopravvissuto. Prima ancora di questo evento, nell’ottobre del 1988, il soldato di Bolsonaro arrestò un supposto trafficante, al quale tentò di estorcere 20.000 reais. Nonostante l’investigazione da parte della stessa Polizia Militare nei suoi confronti, Queiroz riuscì a farla franca anche in questo caso. Il supposto trafficante, dopo cinque mesi di detenzione preventiva, fu assolto. Non si può dire che le cose andassero meglio in famiglia per Queiroz, il quale fu denunciato per violenza e maltrattamenti dalla moglie, ma, su richiesta della stessa, la denuncia fu ritirata e il caso archiviato. La Veja informava, inoltre, come, secondo i dati in possesso del Ministero Pubblico di Rio de Janeiro, vi siano quindici investigazioni nelle quali il nome di Queiroz è citato. Indagini, è lecito ipotizzare, che difficilmente approderanno a qualcosa, almeno nel breve/medio periodo.
La famiglia Bolsonaro braccio politico dei miliziani
All’incirca a distanza di cinque mesi dall’omicidio del tecnico frigorista e, si suppone, nel pieno delle indagini che vedevano coinvolto l’amico del Presidente dal 1985 e Adriano da Nóbrega, il 24 ottobre del 2003, Flávio Bolsonaro presentava all’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro (ALERJ) una mozione (Nº 2650/2003) di elogio e congratulazioni all’indirizzo del da Nóbrega, usando le seguenti parole: “Con molti anni di attività alle spalle, questo tenente di polizia militare svolge la sua funzione con dedizione, in maniera brillante e con generosità. Presta un servizio alla società, svolgendo, le sue attività, con assoluta prontezza e con un comportamento eccezionale. Nel corso della sua carriera, ha lavorato direttamente e indirettamente in azioni che promuovono la sicurezza e la tranquillità della società, ricevendo vari elogi curricolari. Imbevuto di spirito comunitario, che ha sempre guidato la sua vita professionale, agisce nell’adempimento del suo dovere di poliziotto militare al servizio del cittadino. È con orgoglio e soddisfazione che do questo omaggio al primo tenente della Polizia Militare Adriano Magalhães da Nóbrega”. Tuttavia, nonostante la menzione pubblica resagli da Flávio Bolsonaro, il tenente della Polizia Militare Adriano da Nóbrega, a meno di tre mesi di distanza da tale gratificazione, sarà arrestato con l’accusa di omicidio del parcheggiatore Leandro dos Santos Silva di 24 anni, il quale, pochi giorni prima di essere ucciso, aveva denunciato i tentativi di estorsione nei suoi confronti da parte di un gruppo di miliziani. Siamo nel gennaio 2004.
Da questa data gli eventi ci conducono al giugno 2015, il 15 per l’esattezza, giorno in cui Flávio Bolsonaro concede la seconda onorificenza ad Adriano da Nóbrega. Attraverso il progetto di risoluzione N° 1067/2005 l’Assemblea Legislativa dello Stato di Rio de Janeiro (ALERJ) assegnava al Primo Tenente della Polizia Militare della stessa città, Adriano da Nóbrega, la Medaglia Tiradentes. La ALERJ, dunque, concedeva ad un miliziano, il quale, all’epoca dei fatti, si trovava in stato di arresto per omicidio e per questo non comparve alla premiazione in suo onore, la più alta onorificenza dello Stato di Rio de Janeiro. In quella occasione, Flávio Bolsonaro, come se nulla fosse, citò il lungo curriculum del Capitano Adriano, la cui preparazione militare ne faceva una delle punte di diamante del BOPE, il Battaglione per le operazioni speciali di polizia, reso internazionalmente famoso dal film del 2008 di José Padilha, Tropa de Elite – Gli squadroni della morte. Secondo la rivista Veja, il tenente della Polizia Militare ricevette l’onorificenza in prigione (Batalhão Especial Prisional) il giorno 9 settembre.
Nonostante l’importante riconoscimento fattogli avere da Flávio Bolsonaro, il 23 ottobre del 2005, Adriano da Nóbrega viene condannato per l’assassinio del parcheggiatore di 24 anni Leandro dos Santos Silva, nella favela Parada de Lucas, zona nord di Rio de Janeiro, a 19 anni e sei mesi di carcere. Quattro giorni dopo, il 27 ottobre 2005, in un discorso alla Camera dei Deputati, Jair Bolsonaro prese le difese del Capitano Adriano, chiedendo espressamente aiuto all’allora deputata federale Denise Frossard, ex magistrato, al fine di rivedere la condanna inflitta al miliziano. A detta dell’attuale Presidente, coloro che avevano messo in stato d’accusa e testimoniato contro il da Nóbrega – descritto dai suoi stessi ex colleghi come uno psicopatico a cui piaceva ammazzare coloro che riteneva nemici a coltellate – non avevano considerato che si trattava di un “brillante ufficiale”, il quale “se non mi sbaglio”, fu anche “il miglior allievo dell’Accademia della Polizia Militare” di Rio de Janeiro. Altrove, sempre in questo discorso, l’attuale Presidente usava all’indirizzo di Adriano espressioni come “coitado”, in altre parole, una vittima, e “un giovane di poco più di venti anni”. Tanta dedizione al caso da parte dell’allora deputato Jair Bolsonaro dette i suoi frutti. Il Capitano Adriano fece ricorso contro la precedente sentenza e nel 2007 fu assolto. Nello stesso anno, il suo ex collega nella Polizia Militare, Fabrício Queiroz, espulso dalla polizia, cominciò a lavorare nel gabinetto politico di Flávio Bolsonaro, il quale solo pochi anni prima, come abbiamo visto, aveva fatto ottenere ad Adriano da Nóbrega due importanti onorificenze della Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro. Elementi, quelli sin qui richiamati, che, ove riconnessi con le succitate parole di Bolsonaro nei confronti di Queiroz e con le onorificenze assegnate al da Nóbrega da Flávio Bolsonaro, sembrano poter suggerire non semplici relazioni isolate, ma un più ampio e radicato contesto, di ambiente direi, nel quale tali relazioni si inscrivevano.
Sempre nel 2007, Flávio Bolsonaro nominò la ex moglie del Capitano Adriano come sua assistente politica presso il proprio gabinetto alla Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro. Danielle Mendonça da Costa fu nominata ufficialmente il 6 settembre 2007 e fino al 13 novembre 2018 lavorò nel gabinetto del figlio del Presidente. Stando ad un articolo pubblicato sulla rivista Veja il 21 giugno 2019 e ad un altro a firma di Fausto Macedo apparso sul giornale Estadão il 18 dicembre 2019, la ex moglie del da Nóbrega era a tutti gli effetti una funzionaria fantasma, non avendo ricevuto alcun badge per avere accesso al luogo di lavoro e più ancora per i dialoghi esistenti tra lei e Queiroz sul fatto di ricevere il proprio salario, malgrado il non essersi recata a lavorare negli uffici di Bolsonaro Jr.
La seconda prigione preventiva del Capitano Adriano risale al mese di settembre del 2008, quando fu accusato del tentato omicidio dell’allevatore di bestiame e malvivente legato al business del jogo do bicho Rogério Mesquita nell’ambito di una disputa per dividersi il patrimonio di Valdomiro Paes Garcia (o Maninho), ucciso il 28 settembre del 2004. L’allora poliziotto della tropa de elite della polizia militare di Rio de Janeiro uscì dal carcere un mese dopo, perché l’indagine sul suo conto non produsse alcuna prova con riferimento all’accusa di tentato omicidio. Vedi, alle volte, il caso… Ma andiamo avanti. Nel 2012, con l’inchiesta Operazione tempesta nel deserto condotta dal Gruppo speciale per la lotta al crimine organizzato (GAECO) e dal Ministero Pubblico di Rio de Janeiro, Adriano da Nóbrega è di nuovo investigato in quanto sospettato di essere a capo della sicurezza personale di Shanna Harrouche Garcia, la figlia di Maninho. Come apparso in un articolo sul sito Conexão Jornalismo, del 18 agosto 2013, dal titolo icastico (Poliziotti militari legati al jogo do bicho conducono una “vita da re” e ricevono il loro salario, pur senza lavorare), Adriano da Nóbrega, sebbene sotto indagine per il suo coinvolgimento nell’ennesimo caso di omicidio, stavolta legato al jogo do bicho, riceveva per intero il suo salario di poliziotto, comprensivo anche del tanto criticato, a ragione, auxílio moradia, un contributo mensile per il pagamento dell’affitto o del mutuo della casa. Anche all’epoca il tenore di vita del Capitano Adriano avrebbe potuto far intuire che, oltre a dirigere la sicurezza di taluni criminali di Rio de Janeiro, probabilmente vi era anche qualcosa di più, vale a dire gli assassini su commissione, ciò che successivamente vincolerà il nome del da Nóbrega all’assassinio di Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes.
