Da Antonio Pigafetta, Relazione del primo viaggio intorno al mondo, a cura di Camillo Manfroni, Ghibli, Milano 2014
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Avendo io avuto gran notizia per molti libri letti e per diverse persone (…) de le grandi cose del mare Oceano, deliberai (…) fare esperienzia di me e andare a vedere quelle cose, che potessero dare alcuna satisfazione a me medesimo e potessero partorirme qualche nome appresso la posterità. Queste le parole con cui Antonio Pigafetta, reduce dal primo incredibile viaggio attorno al mondo, presenta la relazione che gli darà “nome” nella storia. Era nato a Vicenza intorno al 1490 e nel 1519 si trovava a Barcellona come gentiluomo addetto alla persona del nunzio apostolico alla corte dell’imperatore Carlo V. Lì apprese la notizia della sua vita: Magellano preparava una spedizione verso il nuovo mondo e arruolava equipaggi per le cinque navi a sua disposizione. Fu accolto come criado addetto alla persona del capitano. Il viaggio fu avventuroso oltre l’immaginabile e solo una nave, la Victoria, con solo diciotto uomini ritornò in Spagna il 6 settembre 1522, cioè dopo tre anni. La comandava El Cano – Magellano era morto combattendo contro i nativi delle isole del Pacifico. El Cano vantò l’impresa inserendo nel suo stemma il mondo con la frase non ripetibile da altri: Primus cicumdedisti me. Pigafetta invece ci lascia questo scritto ancora memorabile. La lingua è italiano-veneta, e non poteva essere altrimenti, ma la relazione fu presto tradotta in francese, tanto che se ne conservano manoscritti coevi. Non si hanno notizie della rimanente sua vita.
I nativi del Brasile (pp. 55-57)
Questa terra del Verzin[1] è abbondantissima e più grande che Spagna, Franza e Italia tutte insieme: è del re di Portugallo. Li populi di questa terra non sono Cristiani e non adorano cosa alcuna; vivono secondo lo uso della natura e vivono centovinticinque anni e cento quaranta: vanno nudi così uomini, come femmine; abitano in certe case lunghe che le chiamano boii e dormono in rete de bambaso[2], chiamate amache, legate ne le medesime case da un capo e da l’altro a legni grossi: fanno fuoco in fra essi in terra. In ognuno di questi boii stanno cento uomini con le sue mogli e figlioli facendo gran romore.
Hanno barche d’uno solo albero, ma schize[3] chiamate canoe, scavate con menare[4] di pietra. Questi popoli adoperano le pietre, come noi il ferro, per non averne. Stanno 30 e 40 uomini in una di queste; vogano con pale come da forno e così negri, nudi e tosi[5] assomigliano quando vogano a quelli della della Stige palude.
Sono disposti uomini e femmine come noi; mangiano carne umana de li suoi nemici, non per buona, ma per una certa usanza. Questa usanza, lo uno con l’altro, fu principio una vecchia, la quale aveva solamente uno figliolo, che fu ammazzato da li suoi nemici, per il che, passati alcuni giorni, li suoi pigliarono uno de la compagnia che aveva morto il suo figliolo e lo condussero dove stava questa vecchia. Ella, vedendo e ricordandosene del suo figliolo, come cagna arrabbiata, li corse addosso e lo mordette in una spalla.
Costui de lì a poco fuggì ne li suoi e disse come lo volsero mangiare, mostrandoli el segnale de la spalla. Quando questi pigliarono poi di quelli, li mangiarono, e quelli de questi; sì che per questo è venuta a tale usanza. Non se mangiano subito; ma ogni uno taglia uno pezzo e lo porta in casa, mettendolo al fumo: poi ogni 8 giorni taglia uno pezzetto, mangiandolo brustolato con le altre cose per memoria degli suoi nemici. Questo me disse Ioanne Carvagio piloto, che veniva con noi, il quale era stato in questa terra quattro anni.
