Da Vittorio Alfieri, Vita rime e satire, a cura di Giuseppe G. Ferrero e Mario Rettori, UTET, Torino, 1978
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Di Vittorio Alfieri (Asti 1749 – Firenze 1803) ho scritto una breve nota biografica nel precedente intervento dove anche riporto, dalla Vita scritta da esso, alcune pagine che raccontano i viaggi da lui compiuti in Inghilterra, Germania e Russia, aggiungendovi due paragrafi che ne descrivono l’incontenibile volontà di apprendere. Di seguito invece, sempre dalla Vita, propongo il racconto della sua fuga dalla Francia sconvolta dalla Rivoluzione: è l’anno 1792. E qui annoto che il suo indubbio amore per la liberté, che gli fece addirittura rinunciare alla primogenitura – era conte – per poter evadere dal Piemonte in Toscana, più liberale, annoto che i francesi chiedevano anche la egalité, richiesta che certo non avrebbe consentito ai nobili come lui, ricchi di nascita, l’impresa narrata nel secondo brano.
EPOCA IV – Capitolo XXII: Fuga di Parigi… (p. 360)
(…) Venuto il giugno, in cui si tentò già di abbattere intieramente il nome del re, che altro più non rimaneva; la congiura di quel giorno essendo andata fallita[1], le cose si strascinarono ancora malamente sino al famoso dieci di agosto[2], in cui la cosa scoppiò come ognun sa.
Accaduto quest’avvenimento, io non indugiai più neppure un giorno, e il mio primo ed unico pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già dal dì 12 feci in fretta in fretta tutti i preparativi per la nostra partenza. Rimaneva la somma difficoltà dell’ottenere passaporti per uscir di Parigi, e del regno. Tanto c’industriammo in quei due o tre giorni, che il dì 15, o 16, già gli avevamo ottenuti come forestieri, prima dai ministri di Venezia io, e di Danimarca la signora, che erano quasi che i soli ministri esteri rimasti presso quel simulacro di re. Poi con molto più stento si ottenne dalla sezione nostra comunitativa[3] detta du Montblanc degli altri passaporti, uno per ciascheduno individuo, sì per noi due, che ogni servitore, e cameriera, con la pittura di ciascuno, di statura, pelo, età, sesso, e che so io.
Muniti così di tutte queste schiavesche patenti[4], avevamo fissato la partenza nostra pel lunedì 20 agosto; ma un giusto presentimento, trovandoci allestiti, mi fece anticipare, e si partì il dì 18, sabato, nel dopo pranzo. Appena giunti alla Barrière Blanche, che era la nostra uscita la più prossima per pigliar la via di San Dionigi per Calais, dove ci avviavamo per uscir al più presto di quell’infelice paese; vi ritrovammo tre o quattro soli soldati di guardie nazionali, con un uffiziale, che visti i nostri passaporti, si disponeva ad aprirci il cancello di quell’immensa prigione, e lasciarci ire a buon viaggio. Ma v’era accanto alla barriera una bettolaccia, di dove sbucarono fuori ad un tratto una trentina forse di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi, e furiosi. Costoro, viste due carrozze che tante n’avevamo, molto cariche di bauli e imperiali[5], ed una comitiva di due donne di servizio, e tre uomini, gridarono che tutti i ricchi se ne voleano fuggir di Parigi, e portar via tutti i loro tesori, e lasciarli essi nella miseria e nei guai. Quindi ad altercare quelle poche e tristi guardie con quei molti e tristi birbi, esse per farci uscire, questi per ritenerci. Ed io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar più di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei Francesi.
Ad uno ad uno si leggevano, e facevano leggere da chi di quelli legger sapeva, le descrizioni delle nostre rispettive figure. Io pieno di stizza e furore, non conoscendo in quel punto, o per passione sprezzando l’immenso pericolo, che ci soprastava, fino a tre volte ripresi in mano il mio passaporto, e replicai ad alta voce: «Vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; italiano e non francese; grande, magro, sbiancato; capelli rossi; son io quello, guardatemi; ho il passaporto; l’abbiamo avuto in regola da chi lo può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio».
