Da Niccolò Machiavelli, Opere, in Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, UTET, 1986
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Di Niccolò Machiavelli (Firenze 1469-1527) ho scritto una breve nota biografica nel precedente intervento e anche ho riportato pagine rispettivamente da le Lettere e da Il Principe. Di seguito invece proponiamo un brano da Istorie fiorentine. Perché le opere del nostro furono diverse e numerose. Ne elenchiamo di seguito, oltre alle citate, le più conosciute: Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio / Dell’arte della guerra / Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini / La vita di Castruccio Castracani da Lucca / Ritracto delle cose di Francia / Rictracto delle cose della Magna… Segnalo anche due opere “letterarie” che meglio definiscono la personalità del nostro, certo un fiorentino di spirito: La mandragola e Belfagor arcidiavolo. A Machiavelli comunque si riconosce, al di là dei controversi giudizi ‘morali’ e interessati che di lui si sono dati nei secoli, d’aver fondato una nuova scienza: la “politica”, desunta dalle sue letture e dalla meditata esperienza di segretario della repubblica di Firenze, cioè, come lui stesso l’ha definita, “dalla realtà effettuale”.
Di seguito il drammatico racconto della congiura dei Pazzi da Istorie fiorentine (pp. 707-706 e 709-711, passim).
La chiesa era piena di popolo e lo officio divino cominciato, quan¬do ancora Giuliano de’ Medici non era in chiesa: onde che Francesco de’ Pazzi insieme con Bernardo, alla sua morte destinati, andorono alle sue case a trovarlo e con prieghi e con arte nella chiesa lo condussono. È cosa veramente degna di memoria che tanto odio, tanto pensiero di tanto eccesso si potes¬se con tanto cuore e tanta ostinazione d’animo da Francesco e da Bernardo ricoprire; perché, conduttolo nel tempio, e per la chiesa con motteggi e giovinili ragionamenti lo intrattennono. Né mancò Francesco, sotto colore di carezzarlo, con le mani e con le braccia strignerlo, per vedere se lo trovava o di corazza o d’altra simile difesa munito.
Sapevano Giulia¬no e Lorenzo lo acerbo animo de Pazzi contra di loro, e come eglino desideravono di tòrre loro l’autorità dello stato; ma non temevono già della vita, come quelli che credevano che, quando pure eglino avessero a tentare cosa alcuna, civil¬mente e non con tanta violenza l’avessero a fare; e perciò anche loro, non avendo cura alla propria salute, di essere loro amici simulavano.
Sendo adunque preparati gli ucciditori, quel¬li accanto a Lorenzo dove, per la moltitudine che nel tempio era, facilmente e sanza sospetto potevono stare, e quegli altri con Giuliano, venne l’ora destinata: e Bernardo Bandini con una arme corta a quello effetto apparecchiata passò il petto a Giuliano, il quale dopo pochi passi cadde in terra; sopra il quale Francesco de’ Pazzi gittatosi lo empié di ferite, e con tanto studio lo percosse, che, obcecato da quel furore che lo portava, se medesimo in una gamba gravemente offese.
Messer Antonio e Stefano dall’altra parte assalirono Lorenzo, e menatogli più colpi, d’una leggieri ferita nella gola lo percossono:¬ perché o la loro negligenzia o lo animo di Lorenzo, che vedutosi assalire con l’arme sua si difese, o lo aiuto di chi era seco, fece vano ogni sforzo di costoro. Tale che quegli sbigottiti si fuggirono e si nascosono; ma di poi ritrovati furono vituperosamente morti e per tutta la città strascinati. Lorenzo dall’altra parte, ristrettosi con quegli amici che gli aveva intorno, nel sacrario del tempio si rinchiuse.