Tra il mese di dicembre del 2013 e l’inizio del 2014 si conclude l’esperienza del Capitano Adriano nelle fila della Polizia Militare di Rio de Janeiro. Questi è espulso a causa del suo riconosciuto coinvolgimento con organizzazioni criminali legate ai giochi illegali. Nella fattispecie, sebbene mai avesse riportato condanne, la Polizia Militare carioca lo considerò colpevole di avere operato come guardia del corpo personale di José Luiz de Barros Lopes, conosciuto come Zé Personal, uomo forte della cosiddetta mafia dei caça-níqueis. Zé Personal era sposato con una delle figlie del bicheiro Maninho, la cui morte creò una serie di conseguenze che portarono alla seconda prigione preventiva di Adriano da Nóbrega. Nonostante la situazione lavorativa non proprio “limpida” del Capitano Adriano, Flávio Bolsonaro fece finta di non accorgersi di nulla, non solo mantenendo a lavorare nel suo gabinetto politico la moglie del da Nóbrega, ma, alla data del 2 marzo 2015, giusto per confermare le radicate amicizie di famiglia, pensò bene di nominare, di nuovo in veste di sua assistente, Raimunda Veras Magalhães, niente meno che la madre del famigerato Capitano Adriano.
Altra data significativa: 12 agosto 2011. Il magistrato Patrícia Lourival Acioli, da sempre in prima linea contro la corruzione all’interno dei corpi di polizia della capitale fluminense e nemica giurata delle milizie è giustiziata da due uomini a Niterói nello Stato di Rio de Janeiro. Si trattò di un omicidio che ebbe ripercussioni a livello internazionale, così stigmatizzato dalle parole dell’allora Presidente del Supremo Tribunale Federale, Cezar Peluso: “un attacco al governo brasiliano e alla democrazia”. Nonostante le ripercussioni e le dure parole di Peluso, Flávio Bolsonaro, una volta di più, nella veste di braccio politico del potere miliziano carioca, scrisse su Twitter: “che Dio abbia misericordia di questo magistrato, ma la forma assurda e gratuita con la quale lei umiliava i poliziotti contribuì perché avesse molti nemici”. Ovviamente, i poliziotti a cui Bolsonaro Jr. si riferisce, nella migliore delle ipotesi, erano poliziotti corrotti, nella peggiore, poliziotti-miliziani, che facevano il doppio gioco. Dal 2011 saltiamo al 2015, quando il magistrato Daniela Barbosa Assumpção de Souza si recò a visitare una prigione di Rio de Janeiro dove si trovavano reclusi poliziotti militari in attesa di giudizio. Avendo in precedenza denunciato i vari privilegi (dalle grigliate in carcere fino ad incontri intimi senza autorizzazione), di cui godevano i detenuti, il magistrato e la sua scorta furono aggrediti durante questa visita. Nonostante la gravità del fatto, Flávio Bolsonaro usò le seguenti parole con riferimento all’accaduto: “Sono poliziotti militari in attesa di giudizio. Molti torneranno a lavorare per le strade normalmente e ad essere trattati come banditi da una persona che rappresenta lo Stato, si sono sentiti indignati”. Ironia della sorte, la vergognosa difesa dei poliziotti-detenuti, che aggredirono il magistrato Daniela Barbosa Assumpção de Souza, avvenne all’interno della Commissione Diritti Umani della Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro.
6 dicembre 2018: il COAF, l’organo brasiliano che monitora le movimentazioni finanziarie collegate al riciclaggio di denaro, comincia ad investigare le movimentazioni atipiche sul conto di Fabrício Queiroz. Il sospetto era che fosse stato messo in pratica lo schema, già citato in precedenza, della cosiddetta rachadinha, vale a dire la destinazione illegale di parte dei salari dei funzionari al parlamentare di riferimento, in questo caso a Flávio Bolsonaro. A questa stessa data risalgono i dialoghi, pubblicati dal giornale O Globo, tra Queiroz e Danielle Mendonça da Costa da Nóbrega, all’epoca moglie del Capitano Adriano, nei quali il già ex-collaboratore politico di Bolsonaro Jr. comunicava alla da Nóbrega che era stata esonerata dall’incarico. Con riferimento a questi dialoghi i fatti, diciamo così, curiosi sono due: il primo è che Queiroz, dal 16 ottobre di quell’anno, non era più un collaboratore politico di Flávio Bolsonaro e il secondo è che, pur esonerando dall’incarico la moglie dell’epoca del Capitano Adriano, Queiroz le chiese comunque di non usare più il cognome da Nóbrega al fine di evitare ogni tipo di associazione tra il marito e il gabinetto politico di Flávio Bolsonaro. Successivamente, stando al Ministero Pubblico di Rio de Janeiro, Queiroz conversò con Adriano e Danielle riguardo l’allontanamento dal gabinetto politico come pure dello schema di rachadinha attivo all’interno di quello stesso gabinetto politico, il cui ultimo e unico beneficiario era, ovviamente, il deputato statale Flávio Bolsonaro. Preoccupato che lo schema potesse venire alla luce, Queiroz pretese dalla ex moglie del da Nóbrega le copie degli assegni da lei ricevuti e la dichiarazione dei redditi, arrivando persino a chiederle di non presentarsi a deporre presso il Ministero Pubblico una volta che lo schema di riciclaggio di denaro era stato scoperto.
Il legame tra il famigerato 16. Battaglione della Polizia Militare di Rio de Janeiro, altrimenti conosciuto come la “guarnizione del male”, e la famiglia Bolsonaro, non riguardò tuttavia solamente Flávio Bolsonaro, ma interessò anche l’altro figlio del presidente, Carlos. Stando ad un documentato reportage del giornale O Globo, infatti, questi, nel 2003, sette giorni giorni dopo Flávio avere omaggiato Adriano da Nóbrega, presentò eguale gratificazione presso l’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro (ALERJ) nei confronti del Capitano Adriano e di altri otto poliziotti militari già all’epoca accusati di crimini che andavano dall’omicidio alla corruzione. Tra questi poliziotti, come detto appartenenti al solito 16. Battaglione, vi era il sergente Sérgio Rogério Ferreira Nunes, il quale faceva parte, all’interno di questa stessa unità operativa, del GAT (Gruppo di Azioni Tattiche) posto sotto il comando del da Nóbrega. All’epoca, il GAT fu accusato di reati quali omicidio, tortura e estorsione, peraltro confermati anche dalle indagini interne fatte dalla stessa Polizia Militare della capitale fluminense. In altre parole, sebbene ancora facenti parte degli organici della PM, da Nóbrega e i suoi colleghi del 16. Battaglione, di cui, si ricorderà, faceva parte anche Fabrício Queiroz, operavano fuori dalla legge, a tutti gli effetti, come milizie paramilitari.
Gli omaggi pubblici agli otto poliziotti furono concessi da parte di Carlos Bolsonaro il giorno 11 novembre 2003, all’incirca due settimane prima che fosse decretata la custodia cautelare in carcere degli stessi poliziotti. Uno dei poliziotti arrestati all’epoca, Ítalo Pereira Campos, anche noto come Ítalo Ciba, attualmente deputato statale a Rio de Janeiro, ha dichiarato a O Globo che la detenzione a loro carico fu una persecuzione politica – malgrado gli investigatori confermarono, tramite il GPS, la presenza dell’auto della polizia sul luogo del delitto e malgrado, anche, i guardiani notturni di un’impresa vicina dissero di avere visto i poliziotti entrare nel locale dove poi il crimine si sarebbe consumato -, che è amico di lunga data della famiglia Bolsonaro e che non ricorda il motivo per il quale Carlos Bolsonaro concesse una gratificazione pubblica nei suoi confronti presso l’Assemblea Legislativa. Campos ritiene che venne omaggiato dal figlio del presidente per i “buoni servizi” (parole sue) resi alla città e che, tale gratificazione, interessò tutto il battaglione, che, probabilmente a causa di tali “buoni servizi”, era soprannominato la guarnição do mal.
