Venezia 2011 Visioni sulla 68 Mostra del Cinema
di Roberto Ferretti
Partecipare ad un Festival Internazionale, come quello di Venezia, è una grande fortuna per chi nutre una profonda passione nei confronti del cinema. Vi è una motivazione, anche più profonda, che si insinua sottopelle non appena si spengono le luci in sala. In pochi attimi, rimanendo seduti nelle nostre poltrone, si viene proiettati, nella condizione di compiere una sorta di giro del Mondo. Esplorando i più reconditi angoli del pianeta , si entra visceralmente a condividere modi di vivere e di sentire, di una moltitudine di popoli. Il regista Victor Kossakosky condensa questa emozione in unico film. Documentarista tra i più premiati ha presentato, fuori concorso, la sua ultima fatica “Vivan las Antiposdas”. Prodotto dal tedesco Heino Deckert, in questa ultima fatica, il regista Russo immagina di tirare quattro rette sul nostro pianeta, toccando otto angoli del Mondo, unendo a ciascuno di questi il relativo antipodo geografico. Si passa da uno sperduto ponte di legno su un fiume dell’Argentina, gestito da due singolari individui, alla caotica ed alienante, opposta, Shangai; dalla capanna di un eremita in Chile a una coppia di donne che vive isolata sul Lago Baikal in Russia; da una spiaggia della Nuova Zelanda ad un misterioso bosco sui Pirenei spagnoli; dalle colate laviche dei vulcani delle Hawaii ad un miniscolo bar di un villaggio, ai margini della savana in Botswana. Kossakosky senza abbandonare il taglio documentaristico, rende il suo lavoro accattivante, con una regia che gioca sugli opposti, sui ribaltamenti del piano, in un Mondo sottosopra ove esistono moltitudini di poli opposti.
25 Aprile 1986 Pripyat è una città modello di 50.000 abitanti, circondata dalla sterminata campagna Ucraina. Sulle rive del fiume il piccolo Valery pianta un melo in compagnia del padre scienziato Alexei, non molto distanti Anya e Piotr festeggiano il loro matrimonio. Così ha inizio il bellissimo film “La terre outragée” della regista Franco-Israeliana Michale Boganim presentato nella sezione “Settimana della Critica”. È sabato a Pripyat quel giorno, la primavera è arrivata e in questa cittadina l’aria è colma d’ allegria. Al suo matrimonio Anya (interpretata dalla modella Ucraina Olga Kurylenko) sta cantando una canzone, quando i colleghi vigili del fuoco del marito Piotr arrivano per portarselo via. È scoppiato un “incendio nei boschi” che circondano la vicina centrale di Chernobyl, tutti vengono richiamati in servizio. Il clima cambia repentinamente, la città viene investita da forte burrasca. Ma è una pioggia scura, che non lava ogni cosa, bensì deposita il proprio fardello radioattivo. Solo quattro giorni dopo inizia la rapida e sradicante evacuazione della città. La regista decide, per non snaturare questa tragica storia, di non abbandonare l’impianto documentaristico, lasciando però ampio spazio alla fiction. Dieci anni dopo, Piotr non ha mai fatto ritorno da quella missione che si rivelò suicida, Anya sbarca il lunario accompagnando come guida i turisti Francesi all’interno di questa apocalittica città fantasma. Alexei è disperso, dato per morto, vaga in giro senza meta in uno stato di confusione, mentre il figlio, Valery, ormai grande, non si rassegna all’idea della morte del Padre. Anya è ancora una bella donna, ma porta i segni della tragedia, perde i capelli ed indossa una parrucca. Potrebbe partire, andare a Parigi, seguire l’uomo che tanto la ama; ma sa di non possedere prospettive di un futuro e la sua casa è lì, non l’Ucraina ora indipendente, ma Pripyat che periodicamente può visitare grazie al suo bizzarro lavoro di guida. Anche il giovane Valery, durante una commemorazione, infrangendo le rigide regole che fanno di Pripyat una città proibita, fa ritorno in quelle che erano la sua scuola, la sua casa. In uno scenario desolante, riaffiorano i ricordi di una vita bruscamente interrotta, Valery va alla ricerca di un indizio che gli sveli dove possa essere il padre. Applauditissimo dal pubblico in sala, “La terre outragée”, è lo specchio del dramma di tutti coloro che non possono o riescono spezzare i legami con il passato, con le proprie radici. Ognuno di noi ha una propria Pripyat, una piccola Pompei domestica. Le macerie rimaste tali, a distanza di quasi due anni, per gli Aquilani rappresentano ancora la propria casa, alla quale si vuole fare ritorno. Per i Bolognesi l’orologio della stazione fermo alle 10.10 o il relitto dell’ aereo esploso sui cieli di Ustica costituiscono la fotografia di un istante che fa parte della nostra storia, interrotta bruscamente per mano di qualcuno.
