Brasile anno zero? Cosa significa la scarcerazione di Lula*
di Francesco Guerra
Devo essere onesto, cari lettori, nemmeno nelle mie più rosee previsioni mi sarei immaginato una scarcerazione (anche se sarebbe più corretto parlare di liberazione) dell’ex-presidente Lula in tempi tanto rapidi. Dopo che nella notte di giovedì il Supremo Tribunale Federale di Brasilia, con 6 voti a 5, si era espresso contro la detenzione dopo il secondo grado di giudizio, mi ero immaginato un iter più lungo per una eventuale liberazione di Lula, finanche un rifiuto da parte del magistrato chiamato ad esprimersi. E invece, a volte, la storia politica di questo sterminato Paese ci sorprende. Va detto, tuttavia, che la decisione apripista alla liberazione di Lula, quella del Supremo Tribunale Federale succitata, assai difficilmente sarebbe stata presa senza il tenace, paziente e certosino lavoro svolto in questi mesi dal giornalista statunitense Glenn Greenwald e dai suo valenti collaboratori di The Intercept Brasil. La Vaza Jato, questo il nome dell’inchiesta, ha definitivamente scoperchiato il verminaio, che stava dietro l’operazione giudiziaria del secolo, come qualcuno l’aveva ribattezzata, vale a dire la Lava Jato, diretta dal procuratore di Curitiba Deltan Dallagnol. O, forse, sarebbe meglio dire, proprio alla luce delle rivelazioni della Vaza Jato, diretta dall’ex-giudice e attuale Ministro della Giustizia e di Pubblica Sicurezza Sérgio Moro.
Sì, perché Greenwald e la sua equipe hanno pubblicato pagine e pagine di trascrizioni di messaggi tra Moro e i procuratori curitibani, in particolare Dallagnol, dai quali emerge come l’ex-giudice dirigesse, letteralmente, le indagini della Lava Jato, oltre a tutta un’altra serie di “eccessi giudiziari”, commessi sempre da Moro, che coinvolgevano, tra gli altri, anche alcuni ministri del Supremo Tribunale Federale, quali, per esempio, Gilmar Mendes. Un verminaio, appunto, che nel corso dei mesi si è esteso, vista la mole dei materiali ottenuti da Intercept, con cadenzate pubblicazioni sui più importanti giornali e riviste del Paese, dalla Folha de São Paulo sino alla Veja. Giornali e riviste, va detto, che in passato si erano mostrati oltremodo entusiasti delle indagini condotte da Dallagnol & Co. e puntualmente confermate, in sede di sentenza, da parte di Sérgio Moro, il quale, di fatto, avallava per via giudiziaria le sue stesse indagini. I due processi e le due condanne emesse nei confronti dell’ex-presidente Lula sono figlie di tali eversioni del diritto e della stessa architettura giudiziaria brasiliana mediante la sovrapposizione tra organi inquirenti e giudicanti, oltre che di pratiche a noi italiani tristemente note dalla mesta epoca di Mani pulite, quali la carcerazione preventiva impiegata come strumento di tortura, affinché l’indagato sia indotto a parlare, rivelando finalmente ciò che i magistrati vogliono sentirsi dire. Di una tale carcerazione preventiva la Lava Jato ha fatto un uso generalizzato e indiscriminato, creando un tale caos, che, ad oggi, la sola via d’uscita accettabile, in termini di rispetto dello Stato di Diritto e di giustizia, sarebbe l’annullamento di tutte quelle condanne emesse in questi anni, laddove nelle indagini si sia fatto uso di delações o peggio ancora di delações premiadas.
E qui si arriva anche al capitolo riguardante Lula e le due condanne e i sette processi in attesa di giudizio, che ancora pendono sulla sua testa come una spada di Damocle e che lo rendono ineleggibile. Il centro della questione, con riferimento al futuro di Lula e, di qui, a quello del Brasile, non è, tanto e solo, la decisione del STF sulla carcerazione dopo il secondo grado di giudizio e nemmeno che oggi l’ex-presidente sia libero, ciò di cui, come difensore di un Brasile democratico e figlio della sua Costituzione post-dittatura, mi rallegro, ma che tuttavia non sembrano essere argomenti dirimenti. Il vero centro della questione riguarda il riconoscimento o meno della legittima suspicione con riferimento ai processi riguardanti Lula, che furono condotti e giudicati o anche solo condotti da Moro, i quali potrebbero retrocedere sino alla fase di denuncia del reato o più semplicemente essere annullati. Lo ha spiegato molto bene il ministro del Supremo Tribunale Federale Gilmar Mendes in una intervista rilasciata, circa un mese fa, a BBC News Brasil. Il riconoscimento della legittima suspicione a carico di Moro “significherebbe l’annullamento delle condanne di Lula nei due processi, quello dell’appartamento di Guarujá e, l’altro, concernente la villa di Atibaia, oltre al fatto che altri procedimenti giudiziari la cui sentenza è vicina, come il finanziamento per la costruzione dell’Istituto Lula, dovrebbero ripartire dalla accettazione della denuncia da parte di Bonat, il giudice che ha sostituito Moro presso la 13a Corte di Primo Grado del Tribunale di Curitiba”. Continua Mendes: “Io ho l’impressione che, per come è formulato il ricorso, se sarà annullata la sentenza, si dovrà tornare alla denuncia. Pertanto, tutti gli atti processuali riferibili a Moro, incluso il ricevimento della denuncia, dovranno essere dichiarati nulli”. Legittima suspicione fondantesi, dunque, sul riconoscimento della parzialità di Moro nei confronti di Lula, cui sinergicamente convergono, da un lato, l’inchiesta giornalistica di Greenwald, e dall’altro, la nomina dello stesso Moro – il quale solo poco tempo prima di tale nomina aveva tassativamente escluso la possibilità di assumere incarichi politici – a Ministro della Giustizia e di Pubblica Sicurezza da parte del (non ancora insediatosi) governo Bolsonaro. Ciò che, sin da subito, apparve una sorta di gratificazione professionale riconosciuta a Moro per avere eliminato dalla competizione elettorale l’unico candidato che realmente avrebbe potuto contendere l’elezione a Jair Bolsonaro. Pertanto, la decisione del Supremo Tribunale Federale, prevista, secondo Gilmar Mendes, per il mese corrente, sarà dirimente al fine di riconoscere se i due processi a Lula siano stati, o meno, viziati da persecuzione politica, potendosi in tal modo sanzionare, ove fosse riconosciuta la parzialità delle indagini e delle sentenze, da un lato, la avvenuta tribunalizzazione della politica per mano della Lava Jato, come pure il suo contrario, ossia a dire, l’uso politico della giustizia da parte della task-force della Procura di Curitiba e da parte dell’ex-giudice di primo grado Sérgio Moro.