Quanto emerge è, quindi, una volta di più, il legame intrattenuto dalla famiglia Bolsonaro, nella fattispecie da Flávio e Carlos, con poliziotti in seguito espulsi dal corpo della Polizia Militare di Rio de Janeiro e in taluni casi, come quello di Adriano, andati ad ingrossare le fila dei gruppi miliziani della capitale carioca. Cerniera tra questi ambienti e i Bolsonaro fu Fabrício Queiroz, attualmente irreperibile, il quale era uno dei componenti del 16. Battaglione della PM all’interno del quale, come si è visto operavano tanto Pereira Campos quanto il da Nóbrega. Alla luce di queste assidue frequentazioni, non penso sia esagerato sostenere la tesi che i Bolsonaro, tanto all’interno della Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro, per il tramite di Flávio e Carlos Bolsonaro, così come all’interno del Congresso, per il tramite dello stesso Jair Bolsonaro, costituissero, di fatto, il braccio politico dei più spietati e corrotti poliziotti militari di Rio de Janeiro come pure di talune milizie – formate principalmente da questi stessi poliziotti – dedite ad attività illegali e ad esecuzioni sommarie soprattutto nella zona ovest della capitale. Pertanto, non sorprende affatto sapere che Flávio Bolsonaro visitasse Adriano da Nóbrega in carcere e nemmeno che questi frequentasse, assiduamente e con disinvoltura, gli uffici politici, presso l’Assemblea Legislativa (ALERJ), dell’allora deputato statale. É sempre il loquace Ítalo Ciba, nel corso di una intervista al giornale O Globo, a riferire che, quando si trovava in prigione con Adriano, più volte, avevano ricevuto la visita di Flávio Bolsonaro. Ma c’è di più. Secondo Ciba, il Capitano Adriano, tramite l’amico ed ex collega, Fabrício Queiroz, frequentava anche il gabinetto politico di uno dei figli del presidente. Da parte sua, l’attuale senatore Bolsonaro, attraverso una nota della sua segreteria, ha risposto di essersi recato soltanto una volta, nel 2005, a fare visita ad Adriano in prigione per consegnargli la Medaglia Tiradentes – la più alta onorificenza della Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro – qui consegnata ad un tenente della polizia militare in carcere con gravissime accuse a suo carico. La nota della segreteria di Bolsonaro Jr. si concludeva, in maniera a dir poco comica, con le seguenti parole: “Non esiste nessuna relazione di Flávio Bolsonaro, né della famiglia Bolsonaro, con Adriano”. Nessuna, a parte Queiroz, a parte la ex moglie e la madre del da Nóbrega impiegate nel gabinetto di Bolsonaro Jr., oltre a tutte le altre situazioni menzionate nel corso del presente articolo. Nonostante le richieste inoltrate dal giornale agli organi competenti, tanto la Polizia Militare quanto l’Assemblea Legislativa (ALERJ), non hanno fornito i registri delle visite ricevute in carcere da Adriano e dagli altri sette poliziotti del GAT del 16. Battaglione. La PM ha dato parere negativo, sostenendo che si tratta di documenti secretati, mentre la ALERJ non ha fornito alcuna risposta.
Sul caso era, in compenso, intervenuto Bolsonaro Senior, il Presidente, assumendo su di sé la responsabilità dell’omaggio ad Adriano e sostenendo che all’epoca – quando già si trovava in carcere fortemente indiziato di crimini gravissimi, repetita iuvant – l’ex BOPE era un eroe, concludendo che il figlio premiò centinaia di poliziotti militari nel corso della sua carriera politica. Siamo in presenza della classica reductio ad bolsonarum della realtà, mediante la quale l’attuale presidente del Brasile e i suoi figli, coinvolti fino al collo in questo miliziagate, tentano di semplificare fino all’osso una realtà, che, pur complessa, li inchioda alle loro responsabilità. Pertanto, sarà anche vero ciò che Bolsonaro sostiene riguardo a Flávio, ma – si presti attenzione alla singolare coincidenza – i figli omaggiarono ogni volta i peggiori poliziotti della Polizia Militare di Rio de Janeiro, quelli, appunto, del 16. Battaglione, tristemente noto come ‘guarnizione del male’, la maggior parte dei quali è stata espulsa dalla PM, in taluni casi dopo avere riportato condanne o essendo stati giudicati colpevoli dalle indagini interne svolte dalla stessa Polizia Militare, o, peggio ancora – come è il caso, tra gli altri, del defunto Adriano da Nóbrega e del suo ex collega Ronald Paulo Alves Pereira – accusati di avere fatto parte della milizia nota come Escritório do Crime, gruppo di sterminio ritenuto coinvolto, secondo le indagini ancora in corso, nel duplice barbaro omicidio della deputata federale Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes. Il presidente Bolsonaro compie un’azione subdolamente astuta, quindi, quando afferma che il figlio premiò pubblicamente centinaia di poliziotti militari. Il punto non è gratificare l’operato di onesti difensori dell’ordine pubblico, per esprimerci con un lessico che a questa anti-liberale destra brasiliana piacerebbe, ma quello di avere, più di una volta, omaggiato e premiato ufficialmente personalità coinvolte nei peggiori crimini accaduti nella capitale fluminense negli ultimi quindici anni, oltre ad avere tenuto a libro paga persone che hanno fatto da tramite con queste personalità (v. Queiroz) e familiari delle stesse (v. ex moglie e madre del da Nóbrega).
Tornando alle parole di Ciba, questi dichiarò al O Globo che, pur non sapendo quando Adriano conobbe Flávio Bolsonaro, ciononostante ritiene che il ponte tra i due sia stato Fabrício Queiroz, amico dal 1985 di Bolsonaro padre, in seguito collega del Capitano Adriano nel 16. Battaglione della PM, nonché collaboratore politico di Bolsonaro figlio. Sempre più loquace, Ciba, nel corso di questa intervista, definisce l’uccisione dell’ex collega come un atto di codardia e anch’egli crede che Adriano sia stato vittima di una queima de arquivo. A questo punto, aggiunge un dettaglio di non poco conto, su cui occorre soffermarsi. Ciba sostiene di avere incontrato il da Nóbrega in un centro commerciale prima delle elezioni del 2018 e che questi gli disse: “Ci stanno dando la caccia perché siamo amici del presidente”. Malgrado all’epoca Jair Bolsonaro fosse soltanto candidato alla presidenza, ciò che più colpisce nelle parole dell’ex capitano della Polizia Militare è quel sostantivo, “amici”, usato con riferimento a Bolsonaro. Non si tratta di una parola leggera, bensì di una parola strutturante una relazione tra due persone, un qualcosa in virtù del quale si è portati a pensare ad un vincolo antico, ad una frequentazione abituale e finanche ad una cointeressenza esistente tra esponenti di prima fila della politica e i più putridi bassifondi della criminalità organizzata brasiliana.
“Seguire i piccioli”, la lezione di Giovanni Falcone applicata al Miliziagate
Secondo quanto riportato in un articolo a firma di Sabóia, Ribeiro e Militão, pubblicato sul sito del portale di informazioni UOL in data 19 dicembre 2019, l’ex-tuttofare presso la Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro (ALERJ) del deputato Flávio Bolsonaro sarebbe arrivato ad usare imprese controllate da Adriano da Nóbrega al fine di lavare il denaro proveniente dalla rachadinha. Una ricostruzione, la quale si appoggia su affermazioni fatte dagli stessi procuratori del Ministero Pubblico di Rio de Janeiro, i quali, però, ad oggi, non hanno emesso alcun mandato di arresto nei confronti di Fabrício Queiroz, sebbene lo abbiano convocato per ben due volte, al fine di chiarire la sua posizione tanto in relazione al Capitano Adriano, alla ex-moglie e alla madre di quest’ultimo, come pure con riferimento alle sue mansioni all’interno del gabinetto politico di Flávio Bolsonaro.
Come riportato da un articolo di Thiago Bronzatto, apparso sulla rivista Veja l’8 febbraio di un anno fa (Quante coincidenze), all’epoca Fabrício Queiroz si disse disponibile a fare una deposizione scritta, mentre, nel mese di dicembre anteriore, durante una surreale intervista alla emittente televisiva SBT, dichiarò che la movimentazione bancaria – 7 milioni di reais tra il 2014 e il 2017 – era il frutto dei suoi affari legati alla compravendita di macchine. Macchine, che, evidentemente, vendeva anche alla moglie e alla figlia, le quali depositarono sul suo conto nientemeno che 102.974,00 reais, oltre che a prezzi stracciati, visto che i depositi, in alcuni casi, riguardavano piccole somme di denaro. La tesi degli inquirenti – che, invero, ad oggi non si sa bene dove sia finita – è che Queiroz svolgesse la funzione di un vero e proprio operatore finanziario, alle dipendenze del figlio del Presidente. Parte dei salari dei vari funzionari erano, perciò, raccolti da Queiroz e investiti in altre attività. Giova ricordare che su vari funzionari, tra questi la ex moglie e la madre del da Nóbrega, pesa l’ombra di essere dei funzionari fantasma, la qual cosa, ove comprovata, confermerebbe lo schema del riciclaggio summenzionato. I salari delle due donne, Danielle Mendonça da Costa e Raimunda Veras Magalhães, ammontavano a 1.029.042,48 reais, di cui almeno 203.002,57 reais furono versati sul conto di Queiroz. Separatamente, inoltre, le due donne operarono prelievi bancari per un totale di 202.184,64 reais, i quali, secondo il Ministero Pubblico carioca, rappresenterebbero la parte di denaro consegnata a mano dalle due donne all’ex collaboratore di Flávio Bolsonaro.