Durò più di mezz’ora questa piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Si era frattanto ammassata più gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano: «Diamogli il fuoco a codesti legni». Altri: «Pigliamoli a sassate». Altri: «Questi fuggono; son dei nobili e ricchi, portiamoli indietro al palazzo della Città[6], che se ne faccia giustizia». Ma in somma il debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto schiamazzare e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e più di tutto la mezz’ora e più di tempo, in cui quei scimiotigri[7] si stancarono di contrastare, rallentò l’insistenza loro; e le guardie accennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si può credere in quale stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo si aprì il cancello, e di corsa si uscì, accompagnati da fischiate, insulti, e maledizioni di codesta genia. E buon per noi che non prevalse di essere ricondotti al palazzo di Città, che arrivando così due carrozze in pompa stracariche, con la taccia di fuggitivi, in mezzo a quella plebaccia si rischiava molto.
EPOCA IV – Capitolo XII: Terzo viaggio in Inghilterra unicamente per comprarvi cavalli (p. 311)
(…) Giunto in Londra, non trascorsero otto giorni, ch’io cominciai a comprar dei cavalli; prima uno di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro (…) me ne trovai rimanere quattordici (…) Avviatomi nell’aprile con quella numerosa carovana (…) io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo mi avvelenavano il piacere che avrei avuto dalla mia cavalleria. Ora questo tossiva, or quello non volea mangiare: l’uno azzoppiva, all’altro si gonfiavan le gambe, all’altro si sgretolavan gli zoccoli, e che so io; egli era un oceano continuo di guai, ed io n’era il primo martire. E quel passo di mare, per trasportarli di Douvres, vedermeli tutti come pecore in branco posti per zavorra della nave, avviliti, sudicissimi da non più si distinguere neppure il bell’oro dei loro vistosi mantelli castagni; e tolte via alcune tavole che li facean da tetto, vederli poi in Calais, prima che si sbarcassero, servire i loro dossi di tavole ai grossolani marinai che camminavan sopra di loro come se non fossero stati vivi corpi, ma una vile continuazione di pavimento; e poi vederli tratti per aria da una fune con le quattro gambe spenzolate, e quindi calati nel mare, perché stante la marea non poteva la nave approdare sino alla susseguente mattina; e se non si sbarcavano così quella sera, conveniva lasciarli poi tutta la notte in quella sì scomoda positura imbarcati; in somma vi patii pene continue di morte. Ma pure tanta fu la sollecitudine, e l’antivedere, e il rimediare, e l’ostinatamente sempre badarci da me, che fra tante vicende, e pericoli, ed incommoducci, li condussi senza malanni importanti tutti salvi a buon porto.
Confesserò anche pel vero, che io passionatissimo su questo fatto, ci avea anche posta una non meno stolta che stravagante vanità; talché quando in Amiens, in Parigi, in Lione, in Torino, ed altrove que’ miei cavalli erano trovati belli dai conoscitori, io me ne rimpettiva[8] e teneva come se li avessi fatti io. Ma la più ardua ed epica impresa mia con quella carovana fu il passo dell’Alpi fra Laneborgo e la Novaleza[9]. Molta fatica durai nel ben ordinare ed eseguire la marcia loro, affinché non succedesse disgrazia nessuna a bestie sì grosse, e piuttosto gravi, in una strettezza e malagevolezza sì grande di quei rompicolli di strade. E siccome assai mi compiacqui nell’ordinarla, mi permetta anco il lettore ch’io mi compiaccia alquanto in descriverla. Chi non la vuole, la passi; e chi la vorrà pur leggere, badi un po’ s’io meglio sapessi distribuire la marcia di quattordici bestie fra quelle Termopile che non i cinque atti d’una tragedia.