La decisione del STF sulla carcerazione solo dopo il secondo grado di giudizio non rappresenta in sé alcun passaggio rivoluzionario, né in un senso positivo e nemmeno in uno negativo, nella storia di questo Paese, ma solo l’affermazione di un principio sancito dalla stessa Costituzione Federale nata sulle ceneri della dittatura, il quale prevede la detenzione, laddove non vi sia pericolo di reiterazione del reato, solamente una volta che la condanna è passata in giudicato. Gli “strappi” del Supremo Tribunale Federale sono stati altri e anteriori, purtroppo. Strappi dovuti ad una manifesta incapacità di restare insensibili alle richieste, con annessa bava alla bocca, proveniente dalla piazza, al bombardamento mediatico a favore della Lava Jato da parte della Globo come pure all’attivismo e protagonismo giudiziario della ribattezzata “Repubblica di Curitiba” (Dallagnol & Co. e Sérgio Moro). Uno stato di cose, che, negli ultimi cinque anni, ha di fatto condotto ad accettare il paradigma giudiziario di Moro, secondo il quale, ove necessario, possono essere consentite violazioni del diritto alla difesa dell’indagato, pertanto dello Stato di Diritto, al fine di ottenere più consistenti risultati nella lotta alla corruzione. Ciò detto, il Brasile si trova davanti ad uno snodo fondamentale della sua tormentata storia, uno snodo dove, in teoria, sarebbe possibile chiudere definitivamente i conti col mito della lotta alla corruzione per via giudiziaria, mito, il quale, oltre a non avere sconfitto la corruzione, ha soltanto avvelenato i pozzi della vita sociale e civile di questo Paese.
Ciò di cui il Brasile di oggi sembra avere più bisogno è l’avvio di un reale processo di pacificazione nazionale – al fine di uscire dal vortice perverso della radicalizzazione – fondato su una convergenza effettiva tra forze moderate e di sinistra, che possa condurre all’isolamento politico dell’estrema destra di Bolsonaro e Moro. Un processo di pacificazione per il quale, a giudicare dalla deludente prima uscita pubblica di Lula ieri, sembra mancare un valido interprete in grado di realizzarlo. Parimenti, a lato delle considerazioni politiche, emergono altrettanto stringenti decisioni di carattere giudiziario che andrebbero finalmente adottate, quali: una soluzione politica per tutti i condannati e gli indagati della Lava Jato, con conseguente chiusura della stessa, una lotta alla corruzione da farsi per via legislativa e non giudiziaria, e da affidarsi al Congresso Nazionale, e una robusta riforma del Supremo Tribunale Federale, il quale, al presente, più che essere il guardiano della costituzione, appare come il crocevia di superiori interessi di natura politica, giudiziaria e finanche economica, considerando la presenza al suo interno di ministri e al tempo stesso avvocati, le cui decisioni in materia giurisprudenziale hanno fatto sorgere più di una volta il dubbio della possibile presenza di conflitti di interesse. Più di tutto, ma non meno difficile a realizzarsi delle succitate proposte, sarebbe auspicabile una riforma copernicana della giustizia tale da riportare il potere giudiziario di questo Paese ad essere, prendendo a prestito le parole di Montesquieu nello Spirito delle leggi, ‘bocca della legge’ e soggetto al controllo di un organo istituzionale ad esso esterno e in alcun modo formato da magistrati. Proposte, queste, quasi impossibili da realizzare nel Brasile incarognito e rabbioso di oggi, ma che, ove venissero accolte, anche solo in parte, potrebbero condurre questo Paese ad essere felice di nuovo, come recitava lo slogan di Haddad nella campagna elettorale dell’anno passato. Ripartire dalla pacificazione, dunque. Resta da capire con chi.
* questo articolo è anche su www.nextquotidiano.it