Ma c’è di più. Il Ministero Pubblico ritiene che una parte del denaro restituito dalla ex moglie del Capitano Adriano a Queiroz passò per conti bancari riconducibili alla milizia Escritório do Crime, comandata dallo stesso da Nóbrega. Secondo quanto riporta l’articolo, che cita il Ministero Pubblico di Rio de Janeiro: “Parte del denaro corrispondente alle remunerazioni di Danielle Mendonça da Costa sarebbe stata ripassata a Queiroz per il tramite di conti bancari appartenenti ad altre persone fisiche e giuridiche e controllati da Adriano Magalhães da Nóbrega”. Le imprese riconducibili al miliziano da Nóbrega sono due ristoranti situati nella zona nord di Rio de Janeiro: il Restaurante e Pizzaria Tayara Ltda, che versò sul conto di Queiroz 45.330,00 reais, e il Restaurante e Pizarria Rio Cap Ltda, che trasferì 26.920,00 reais. Malgrado il Capitano Adriano non risultasse essere tra i proprietari delle due imprese, il Ministero Pubblico di Rio de Janeiro sospetta che egli fosse socio occulto, tesi avvalorata dalla presenza, come proprietaria delle due attività, di Raimunda Veras Magalhães, madre, appunto, di Adriano. I due ristoranti, inoltre, si trovano davanti all’agenzia numero 5663 del Banco Itaú, dove, stando al primo comunicato del COAF (Consiglio di Controllo sulle Attività finanziarie), furono fatti 17 depositi non identificati e in contanti a favore di Fabrício Queiroz. Tali depositi ammontano a 91.796,00 reais e rappresentano il 42% di tutto il valore versato in denaro liquido a Queiroz nelle transazioni poste sotto la lente del COAF. La cifra riportata si riferisce al periodo di tempo compreso tra il gennaio 2016 e lo stesso mese del 2017. Un altro pesante indizio della stretta relazione esistente tra il tuttofare di Flávio Bolsonaro e il miliziano recentemente scomparso è il fatto che la madre di quest’ultimo depositò 43.430,00 reais a favore di Quiroz addirittura prima di essere assunta nel gabinetto di Bolsonaro Jr.
Sempre dall’articolo di Bronzatto si apprende che la maggior parte dei funzionari dell’allora deputato statale Flávio Bolsonaro, tra cui la madre di Adriano da Nóbrega, sono spariti dalla circolazione da quando il caso della rachadinha è esploso e l’unico che è stato rintracciato non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. Diciamo che un comportamento del genere da persone che presso Queiroz hanno acquistato una macchina è quantomeno inaspettato, per non dire sospetto. Altrettanto sospette sono le proprietà che risultano essere a nome della madre del Capitano Adriano, tra cui il ristorante Bairrada Adega Gourmet, situato nella zona centrale di Rio de Janeiro, oltre alle altre due attività menzionate poco sopra. L’altro proprietario di questo ristorante, ovviamente, non ha la più pallida idea di dove si trovi la sua socia, Raimunda Veras Magalhães. “Casualmente”, tutti gli ex-funzionari di Flávio Bolsonaro presso l’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro, che ripassavano denaro a Queiroz, da mesi e mesi si trovano – tutti – “magicamente” in ferie.
La figura di Raimunda Veras Magalhães è particolarmente centrale all’interno di questa torbida vicenda. Come riportato in un recente articolo a firma di Cássio Bruno e Jana Sampaio, sempre sulla rivista Veja (Madre di Adriano da Nóbrega comprò un ristorante dopo essere stata licenziata dalla ALERJ), nel dicembre del 2018, a distanza di poco più di un mese dal suo licenziamento dal gabinetto politico di Flávio Bolsonaro, la madre del Capitano Adriano, comprò il ristorante Boteco e Brasa, situato nella zona nord di Rio de Janeiro. Il ristorante fu aperto con un capitale sociale di 50.000,00 reais, ma, a detta del socio della donna, oggi vale almeno 200.000,00 reais. Il secondo ristorante è il già citato Bairrada Adega Gourmet, il cui valore si attesta intorno ai 180.000,00 reais. In altre parole, Raimunda Veras Magalhães, la cui permanenza presso il gabinetto politico di Bolsonaro Jr. durò 3 anni e mezzo e il cui salario ammontava a 5.124,00 reais – al netto dei versamenti fatti a Queiroz, ricordiamolo – avrebbe amministrato tanto bene le sue finanze da potersi permettere, non si sa come, un investimento di quasi 400.000,00 reais. Altrettanto singolare è il fatto che anche l’attuale moglie di Adriano da Nóbrega, Julia, secondo quanto riportato dall’articolo della Veja, risultasse avere un incarico alla ALERJ tra il 2016 e il 2017. Era, infatti, assistente presso la Sottosegreteria Generale delle Risorse Umane della stessa assemblea, percependo un salario di 3.446,00 reais. Circostanza particolarmente preoccupante, perché vincola, una volta di più, il nome del capo di una delle più feroci milizie di Rio de Janeiro, lo Escritório do Crime, al luogo deputato ad esercitare il mandato popolare nella capitale carioca, la Assemblea Legislativa, appunto.
Le “amnesie” di Sérgio Moro
3 maggio 2019: è il giorno della pubblicazione di un articolo a firma di Italo Nogueira sulla Folha de São Paulo dal titolo emblematico: Il Disco-Denuncia non ha schedato il miliziano amico di Queiroz. Il pezzo di Nogueira rivelava un nuovo aspetto inquietante della vicenda legata al nome di Adriano da Nóbrega, vale a dire che, a questa data, il miliziano carioca non faceva parte del programma ‘Ricercati’ del Disco-Denuncia, appunto, né era fornita alcuna ricompensa con riferimento alla possibile meta della sua fuga. A questa “amnesia” si aggiungeva un ulteriore errore concernente il cognome del Capitano Adriano, il quale, nel Banco Nazionale dei mandati di prigione era stato scritto in maniera errata: Adriano Magalhães da Nbrega, senza la ‘o’. Cui si aggiungeva l’assenza del corrispettivo brasiliano del nostro codice fiscale, il CPF del da Nóbrega. Una serie di elementi, i quali avrebbero reso più complicato il riconoscimento del miliziano, qualora questi fosse stato, per esempio, coinvolto in un incidente automobilistico, a causa del fatto che dal Banco Nazionale dei mandati di prigione non sarebbe potuto saltare fuori il suo nome.
Sollecitato su questa serie tragicomica di “coincidenze”, il Ministero Pubblico di Rio de Janeiro, attraverso una nota, disse di avere inviato alla Sovrintendenza della Polizia Federale anche il nome di Adriano da Nóbrega e di altri sei latitanti, “affinché fossero inseriti nel sistema che raggruppa i soggetti ricercati della Polizia Federale”. La nota continuava, chiarendo come “a questo riguardo, il Gaeco/MPRJ (Gruppo Speciale di lotta al crimine organizzato) sollecita anche la diffusione dei nomi dei ricercati per il sistema della Interpol. Oltre a questo, era stata realizzata una ampia divulgazione sui mass-media con riferimento al fatto che il Capitano Adriano era latitante. La Polizia Civile e tutti gli altri organi pubblici, pertanto, sono a conoscenza di questo fatto”. Sullo sfondo di questa serie grottesca di errori sembrerebbe esserci qualcosa di ancora più inquietante. Il Ministero Pubblico di Rio de Janeiro e più in particolare il Gaeco sembrerebbero essere del tutto credibili, mentre differente appare la posizione della Polizia Federale nella torbida vicenda. Differente, perché, in ultima istanza, la Polizia Federale brasiliana risponde al Ministero di Giustizia e di Pubblica Sicurezza e quindi all’ex giudice della Lava Jato Sérgio Moro.
Uno stato di cose, che conduce a porre alcune questioni non proprio peregrine: a quale altezza della catena di comando, che lega la Polizia Federale al Ministero della Giustizia, si è “persa” l’informazione proveniente dal Ministero Pubblico di Rio de Janeiro in base alla quale Adriano da Nóbrega era tra i soggetti da inserire nella lista di ricercati del succitato Disco-Denuncia? Lo stesso Ministro Moro era stato informato della nota proveniente dal Ministero Pubblico carioca? In caso di risposta affermativa, perché Moro non ha inserito il miliziano latitante nella lista? Lo ha forse fatto per paura che, una volta catturato, potesse rivelare particolari, ad oggi sconosciuti, riguardanti la sua amicizia con Fabrício Queiroz, con Flávio Bolsonaro e più ancora con la famiglia Bolsonaro? Domande, temo, destinate a rimanere senza risposta, salvo colpi di scena riservati dall’analisi dei cellulari, tredici, ritrovati addosso al Capitano Adriano, al momento della sua uccisione. Giova, infine, ricordare come, a seguito delle reazioni suscitate dalla pubblicazione di articoli che stigmatizzavano l’“amnesia” riguardo all’assenza di Adriano dalla lista dei ricercati, il suo nome venne incluso, sebbene con una ricompensa di appena 1.000,00 reais, ciò che non depone certo a favore della tesi della involontarietà della suddetta “amnesia”.