Erano que’ miei cavalli, attesa la lor giovinezza, e le mie cure paterne, e la moderata fatica, vivaci e briosi oltre modo; onde tanto più scabro riusciva il guidarli illesi per quelle scale[10]. Io presi dunque in Laneborgo un uomo per ciascun cavallo, che lo guidasse a piedi per la briglia cortissimo. Ad ogni tre cavalli, che l’uno accodato all’altro salivano il monte bel bello, coi loro uomini, ci avea interposto uno dei miei palafrenieri che cavalcando un muletto invigilava sui suoi tre che lo precedevano. E così via via di tre in tre. In mezzo poi della marcia stava il maniscalco di Laneborgo con chiodi e martello, e ferri e scarpe posticce per rimediare ai piedi che si venissero a sferrare, che era il maggior pericolo in quei sassacci.
Io poi, come Capo dell’espedizione, veniva ultimo, cavalcando il più piccolo e il più leggiero de’ miei cavalli, Frontino, e mi tenea alle due staffe due aiutanti di strada, pedoni sveltissimi, ch’io mandava dalla coda al mezzo o alla testa, portatori de’ miei comandi. Giunti in tal guisa felicissimamente in cima del Monsenigi[11], quando poi fummo allo scendere in Italia, mossa in cui sempre i cavalli si sogliono rallegrare, e affrettare il passo, e sconsideratamente anco saltellare, io mutai di posto, e sceso di cavallo mi posi in testa di tutti, a piedi, scendendo ad oncia ad oncia; e per maggiormente anche ritardare la scesa, avea posti in testa i cavalli i più gravi e più grossi; e gli aiutanti correano intanto su e giù per tenerli tutti insieme senza intervallo nessuno, altro che la dovuta distanza. Con tutte queste diligenze mi si sferrarono nondimeno tre piedi a diversi cavalli; ma le disposizioni eran sì esatte, che immediatamente il maniscalco li poté rimediare, e tutti giunsero sani e salvi alla Novalesa, coi piedi in ottimo essere, e nessunissimo zoppo. (…) Io, quant’a me, avendo sì felicemente diretto codesto passo, me ne teneva poco meno che Annibale per averci un poco più verso il mezzogiorno fatto traghettare i suoi schiavi e elefanti. Ma se a lui costò molt’aceto[12], a me costò del vino non poco, che tutti coloro, e guide, e maniscalchi, e palafrenieri, e aiutanti, si tracannarono.
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[1] Il 20 giugno il popolo, sobillato dai girondini, invase le Tuileries per tentare di indurre Luigi XVI a ritirare il veto da lui posto a due decreti dell’assemblea legislativa, ma il re resistette e la «congiura» fallì.
[2] È il giorno in cui il popolo, spinto dai giacobini, assalì e prese la reggia delle Tuileries, trucidando gli Svizzeri di guardia, e costringendo il re a rifugiarsi presso l’assemblea, che lo imprigionò con la famiglia nella Torre del Tempio.
[3] comunitativa: della comunità, del Comune.
[4] schiavesche patenti: documenti di viaggio rilasciati da uomini schiavi della demagogia.
[5] imperiali: casse collocate sul tetto delle carrozze da viaggio.
[6] L’Hotel de Ville o Maison commune, dove aveva sede la Municipalità.
[7] scimiotigri: è un alfierismo: feroci come tigri e maligni e ridicoli come scimmie.
[8] me ne rimpettiva: me ne gonfiavo il petto, mi ringalluzzivo per orgoglio.
[9] Laneborgo è Lanslebourg, da cui parte la strada del Moncenisio. La Novalesa è la famosa badia benedettina, a nord di Susa.
[10] quelle scale: «Le Scale» vien ancor oggi denominata l’ultima parte (quella più ripida e irta) della salita al Moncenisio.
[11] Monsenigi: Moncenisio (dal francese Mont Cenis).
[12] Allude a un particolare della discesa di Annibale narrato da Tito Livio (cfr. T. LIVIO, Storie, lib. XXI, cap. 37). Per superare un passo difficile, Annibale fece accendere grandi fuochi, e poi, sulle rocce così scaldate, gettare molto aceto per renderle più facilmente frantumabili, allo scopo di tracciare la strada.