Da Benvenuto Cellini, Vita, in Biblioteca Universale Rizzoli, 1954
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Benvenuto Cellini (Firenze 1500-1571) è universalmente conosciuto come scultore e orafo fra i più importanti dell’arte italiana rinascimentale – citiamo soltanto il Perseo che si può ammirare a Firenze nella Loggia dei Lanzi e, meno visibile e pur altrettanto ammirevole, il Cristo dell’Escurial, non lontano da Madrid. Ma è anche scrittore che merita di essere annoverato fra i grandi della nostra letteratura per la freschezza e immediatezza della scrittura, viva e coinvolgente ancora oggi, una volta che il lettore abbia preso dimestichezza con la spontaneità della “pretta” parlata fiorentina. Un’autobiografia, la sua Vita, che è anche prezioso documento storico del grande secolo che vide a un tempo l’Italia riferimento culturale d’Europa, ma anche la sua rovina politica: da concerto di liberi stati divenne infatti teatro di guerra fra Francia e Impero asburgico prima e, infine, colonia degli Spagnoli per quasi duecento anni. Una vicenda, quella di Benvenuto, raccontata senza veli e reticenze, anzi con orgoglio – da “primo omo del mondo” come dice di sé – vicenda che ci consente di conoscere la quotidianità del vivere di quell’evo infausto e pur glorioso.
Per conoscere a tutto tondo l’uomo Cellini riportiamo le pagine in cui racconta come uccise l’assassino di suo fratello (da Libro I, 51, pp. 104-105).
Questo tale istava a casa vicino a un luogo chiamato Torre Sanguigna, accanto a una casa dove stava alloggiato una cortigiana delle più favorite di Roma, la quale si domandava la signora Antea. Essendo sonato di poco le ventiquattro ore, questo archibusieri si stava in su l’uscio suo con la spada in mano, e aveva cenato.
Io con gran destrezza me gli accostai con un gran pugnal pistolese, e girandogli un manrovescio, pensando levargli il collo di netto, voltosi anche egli prestissimo, il colpo giunse in nella punta della spalla istanca[1], e fiaccato tutto l’osso, levatosi su, lasciato la spada, smarrito dal gran dolore, si messe a corsa. Dove che seguitandolo in quattro passi lo giunsi, e alzando il pugnale sopra la sua testa, lui abbassando forte il capo, prese il pugnale appunto l’osso del collo e mezza la collottola, e in nell’una e nell’altra parte entrò tanto dentro il pugnale che io, se ben facevo gran forza di riaverlo, non possetti; perché della ditta casa dell’Antea saltò fuora quattro soldati con le spade impugnate in mano, a tale che io fui forzato a metter mano per la mia spada per difendermi da loro.
Lasciato il pugnale mi levai di quivi e per paura di non essere conosciuto me ne andai in casa il duca Lessandro[2], che stava in fra piazza Navona e la Ritonda. Giunto che io fui feci parlare al duca, i’ quale mi fece intendere che, se io ero solo, io mi stessi cheto e non dubitassi di nulla, e che io me ne andassi a lavorare l’opera del papa, che la desiderava tanto, e per otto giorni io mi lavorassi drento; massimamente essendo sopraggiunto quei soldati che mi avevano impedito, li quali avevano quel pugnale in mano e contavano la cosa come l’era ita, e la gran fatica che egli avevano durato a cavare quel pugnale dell’osso del collo e del capo di colui, il quale loro non sapevano chi quel si fussi. Sopraggiunto in questo Giovan Bandini, disse loro: “Questo pugnale è il mio, e l’avevo prestato a Benvenuto, il quale voleva far le vendette del suo fratello”. I ragionamenti di questi soldati furno assai, dolendosi d’avermi impedito, se bene la vendetta s’era fatta a misura di carboni[3].
Passò più di otto giorni: il papa non mi mandò a chiamare come e’ soleva. Da poi mandatomi a chiamare per quel gentiluomo bolognese suo cameriere, questo con gran modestia mi accennò che il papa sapeva ogni cosa, e che sua santità mi voleva un grandissimo bene, e che io intendessi a lavorare e stessi cheto. Giunto al papa, guardatomi così con l’occhio del porco[4], con i soli sguardi mi fece una paventosa bravata, di poi atteso all’opera[5], cominciatosi a rasserenare il viso, mi lodò oltra modo, dicendomi che io avevo fatto un gran lavoro in sì poco tempo; da poi guardatomi in viso, disse: “Or che tu sei guarito, Benvenuto, attendi a vivere”.
6 maggio 1527: l’esercito imperiale di Carlo V al comando del duca e conestabile di Francia Carlo di Borbone è all’assalto di Roma, cui seguirà il “sacco” narrato anche da Francesco Guicciardini (vedi precedente intervento su questa Antologia Storica).
Comparso di già l’esercito di Borbone alle mura di Roma, il detto Alessandro del Bene mi pregò che io andassi seco a farli compagnia: così andammo un di quelli miglior compagni e io, e per la via con esso noi si accompagnò un giovanetto addomandato Cecchino della Casa. Giugnemmo alle mura di Campo Santo, e quivi vedemmo quel maraviglioso esercito che di già faceva ogni suo sforzo per entrare.
A quel luogo delle mura dove noi ci accostammo, v’era molti giovani morti da quei di fuora: quivi si combatteva a più potere: era una nebbia folta quanto immaginar si possa; io mi volsi a Alessandro e li dissi: “Ritiriamoci a casa il più presto che sia possibile, perché qui non è un rimedio al mondo; voi vedete, quelli montano e questi fuggono”. Il ditto Lessandro spaventato, disse: “Così volesse Iddio che venuti noi non ci fussimo”. E così voltossi con grandissima furia per andarsene.
Il quale lo ripresi, dicendogli: “Da poi che voi mi avete menato qui, gli è forza fare qualche atto da uomo”. E volto il mio archibuso dove io vedevo un gruppo di battaglia più folta e più serrata, posi la mira in nel mezzo appunto a uno che lo vedevo sollevato dagli altri; per la qual cosa la nebbia non mi lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè. Voltomi subito a Lessandro e a Cecchino, dissi loro che sparassino i loro archibusi; e insegnai loro i1 modo, acciocché e’ non toccassino una archibusata da que’ di fuora.
Così fatto dua volte per uno, io mi affacciai alle mura destramente, e veduto in fra di loro un tumulto istraordinario, fu che da questi nostri colpi si ammazzò Borbone; e fu quel primo che io vedevo rilevato dagli altri, per quanto da poi s’intese.
Levatici di quivi, ce ne andammo per Campo Santo, ed entrammo per San Piero; e usciti là drieto alla chiesa di Santo Agnolo, arrivammo al portone di Castello con grandissime difficultà, perché il signor Renzo da Ceri e il signor Orazio Baglioni davano delle ferite e ammazzavono tutti quelli che si spiccavano dal combattere alle mura. Giunti al detto portone, di già erano entrati una parte de’ nimici in Roma, e gli avevamo alle spalle. Volendo il castello far cadere la saracinesca del portone, si fece un poco di spazio, di modo che noi quattro entrammo drento (da Libro I, 34, p. 73).
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[1] Sinistra.
[2] Del duca Alessandro de’ Medici.
[3] Abbondantemente.
[4] Biecamente.
[5] Ammirando l’opera di oreficeria che gli aveva commissionato.