Le “amnesie” del Ministero retto da Sérgio Moro, tuttavia, non si esauriscono solo con la vicenda legata al Disco-Denuncia, ma, al contrario, si arricchiscono di un nuovo elemento il 30 gennaio di questo anno, quando lo stesso Ministro della Giustizia lanciò una piattaforma al fine di rafforzare la lotta al crimine organizzato. Si trattava di una lista di nomi, immagini e dati dei malviventi più ricercati del Brasile, la quale è consultabile sul sito dello stesso Ministero (www.novo.justica.gov.br/procurados/capa_interna). In questa occasione, Moro aveva dichiarato: “Sono individui estremamente pericolosi, tutti con un mandato di prigione decorrente da sentenze o da ordini di custodia cautelare”. La nuova banca dati messa a disposizione dal Ministero era stata elaborata a partire dalle informazioni fornite dai vari Stati brasiliani e con i dati pubblici presenti nella Banca Nazionale dei mandati di prigione del Consiglio Nazionale di Giustizia (CNJ). Tale lista intendeva focalizzarsi su criminali condannati per crimini commessi all’interno di più Stati brasiliani. Adesso, si riavvolga il nastro all’indietro un istante: in quale banca dati nazionale, facente riferimento al Ministero di Giustizia e Pubblica Sicurezza, il nome del Capitano Adriano era stato scritto in maniera errata? Ovviamente, nella Banca Nazionale dei mandati di prigione da dove erano stati estrapolati i dati su cui la nuova lista presentata da Moro era stata elaborata. Inutile dire che, vuoi per il nome scritto in modo sbagliato, vuoi per i criteri interstatuali scelti da Moro, il nome di Adriano da Nóbrega non compariva nella famosa lista pubblicata sul sito del Ministero. In maniera più circostanziata, il Ministero, aveva dichiarato che, per redarre la presente lista, non erano stati presi in considerazione soggetti, i quali avessero commesso crimini a livello locale e crimini, che non possedessero un qualche vincolo con organizzazioni criminose.
Pertanto, Sérgio Moro non aveva incluso il miliziano da Nóbrega all’interno della lista dei più ricercati, perché, nonostante fosse incessantemente ricercato da un anno, non risultava essere in possesso di un profilo criminale interstatuale, sebbene i suoi crimini possedessero – in base all’articolo 288A del Codice di Procedura Penale brasiliano – un vincolo con organizzazioni riconosciute come criminali, quali le milizie. In altre parole, Moro, nel redarre la presente lista, non aveva ritenuto che la milizia capitanata da Adriano, lo Escritório do Crime – al centro dell’inchiesta per il duplice omicidio della deputata statale Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes – costituisse una organizzazione criminale. Considerazione che suona in modo tanto più strano, essendo stato inserito, all’interno della famosa lista, il nome di Danilo Dias Lima, conosciuto col soprannome di “Tandera”, sospettato di far parte di una milizia che controlla la zona di Seropédica a Rio de Janeiro. Peraltro, in accordo con quanto si legge nella piattaforma del Ministero, Tandera, non solo non risulterebbe avere un profilo interstatuale, esattamente come Adriano, ma il suo peso criminale sembrerebbe essere molto inferiore a quello dell’ex poliziotto militare amico di Fabrício Queiroz. Mentre Dias Lima è sospettato di lavaggio di denaro per conto della milizia di cui fa parte, il da Nóbrega era a capo di una delle più potenti milizie di Rio de Janeiro, ciò che, inevitabilmente, lega il suo nome a decine e decine di omicidi compiuti nella capitale carioca nel corso di quasi venti anni. Dettagli non da poco, i quali, tuttavia, possono essere inseriti in un contesto di comprensibilità alla luce di ciò che avverrà il 9 febbraio di questo anno.
La morte del Capitano Adriano: una storia mal raccontata
9 febbraio 2020: è il giorno della morte di Adriano Magalhães da Nóbrega in seguito ad un blitz eseguito dalle forze di polizia del BOPE (Squadra per le Operazioni di Polizia speciali) dello Stato di Bahia, dal CIPE (Compagnia Indipendente di Polizia Specializzata) del Litorale Nord, dalla Sovrintendenza di Intelligence della Segreteria di Pubblica Sicurezza di Rio de Janeiro e da agenti della Policia Civile della stessa capitale fluminense. Fin dalle primissime ore seguenti questo blitz cominciano ad addensarsi interrogativi di ogni tipo sulla morte dell’ex-capitano della Polizia Militare. Domande inquietanti e perplessità di ogni tipo. Tra i primi ad intervenire, l’avvocato di Adriano, Paulo Emílio Catta Preta, dichiarò, senza troppi giri di parole, che quella del suo cliente “fu una morte tanto conveniente quanto spiegata male”. Stando al racconto dell’avvocato, il da Nóbrega lo avrebbe chiamato il mercoledì anteriore alla sua morte, confessandogli che aveva il fondato sospetto che la polizia non volesse arrestarlo, bensì ucciderlo. Le parole di Adriano, riportate da Catta Preta, furono: “Se io entro in prigione, sarò ammazzato in un periodo assai breve e sono assolutamente convinto che tutta questa operazione non è finalizzata alla mia cattura, ma alla mia eliminazione fisica”. Timore, che, a quanto pare, Adriano aveva confessato anche alla moglie, Julia. All’interno della stessa intervista, l’avvocato dichiarava anche di avere ricevuto la telefonata della moglie del Capitano Adriano, la quale gli aveva confermato che il blitz della polizia avesse come precipuo obiettivo la morte del marito, a detta della donna, disarmato. In altri termini, Adriano da Nóbrega stava fuggendo, ciononostante, senza alcuna capacità di resistenza. Si tratta di una ipotesi, purtroppo, non verificabile in maniera incontrovertibile, ma, parimenti, che non si può escludere, considerando la preparazione militare dell’ex poliziotto e dunque il fatto che fosse ben consapevole del dispiegamento di forze impiegate per prenderlo e che una eventuale sua resistenza armata avrebbe significato morte sicura. Un altro elemento che la dice lunga sulla totale diffidenza nutrita da Adriano nei confronti di Rio de Janeiro è il fatto di avere contrattato non un avvocato della capitale carioca, bensì di Brasilia. Elemento, questo, da riconnettere alla sua latitanza condotta per la maggior parte del tempo lontano da Rio de Janeiro, dove, evidentemente, non si sentiva al sicuro.
Un’altra tessera che non sembra incastrarsi nel puzzle relativo alla morte di Adriano da Nóbrega riguarda l’ultimo nascondiglio del miliziano, vale a dire una delle proprietà di Gilsinho de Dedé, politico locale, il quale nel 2016 si era presentato alle elezioni municipali sotto le insegne del Partido Social Liberal, il futuro partito di Jair Bolsonaro, il quale, tuttavia, all’epoca militava in un altro partito, il Partido Social-Cristão. Nel corso di una intervista rilasciata al G1, Gilsinho si disse sorpreso di sapere che il Capitano Adriano era nascosto proprio nella sua proprietà, aggiungendo di non averlo mai conosciuto e che pertanto la sua presenza in quel luogo poteva solo spiegarsi con una invasione, anche in considerazione del fatto che lui, Gilsinho, si trovava in viaggio e che nessun custode si occupa di quella proprietà quando lui è lontano. Da ultimo, ma non per ultimo, il politico metteva in evidenza il fatto che mai era stato affine alla posizione politica di Bolsonaro, ma come, tutto al contrario, nell’ultima campagna politica avesse sostenuto Rui Costa dos Santos (attuale governatore dello Stato di Bahia e all’epoca candidato tra le fila del Partido dos Trabalhadores) e Haddad nella campagna presidenziale, aggiungendo anche che intendeva passare dal Partido Social Liberal al Partido Socialista Brasileiro. Sin qui la versione di Gelsinho.
Parimenti, il 21 di febbraio, sul sito online della Veja è apparso un articolo, che, sia pure in maniera tenue, tende a mettere in dubbio la ricostruzione fatta dal politico baiano. Nell’articolo dal titolo Adriano raccontò ai familiari delle minacce di una organizzazione criminale infiltrata nel governo di Rio de Janeiro, a firma di Daniel Pereira e Hugo Marques, si fa riferimento a due personaggi cruciali nella fuga di Adriano da Nóbrega: il fazendeiro Leandro Abreu Guimarães e José Alves de Macedo Neto, conosciuto col soprannome di Zezinho. Il primo era un amico di Adriano almeno dal 2017, riferisce l’articolo, e fu colui che dette ospitalità all’ex poliziotto del BOPE, alla moglie e alla figlia, anche quando il miliziano già era latitante, nella sua fazenda situata nel municipio di Esplanada (Stato di Bahia). Fu Leandro ad accompagnarlo nella proprietà di Gelsinho, dove successivamente Adriano troverà la morte. Nella sua deposizione alla polizia, Leandro ha dichiarato che l’amico lo aveva minacciato di morte, qualora questi non lo avesse accompagnato sino alla fazenda del politico baiano.