Questa gente si dipingono maravigliosamente tutto il corpo e il volto con fuoco in diverse amaniere[6]; anche le donne; sono tosi e senza barba, perché se la pelano. Se vestono de vestiture di piume di pappagallo con rode[7] grandi al culo delle penne maggiori, cosa ridicola. Quasi tutti gli uomini, eccetto le femmine e i fanciulli, hanno tre busi nel labbro di sotto, ove portano pietre rotonde e longhe un dito, e più e meno di fuora pendente. Non sono del tutto negri, ma olivastri; portano descoperte le parti vergognose; el suo corpo è senza peli, e così uomini qual[8] donne sempre vanno nudi. Il suo re è chiamato cacich. (…)
Ne davano una per una accetta o coltello grande una o due delle loro figliole per schiave; ma le sue mogliere non dariano per cosa alcuna. Elle non farebbero vergogna a’ suoi mariti per ogni gran cosa, come me è stato riferito. Di giorno non consentono a li loro mariti, ma solamente di notte. Esse lavorano e portano tutto il mangiare da li monti in zerli[9], ovvero canestri sul capo o attaccati al capo; però essendo sempre seco i suoi mariti solamente con un arco di verzin o de palma negra e un mazzo di frezze de canna: e questo fanno perché sono gelosi. Le femmine portano i suoi figlioli attaccati al collo in una rete da bambaso. Lascio altre cose per non essere più lungo. (…)
L’Oceano Pacifico (pp. 74-75)
Mercore[10] a 28 de novembre 1520 ne disbucassemo da questo stretto s’ingolfaldone nel mar Pacifico. Stessimo tre mesi e venti giorni senza pigliare refrigerio di sorta alcuna. Mangiavamo biscotto, non più biscotto, ma polvere di quello con vermi a pugnate, perché essi avevano mangiato il buono: puzzava grandemente de orina de sorci, e bevevamo acqua gialla già putrefatta per molti giorni, e mangiavamo certe pelle de bove, che erano sopra l’antenna maggiore, acciò che l’antenna non rompesse la sartia, durissime per il sole, pioggia e vento. Le lasciavamo per quattro o cinque giorni nel mare, e poi se mettevano un poco sopra la brace e così le mangiavamo, e ancora assai volte segatura de asse. Li sono sorci se vendevano mezzo ducato lo uno e se pur ne avessemo potuto avere.
Ma sovra tutte le altre sciagure questa era la peggiore: crescevano le gengive ad alcuni sopra li denti così de sotto come de sovra, che per modo alcuno non potevano mangiare, e così morivano per questa infermità. Morirono 19 uomini e il gigante con uno Indio de la terra del Verzin. Venticinque o trenta uomini se infirmorono, chi ne li bracci e le gambe o in altro loco, sicchè pochi restarono sani. Per la grazia di Dio, io non ebbi alcuna infermitade.
In questi tre mesi e venti giorni andassemo circa de quattro mila leghe in uno golfo[11] per questo mar Pacifico (in vero è bene pacifico, perché in questo tempo non avessimo fortuna) senza vedere terra alcuna, se non due isolotte disabitate, nelle quali non trovassimo altro se non uccelli e arbori; le chiamassimo Isole Infortunate. (…) Ogni giorno facevamo cinquanta, sessanta e settanta leghe a la catena, o a poppa. E se Iddio e la sua Madre benedetta non ne dava così buon tempo, morivamo tutti di fame in questo mare grandissimo.
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[1] Il Brasile fu chiamato anche Verzin dagli Italiani a causa del legno tintorio che vi abbondava e che i Portoghesi chiamarono Brazil.
[2] Cotone.
[3] In veneto schize = sottili, schiacciate.
[4] In veneto manare = mannaie, scuri.
[5] Tosati.
[6] Maniere.
[7] Ruote.
[8] Come.
[9] Gerle, ceste da spalla.
[10] Mercoledì.
[11] In un solo tratto, cioè senza mai fermarci.