Presentato ne “Le giornate degli autori” ci sentiamo di raccomandare anche l’ultima fatica del Regista Philippe Lioret, l’applauditissimo “Toutes nos envies”. Già conosciuto in Italia per il film “Wellcome”, Lioret non manca di sottolineare come, alla base dei propri lavori vi sia sempre, “l’ incontro” di due o più individui. Più che alla storia in se stessa, ama dare luce all’energia che si sprigiona quando il percorso di una vita si intreccia con quella di un altro individuo. Claire (Marie Gillain) è una giovane giudice, che si trova nell’aula del tribunale una donna che conosce di vista. Vittima dei contorti meccanismi finanziari rischia di essere incriminata, perché non in grado di pagare le more e gli altissimi interessi maturati. Claire riesce solo per il momento a respingere l’attacco dei creditori in colletto bianco. Il caso solleva un vespaio e potrebbe costituire un precedente pericoloso. Lei lo sa e per rintuzzare il ritorno più agguerrito dei pescicani, chiede aiuto ad un altro giudice Stephane (Vincent Lindon già presente in Wellcome). Claire nel frattempo scopre di essere condannata da una malattia che non le darà scampo. La storia potrebbe scadere nel pietismo, ma non è ciò che cerca il regista. Il dramma della sofferenza viene affrontato con serenità, risulta quasi attenuato. Le solide basi sulle quali poggiano le storie raccontate da Lioret, sono quelle della complicità e della solidarietà.
Le stesse basi del film “Io sono Li”. Lungometraggio d’esordio del documentarista italiano Andrea Segre, presentato anche questo nella sezione “Giornate degli autori”. Uno dei pochi film italiani tra i tantissimi presenti a questa edizione del Festival Di Venezia degno di nota. Girato tra Chioggia e la laguna veneta, questo lavoro si avvale della straordinaria fotografia di Luca Bigazzi. Una pellicola delicata, un film d’acqua, di maree, di silenzi rotti solo da dialoghi in veneto stretto, sottotitolati in italiano tanto quanto il cinese della protagonista “Lì” (interpretato da Zhao Tao). Bravissimi gli attori, Segre si avvale della collaborazione di professionisti capaci come Roberto Citran, Giovanni Battiston, Marco Paolini. Li non parla quasi italiano, è arrivata in Italia forse clandestinamente. Sballotata da una città all’altra, dai connazionali che la comandano, giunge a Chioggia per lavorare 12 ore in un Bar, in attesa della “Notizia”… Impara a preparare “Spritz”e a servire “ombre” ai clienti, quasi tutti pescatori. Fa la conoscenza di un uomo molto più vecchio di lei (interpretato da Rade Sherbedgia) che tutti chiamano il poeta. Nasce tra loro un rapporto fatto di complicità e amicizia. Lui di origine Croata vive da più di trent’anni in laguna. Nessuno, meglio di lui, può sapere cosa possa significare essere catapultati migliaia di chilometri lontano da casa, in un paese straniero e a volte ostile. Al Lido, durante la Mostra, circolava la voce che il film non era stato selezionato per il «concorso» perché molto (troppo) veneziano. Forse è vero, ma è un peccato che tanta poesia sia oggetto di disquisizioni su ciò che è più opportuno. Calcoli che, comunque, non hanno portato a molto. Dei tre film italiani in concorso il bottino raccolto si limita ad un premio di consolazione, quello speciale della giuria assegnato a Crialese per “Terraferma” .