I parenti di Adriano, tuttavia, raccontano un’altra storia, ma, prima di arrivare alla loro versione, occorre fare una considerazione, peraltro, elementare. Nelle parole di Gelsinho de Dedé, riportate poco sopra, traspariva una certa casualità in relazione alla presenza del da Nóbrega nella sua proprietà. Tutto al contrario, in quelle di Leandro Abreu Guimarães tale casualità dell’azione sembrerebbe del tutto venire meno, tanto da potersi concludere che la fazenda di Gelsinho non fu una destinazione casuale del Capitano Adriano, bensì una destinazione scelta in quanto conosciuta. Ciò che conduce all’inevitabile domanda: sapeva, il da Nóbrega, che quel luogo poteva diventare la sua tomba? Probabilmente sì. Cui segue un’altra domanda, altrettanto inevitabile: sapendolo, non è verosimile che possa avere scelto quel luogo al fine di mandare un messaggio a coloro che avrebbero indagato le sue molte connessioni con la politica, evidentemente non solo con quella di Rio de Janeiro? Non dimentichiamo che Adriano, oltre che sospettato di essere coinvolto in diversi omicidi, riciclava ingenti somme di denaro, ciò che potrebbe averlo messo in contatto con molti ambienti, dentro e fuori la capitale fluminense. In altre parole, niente vieta di pensare che l’ex tenente del BOPE abbia reinvestito in quella specifica zona dello Stato di Bahia forti quantità di denaro, magari in terre e in animali, e che facendo questi investimenti sia venuto a contatto con politici, anche di alto profilo, dello stesso Stato. Ciò che, peraltro, non necessariamente configura il coinvolgimento di questi politici nelle attività di riciclaggio di Adriano o anche solo in una qualche attività di copertura delle medesime. Tutto al contrario, può essere plausibile pensare che, pur essendo entrati in contatto col da Nóbrega, tali politici non fossero a conoscenza di chi egli realmente fosse, né a quale submondo criminale appartenesse. Sia come sia, con riferimento alle parole dell’amico Leandro i parenti del da Nóbrega alla Veja hanno raccontato una storia del tutto diversa: “Lui (Leandro) fu torturato all’interno della propria casa. Per questo raccontò dove aveva accompagnato Adriano”. L’altro personaggio da citare in questa storia è José Alves de Macedo Neto, meglio conosciuto come Zezinho. Quando vi fu il primo blitz della polizia, nel mese di gennaio di quest’anno, Leandro indicò Zezinho per accompagnare la moglie e la figlia di Adriano fino a Rio de Janeiro. Durante il tragitto furono fermati dalla Polizia Stradale, che chiese a Zezinho chi lo avesse indicato per accompagnare Julia Lotufo, moglie del da Nóbrega. Zezinho fece il nome di Leandro, in tal modo, fornendo alla polizia la pista giusta che li avrebbe condotti al nascondiglio del Capitano Adriano. A partire dal momento del blitz, Zezinho è scomparso dalla circolazione.
Qui, tuttavia, viene la parte più interessante del nostro racconto. Zezinho arrotondava lo stipendio grazie ai lavoretti che li passava il suo amico Leandro, ma ufficialmente era un funzionario alle dipendenze di Gilsinho de Dedé, il politico del PSL proprietario della fazenda dove Adriano da Nóbrega fu ucciso dalla polizia. Gilsinho, come si ricorderà, aveva sempre detto di non conoscere Adriano, ma dalla ricostruzione della Veja emerge che l’ex tenente della polizia militare conosceva il politico e pure i suoi funzionari più stretti, come Zezinho, appunto. Elementi, questi, che rendono ancora più verosimile il fatto che il da Nóbrega non sia finito casualmente nella proprietà di Gilsinho; tesi, questa, avvalorata anche dal presente articolo citato della Veja, dove si legge: “Gilsinho riferisce che non conosceva l’ex-capitano del Bope, nonostante Adriano avesse pernottato più volte nella sua casa, anche in compagnia della moglie Julia”.
Tuttavia, le stranezze connesse alla morte di Adriano da Nóbrega non finiscono qui. È il 10 febbraio, quando la rubrica Painel della Folha de São Paulo pubblica un articolo dal titolo: “Operazione che uccise il miliziano tentò di coinvolgere la polizia federale ed era conosciuta da una delle segretarie di Moro al Ministero di Giustizia”. Secondo quanto riportato dal giornale paulista, la Polizia Civile di Rio de Janeiro, alcuni giorni prima del blitz, sarebbe entrata in contatto col Ministero guidato da Sérgio Moro al fine di sondare la possibilità di ottenere un elicottero di appoggio e alcuni uomini da impiegare nel blitz. In generale, continua Painel, operazioni come questa sono trattate attraverso canali di intelligence senza fornire informazioni riguardo l’obiettivo delle suddette operazioni. La Polizia Federale sollecitò i colleghi della capitale carioca, affinché formalizzassero la loro richiesta, ciò che non avvenne. A partire da qui, comincia il mistero su chi abbia chiesto cosa mediante un reciproco scarica-barile, invero, tipico dei centri di potere brasiliani. Il Ministero di Giustizia – nella cui famosa lista di Moro, pubblicata poco più di una settimana prima del blitz, si ricorderà, non compariva il nome di Adriano – sollecitato a proposito, ha risposto non solo che non aveva nulla a che fare con l’operazione baiana, ma che “non vi sarebbe alcun motivo per mettere a disposizione elicotteri e poliziotti per la cattura di un solo latitante, il cui nascondiglio era stato già identificato”. Dichiarazioni cui hanno fatto seguito quelle della Segreteria della Polizia Civile di Rio de Janeiro, la quale ha precisato come “la parte operativa del blitz fu realizzata dalla Polizia Civile di Bahia”.
21 febbraio 2020: Dopo il primo, fallito, blitz da parte della polizia ai danni del Capitano Adriano, il giorno 1. febbraio, la moglie dell’ex-BOPE di Rio de Janeiro era stata la prima a parlare della possibile morte del marito a seguito di una nuova operazione nei suoi confronti. Una queima de arquivo, si chiama in portoghese, per intendere che il precipuo obiettivo delle forze di polizia baiane e fluminensi non era la cattura del da Nóbrega, bensì la sua eliminazione fisica. Nell’occasione, Júlia Mello Lotufo non mancò di fare nome e cognome di colui che, a suo dire, avrebbe, alla prima occasione utile, eliminato il marito: Wilson Witzel, attuale governatore dello Stato di Rio de Janeiro. Ecco, dunque, che alla nostra drammatica e balorda cronistoria, fatta di spericolate prossimità tra la politica e le milizie, si aggiunge un nuovo, ingombrante, nome. Júlia, in seguito agli eventi accaduti il 9 febbraio, ha scelto di nascondersi, perché, come confidato ad alcuni amici, teme rappresaglie nei suoi confronti da parte di una organizzazione criminale infiltrata all’interno della amministrazione politica di Rio de Janeiro, secondo le informazioni contenute nell’articolo della rivista Veja: Adriano riferì ai familiari delle minacce di una fazione infiltrata nel governo di Rio. Una confessione, la quale sembra potersi leggere in sintomatica continuità con le accuse rivolte al governatore Witzel riguardanti l’intenzione di uccidere, non arrestare, il marito della donna. Sempre secondo quanto pubblicato dalla Veja, emerge che Adriano, già latitante, avrebbe riferito alla moglie di avere finanziato con 2 milioni di reais, in contanti, la campagna di Witzel a governatore di Rio de Janeiro. Ma non solo. Nell’occasione, Adriano, le rivelò anche chi gli chiese un simile ingente finanziamento e chi ritirò le borse piene di denaro – soldi, che, nelle intenzioni del miliziano, avrebbero dovuto fungere da “investimento imprenditoriale”, al fine di poter egli svolgere le sue attività illecite senza essere “disturbato” dalle autorità, in particolar modo dalla polizia. La tangente avrebbe, pertanto, instaurato una sorta di pax mafiosa, che gli avrebbe permesso di continuare a far crescere i propri traffici. Tuttavia, già a partire dal gennaio 2019, primo mese del mandato di Witzel, il Ministero Pubblico di Rio de Janeiro – suppostamente con l’avallo dello stesso governatore – accusò Adriano di essere il leader della milizia che controllava la zona ovest della capitale carioca, lo Escritório do Crime, ottenendo l’ennesimo ordine di carcerazione preventiva nei suoi confronti. Sin qui, però, Adriano non credeva al “tradimento” di Witzel; ciò che passò ad essere anche a lui evidente, allorché il governatore intese mantenerlo all’interno della lista di sospetti coinvolti nell’assassinio della deputata statale Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes. Come riferito alla Veja, pare che le parole dell’ex-BOPE furono: “Vogliono addossarmi questa morte. Avvisatelo che fui io ad aiutarlo. Lui sta lasciando che il Ministero Pubblico mi trasformi in un mostro e non fa nulla?”.