Bernardo Bandini, morto che vide Giuliano, ammazzò ancora Francesco Nori a’ Medici amicissimo, o perché lo odiasse per antico o perché Francesco di aiutare Giuliano s’ingegnasse. E non contento a questi duoi omicidii, corse per trovare Lorenzo e supplire con lo animo e prestezza sua a quello che gli altri per la tardità e debilezza loro avevono mancato; ma trovatolo nel sacrario rifuggito, non potette farlo. Nel mezzo di questi gravi e tumultuosi accidenti, i quali furono tanti terribili che pareva che il tempio rovinasse, il cardinale si ristrinse allo altare, dove con fatica fu dai sacerdoti tanto salvato che la Signoria, cessato il romore, potette nel suo palagio condurlo: dove con grandissimo sospetto infino alla liberazione sua dimorò. […]
In questo mezzo tutta la città era in arme, e Lorenzo de’ Medici da molti armati accompagnato si era nelle sue case redutto. II Palagio dal popolo era stato ricuperato, e gli occupatori di quello tutti fra presi e morti. Già per tutta la città si gridava il nome de’ Medici, e le membra de’ morti, o sopra le punte delle armi fitte o per la città strascinate si vedevano; e ciascheduno con parole piene d’ira e con fatti pieni di crudeltà i Pazzi perseguiva. Già erano le loro case dal popolo occupate, e Francesco così ignudo fu di casa tratto, e al Palagio condotto, fu a canto all’arcivescovo e agli altri appiccato. Né fu possibile, per ingiuria che per il cammino o poi gli fusse fatta o detta, fargli parlare alcuna cosa, ma guardando altrui fiso, sanza dolersi altrimenti, tacito sospirava.
Guglielmo de’ Pazzi, di Lorenzo cognato, nelle case di quello e per la innocenza sua e per lo aiuto della Bianca sua moglie si salvò. Non fu cittadino che armato o disarmato non andasse alle case di Lorenzo in quella necessità, e ciascheduno sé e le sustanze sue gli offeriva: tanta la fortuna e la grazia che quella casa per la sua prudenza e liberalità si aveva acquistata.
Rinato de’ Pazzi si era, quando il caso seguì, nella sua villa ritirato; donde intendendo la cosa si volle travestito fuggire: nondimeno fu per il cammino cognosciuto e preso e a Firenze condotto. Fu ancora preso messer Iacopo nel passare l’alpi, perché, inteso da quegli alpigiani il caso seguito a Firenze e veduta la fuga di quello, fu da loro assalito e a Firenze menato: né potette, ancora che più volte ne gli pregasse, impetrare di essere da loro per il cammino ammazzato. Furono messer Jacopo e Rinato giudicati a morte dopo quattro giorni che il caso era seguito, e infra tante morti che in quelli giorni erano state fatte, che avevono piene di membra di uomini le vie, non ne fu con misericordia altra che questa di Rinato riguardata, per essere tenuto uomo savio e buono, né di quella superbia notato che gli altri di quella famiglia accusati erano.
E perché questo caso non mancasse di alcuno estraordinario esempio, fu messer Iacopo prima nella sepultura de’ suoi maggiori sepulto, di poi, di quivi come scomunicato tratto, fu lungo le mura della città sotterrato; e di quindi ancora cavato, per il capestro con il quale era stato morto, fu per tutta la città ignudo strascinato, e da poi che in terra non aveva trovato luogo alla sepultura sua, fu da quelli medesimi che strascinato l’avevono, nel fiume d’Arno che allora aveva le sue acque altissime gittato. Esempio veramente grandissimo di fortuna, vedere uno uomo da tante ricchezze e’ da sì felicissimo stato, in tanta infelicità, con tanta rovina e tale vilipendio cadere!
Narronsi de’ suoi alcuni vizi intra quali erano giochi e bestemmie più che a qualunche perduto uomo non si converrebbe, quali vizi con le molte elemosine ricompensava, perché a molti bisognosi e luoghi pii largamente suvveniva. Puossi ancora di quello dire bene, che il sabato davanti a quella domenica deputata a tanto omicidio, per non far partecipe dell’avversa sua fortuna alcuno altro, tutti i suoi debiti pagò e tutte le mercatanzie che gli aveva in dogana e in casa, le quali ad alcuno appartenessero, con maravigliosa sollecitudine a’ padroni di quelle consegnò. […]
Fermi tutti i tumulti e puniti i congiurati, si celebrarono le esequie di Giuliano, il quale fu con le lacrime da tutti i cittadini accompagnato, perché in quello era tanta liberalità e umanità quanta in alcuno altro in tale fortuna nato si potesse desiderare. Rimase di lui uno figliuolo naturale il quale, dopo a pochi mesi che fu morto, nacque e fu chiamato Giulio[1].
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[1] Il futuro papa Clemente VII.