In altre parole, Adriano da Nóbrega, stando al racconto riportato dalla Veja, avrebbe fatto presente a qualcuno assai prossimo all’attuale governatore di Rio de Janeiro che, a suo tempo, proprio lui, attorno al quale al presente si stava facendo terra bruciata, era stata la persona che aveva contribuito all’elezione di Witzel. Da parte sua, il politico ed ex giudice (non dimentichiamolo, specie per i suoi addentellati col Ministero Pubblico) carioca ha dichiarato non solo di non conoscere il da Nóbrega, né di avere ricevuto da lui alcun tipo di aiuto, ma anche che processerà la moglie di quest’ultimo per calunnia, diffamazione e ingiuria. Stando alle dichiarazioni di una fonte molto vicina all’ex tenente della Polizia Militare, sembrerebbe che questi, quando già latitante, avrebbe detto che “percepì come il governatore (Witzel) vorrebbe, attraverso di lui (Adriano), marchiare come criminale lo stesso Bolsonaro”. Dichiarazione, che si riferisce allo scontro venutosi a creare tra Witzel e Bolsonaro, alleati sino alle ultime elezioni presidenziali, allorché entrambi hanno dichiarato di voler concorrere alla prossima campagna presidenziale nel 2022. Sia come sia, ad oggi, le parole del Capitano Adriano sono soltanto de relato. Ciò significa che, in assenza di elementi probanti a supportarle, cadranno presto nel girone infernale delle verità a mezzo social network, invelenendo, ancora di più, il già avvelenato dibattito politico brasiliano. Un capitolo a parte, infine, meriterebbe la vicenda relativa allo scontro tra Witzel e Bolsonaro, ciò di cui, forse, ci occuperemo in un prossimo articolo.
Quello che al presente si può dire è che ogni personaggio politico coinvolto nella vicenda legata al nome di Adriano da Nóbrega e alla sua strana morte aveva – con sfumature diverse, probabilmente – tutto l’interesse, affinché il leader della milizia Escritório do Crime non venisse catturato vivo. Parimenti, un ulteriore elemento interessante all’interno di questa vicenda è cercare di capire il motivo del timore del Capitano Adriano di essere ucciso nel blitz o una volta in prigione. Un elemento, il quale, indirettamente, funziona da conferma del ruolo apicale ricoperto dall’ex BOPE all’interno del submondo criminale carioca, ma che, al tempo stesso, potrebbe nascondere qualcosa di più, anche in considerazione del fatto che difficilmente il da Nóbrega avrebbe “cantato” in carcere. Sic stantibus rebus, credo che la tesi più accreditata possa essere quella della succitata queima de arquivo, ma non nel senso che, ad un certo punto, l’arquivo avrebbe parlato, ma, più verosimilmente, perché, se recluso, Adriano sarebbe stato certamente indagato, non solo con riferimento ai suoi crimini di sangue, ma anche in relazione alle sue operazioni di carattere finanziario. “Segui i piccioli”, dunque. Seguendo le movimentazioni finanziarie del da Nóbrega – ciò che gli investigatori, a quanto pare, starebbero già facendo – ritengo che si potranno ottenere maggiori risposte in merito al tipo di frequentazioni politiche intrattenute da Adriano e più in generale al reticolo di affari e interessi, che, in maniera preponderante dall’inizio degli anni 2000, lega la politica della capitale fluminense alle milizie paramilitari e ai loro illeciti affari.
La tesi della queima de arquivo è sorta a partire dalle prime dichiarazioni della moglie del da Nóbrega, in seguito al fallito blitz del 1. febbraio, e successivamente dalla telefonata dello stesso Adriano al proprio avvocato. Negli articoli apparsi dopo l’operazione di polizia del 9 febbraio, si ripete che l’ex poliziotto non avrebbe lasciato alcuna traccia per riuscire a comprendere la complessa trama di svolgimenti che l’hanno portato alla morte. Al contrario, ritengo che, tanto le dichiarazioni rilasciate dalla moglie quanto la telefonata all’avvocato, siano state parte di una strategia concordata al fine di ‘impistare’ gli inquirenti sui possibili soggetti interessati ad eliminare l’ex-tenente della Polizia Militare di Rio de Janeiro. Credo che il Capitano Adriano, persona militarmente intelligente e preparatissima, anche sotto il profilo delle strategie militari, avesse compreso da tempo che il suo destino era segnato, ma che, nonostante questo, non volesse fare nomi e raccontare fatti, bensì indicare agli investigatori un sentiero da seguire, impistandoli, appunto, ciò facendo tramite le parole della moglie e l’ultima, nonché unica, telefonata al proprio avvocato. Vedremo nelle prossime settimane e mesi se gli investigatori, attraverso le movimentazioni finanziarie e forse anche grazie ai tredici cellulari trovati addosso ad Adriano, sapranno imboccare il sentiero giusto, quello che ormai da troppo tempo lega taluni circoli politici di Rio de Janeiro al peggiore submondo criminale presente nella capitale fluminense: le milizie.
Quando Flávio Bolsonaro voleva legalizzare le milizie
Seguendo il filo rosso delle succitate cointeressenze esistenti tra la famiglia Bolsonaro e taluni miliziani di Rio de Janeiro si arriva ad una singolare proposta avanzata nel 2007 da Flávio Bolsonaro, avente di mira la legalizzazione delle milizie. Storicamente, in America Latina, esistono due modi di legalizzare le milizie paramilitari: quello consistente nel dichiarare, più o meno apertamente, l’incapacità da parte di uno Stato di fare fronte a gravi episodi di illegalità in un dato territorio e la via istituzionale, scelta a questa data da Bolsonaro Jr. I due espedienti, però, come si vedrà in questo caso, sono fortemente irrelati. Era, dunque, il 2007 e l’allora venticinquenne Flávio Bolsonaro, durante il primo mese del suo secondo mandato presso l’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro, espresse voto contrario all’installazione di una Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle milizie paramilitari attive nella capitale carioca.
All’epoca, il figlio del futuro presidente dichiarò la sua intenzione di presentare un progetto di legge atto a regolamentare le attività di ciò che egli definì “polícias mineiras”, in altri termini, ciò a cui oggi siamo soliti riferirci con l’espressione ‘milizie paramilitari’. Più avanti ritorneremo su questa curiosa espressione (polícias mineiras) usata da Flávio Bolsonaro. Il giovane deputato, chiariva ulteriormente il suo proposito, dicendo: “Le classi più alte pagano guardie private, e i poveri, come fanno ad avere un po’ di sicurezza? Lo Stato (qui inteso Rio de Janeiro) non ha la capacità per essere presente nelle quasi mille favelas di Rio de Janeiro. Dicono che le milizie impongono un tariffario da pagare alle comunità locali, ma io conosco comunità, dove i lavoratori che vi risiedono sono ben disposti a pagare 15 reais per non avere trafficanti in giro”. In questa dichiarazione, sebbene in nuce, è presentato il nucleo profondo della Weltanschauung bolsonarista con riferimento al tema delle milizie. Lo sdoganamento delle milizie passa qui da un plebeismo applicato al tema della sicurezza, tale da creare assenso nelle classi più disagiate, presentando come modello la dinamica che si realizza nelle classi più alte, mascherando, però, il non trascurabile fatto che quelle classi alte si rivolgono ad agenzie di sicurezza private, legalmente operanti sul territorio brasiliano, la cui presenza e azione sono regolamentate a norma di legge.
Ciò che Flávio Bolsonaro intendeva fare all’epoca era legalizzare uno Stato di eccezione – quello di poliziotti ed ex poliziotti pagati dalle favelas per “difenderle” dai trafficanti – sulla base dell’incapacità, suppostamente manifesta, dello Stato carioca di far fronte all’emergenza riguardante l’ordine pubblico all’interno dei territori dove vivevano le sue comunità socialmente più esposte. Il tariffario da pagare alle milizie, come lo chiamava lui, era in realtà una estorsione compiuta ai danni della comunità locale, fatta passare da “contributo” alla sicurezza all’interno di una immaginaria realtà, nella quale tali milizie dovrebbero contrapporsi alle varie organizzazioni criminali che ormai da decenni imperversano in alcune regioni di Rio de Janeiro. I miliziani, nella balorda visione della realtà bolsonarista, sarebbero, da ultimo, difensori dell’ordine pubblico, pur non essendo soggetti alle medesime leggi dei corpi di polizia tradizionali o di quelli di polizia privata, perché, al contrario di questi, si trovano ad operare all’interno di uno Stato di eccezione che, giocoforza, richiede misure altrettanto eccezionali, ossia a dire, il non rispetto della legge. Ciò che l’allora deputato statale immaginava era, quindi, la creazione di una vera e propria zona grigia, all’interno della quale le milizie paramilitari avrebbero potuto legalmente operare e (come è avvenuto) anche prosperare all’interno del submondo criminale di Rio de Janeiro.
Il diavolo, si dice, ama nascondersi nei dettagli. Dunque, perché Bolsonaro Jr., all’epoca della sua singolare proposta di legalizzazione delle milizie, usò l’espressione ‘polizia mineira’? In Brasile, col termine ‘mineiro’, si intende fare riferimento ad un individuo originario dello Stato del Minas Gerais. Parimenti, che ha che fare il Minas Gerais con la polizia di un altro Stato? La risposta a questo interrogativo la si incontra all’interno del blog ‘Delegado Pinho’, appartenente ad un poliziotto della Polizia Civile di Rio de Janeiro. Scrive il delegado Pinho: “Questo termine sorge tra gli anni ’60 e ’70, quando i poliziotti militari del Minas Gerais, che operavano nei municipi di frontiera con lo Stato di Rio de Janeiro, “invadevano” una città fluminense a caso per catturare un criminale, e le persone commentavano dicendo che la “polizia mineira” era entrata nella città “facendo e accadendo”. I poliziotti del Minas Gerais avevano fama, tra i cittadini dello Stato carioca, di essere violenti, perché inseguivano il delinquente di turno, anche in un territorio che non era di loro competenza, e lo riportavano a forza nel Minas Gerais, facendo leva sulla scarsa presenza della polizia giudiziaria e dello stesso potere giudiziario su entrambi i lati (tanto nello Stato di Rio de Janeiro quanto in quello del Minas Gerais), senza considerare che il contesto di quegli anni era quello della dittatura militare. Questa designazione di “polizia mineira” finì per imporsi nella Baixada Fluminense (regione a nord di Rio de Janeiro), in questa stessa epoca, attraverso i noti “gruppi di sterminio” – sostanzialmente formati da poliziotti al servizio di commercianti e politici – o a volte anche attraverso figure folkloristiche, come il cosiddetto “uomo dalla maschera nera”, i quali si occupavano di “far sparire” ladri e rapinatori che non permettevano agli abitanti e ai commercianti di questi luoghi di vivere in maniera tranquilla. Dapprima vincolato a concetti quali quello di forza e di violenza, il termine “polizia mineira” perse progressivamente il suo “vincolo” col Minas Gerais per ottenere un altro significato, riferendosi alla polizia che si approfitta, sfrutta, in altri termini, alla polizia corrotta”.
Il gioco politico di Sérgio Moro sulle milizie e la reazione del PSOL
Anche alla luce di questa ricostruzione storica, quindi, non sorprende la proposta del 2007 di Flávio Bolsonaro come pure ogni legame, acclarato o basato su criteri di verosimiglianza, tra milizie paramilitari e potere politico che siamo venuti svolgendo nel corso di questo articolo. Meno di tutto, però, deve sorprendere la scelta del Ministro della Giustizia e di Pubblica Sicurezza, Sérgio Moro, riguardo al fatto di riconoscere le milizie come organizzazioni criminali, pur comportando, siffatto riconoscimento, una pena minima prevista di un anno inferiore rispetto all’articolo del Codice Penale che in precedenza regolamentava la creazione e appartenenza a gruppi di miliziani. Scelta coerente, non c’è che dire, questa del Ministro Moro, considerando l’alto numero di tweet da lui dedicati alla lotta contro il PCC e il Comando Vermelho e la sintomatica assenza dal suo profilo di messaggi rivolti a contrastare la sempre più rapida ascesa delle milizie paramilitari – o polizia mineira, che dir si voglia – su tutto il territorio brasiliano, non solo nello Stato di Rio de Janeiro. Ma andiamo con ordine.
Il giorno 13 febbraio il Ministro della Giustizia, dal suo account Twitter, dichiarò che, malgrado all’interno del suo pacchetto anticrimine le milizie paramilitari fossero tipificate come organizzazioni criminali, ciononostante il Partito Socialismo e Libertà votò contro le misure proposte. Dichiarazione alla quale, a stretto giro, reagì il deputato federale dello stesso PSOL, Marcelo Freixo, da sempre in prima linea nella lotta contro le milizie a Rio de Janeiro, ribattendo che il pacchetto di misure, proposto dal ministro, riduceva le pene previste per i miliziani e che tale aberrazione era stata corretta soltanto grazie all’intervento dei deputati psolisti. Al netto delle reciproche accuse, l’articolo 13 del pacchetto anticrimine proposto da Moro (PL n° 882/2019), inviato nel febbraio 2019 all’Esecutivo del Congresso, stabiliva che, in base all’articolo 1 della Legge sulle Organizzazioni Criminali (n° 12.850/2013), sarebbero state considerate a tutti gli effetti organizzazioni criminali “la associazione di quattro o più persone strutturalmente ordinata e caratterizzata in base alla divisione di compiti”. Organizzazioni, le quali, continuava il testo, “si basino sull’esercizio della violenza o della forza di intimidazione del vincolo associativo per acquisire, in modo diretto o indiretto, il controllo sulle attività criminali o su quelle economiche. Tali associazioni sono: il Primeiro Comando da Capital, il Comando Vermelho, il Comando Vermelho, la Família do Norte, il Terceiro Comando Puro, l’Amigo dos Amigos, le milizie o altri tipi di associazioni di tipo locale”.
In altre parole, il testo redatto da Moro passava a sanzionare la formazione delle milizie non mantenendo più come base l’articolo 288-A del Codice di Procedura Penale, che riconosce questo crimine dal 2012, bensì la Legge sulle Organizzazioni Criminali. Ciononostante, mentre il succitato articolo 288-A prevedeva una pena da quattro a otto anni di reclusione, la Legge sulle Organizzazioni Criminali, pur tipificando maggiormente il milizianismo (chiamiamolo così per comodità), come giustamente affermato da Marcelo Freixo, riduceva la pena minima prevista da quattro a tre anni. Quello di Moro aveva tutta l’aria di essere un messaggio diretto a due destinatari, insomma. Da un lato, agli elettori, avendo, la sua proposta, inquadrato le milizie come organizzazioni criminali, al pari del PCC e del Comando Vermelho, ciò che, però, ad un esame più approfondito costituiva nient’altro che un gioco di prestigio. L’articolo 288-A del Codice di Procedura Penale, infatti, anche prevedendo una pena minima superiore, tipizzava il reato di milizia in maniera più nitida rispetto alle misure previste da Moro, proprio per il fatto di non considerare tale organizzazione criminale assimilabile alle altre, bensì il frutto di uno Stato di eccezione del tutto da correggere. Parimenti, ancore più grave appare il messaggio che il pacchetto anticrimine mandava, da ultimo, alle stesse milizie, abbassando di un anno la pena minima prevista. Quasi a dire: malgrado il clima tutt’altro che favorevole a causa di una parte dell’opinione pubblica, di talune forze politiche e finanche di una parte del potere giudiziario, siamo riusciti, almeno, a diminuire di un anno la detenzione minima. Pur con i giochi di prestigio dell’attuale Ministro della Giustizia, nel pacchetto anticrimine approvato nel mese di dicembre dell’anno passato (Legge n°13.964), la parte del testo che prevedeva l’inclusione del milizianismo all’interno della Legge sulle Organizzazioni Criminali era stata alla fine ritirata grazie ad un accordo con le opposizioni, affinché, come dichiarato dalla segreteria di Freixo, non vi fosse una riduzione di pena per questo tipo di crimine e perché fosse mantenuto come specifico crimine di tipo penale all’interno del Codice.
La storia che lega Marcelo Freixo e il suo partito, il PSOL, alla lotta contro le milizie paramilitari è antica. Questi, infatti, presiedeva la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle milizie all’interno della Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro (ALERJ) nel 2008; CPI, che investigò in maniera dettagliata il coinvolgimento di politici locali col crimine organizzato presente all’epoca nella capitale fluminense. La relazione finale della Commissione, oltre a sollevare il velo sul verminaio carioca fatto di consolidati rapporti tra politici, membri delle forze dell’ordine, funzionari pubblici e organizzazioni criminali, presentava cinquantotto proposte aventi l’obiettivo di combattere queste organizzazioni. La proposta numero 21 era quella riguardante l’inquadramento legislativo del reato di milizia (formazione e partecipazione). Tale Commissione Parlamentare di Inchiesta era stata proposta alla ALERJ, senza successo, da Marcelo Freixo già nel 2007, anno nel quale Flávio Bolsonaro, come si ricorderà, chiedeva a gran voce la legalizzazione delle milizie. Pur non istituita la CPI, nello stesso 2007, il deputato del Partido dos Trabalhadores, Luiz Couto, presentò il progetto di legge n° 370/2007, che tipificava il reato di formazione di milizie e gruppi di sterminio. Tale proposta divenne legge ordinaria, tuttavia, soltanto nel 2012 con la Legge n° 12.720, il cui testo sanziona la formazione di milizia privata con una reclusione da quattro a otto anni. Ecco, quindi, che, alla luce di tutti gli elementi richiamati nel presente articolo, ciascuno potrà farsi la sua idea su chi, nel Brasile di oggi, combatte le milizie paramilitari e su chi, tutto al contrario, ogni volta che può, offre loro una sponda, come la riduzione della pena minima, o, peggio ancora, ne diventa vero e proprio braccio politico.
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