Terza questione di geopolitica: il “cuore della terra” sul fronte orientale, ovvero l’ipotesi di Russasia
di Uber Serra e Giorgio Gattei
- Dal duello al “triello”.
A dar retta a diversi commentatori, all’ultimo incontro di Helsinki del 16 luglio 2018 Donald Trump avrebbe dovuto aggredire Vladimir Putin rinfacciandogli (almeno) l’occupazione della Crimea e l’intervento militare in Siria. Se così si fosse comportato, Trump avrebbe agito come l’ennesimo combattente “da guerra fredda” sopravvissuto alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Invece Trump non ha agito così, quasi consapevole (lui o i suoi spin doctors) che l’equilibrio geopolitico è ormai mutato e la vecchia logica della contrapposizione bipolare tra USA e URSS è superata. Le cose si sono fatte più complicate e la situazione va considerata in modo nuovo.
La logica della guerra fredda è stata quella di un duello in cui chi spara per primo vince. Tuttavia nella realtà di quella guerra nessuno dei due antagonisti ha potuto pensare di “buttare la bomba atomica” per primo perché la ritorsione immediata sarebbe stata devastante anche per lui, il che ha consentito, ad esempio, di chiudere per via di telefono (sic!) la pericolosissima crisi di Cuba del 1962. Eppure quel duello è finito, ma come mai? Solo perché l’Unione Sovietica si è fatta esplodere una bomba atomica tra i piedi (a Chernobyl, in Ucraina, nel 1985), dopo di che è stata per lei tutta una frana fino all’ammaina-bandiera rossa dal Cremlino nel 1991. Così il “nemico americano” è rimasto unico e vincitore, sebbene questo “dominio unipolare” sia durato ben poco se già nel 1999 a Mosca era arrivato un Vladimir Putin (ex KGB) intenzionato a riportare alla dignità militare un paese fin troppo umiliato dalla NATO, mentre nel 2001 Washington ha dovuto accettare l’ingresso di una Cina “rossa” nella Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) pur di avere un alleato in più nella “crociata” contro il fondamentalismo islamico attentatore alle Torri Gemelle di New York.
E così militari russi e mercanti cinesi hanno lentamente trasformato la logica del duello in quella di un triello tra USA, Russia e Cina, a fronte del quale valgono nulla un Medio Oriente dilaniato dall’odio religioso tra sunniti e sciiti ed una Unione Europea tuttora in formazione attorno a un euro che è una moneta “in comune” e niente affatto una moneta unica. Ora nella logica del “triello” il primo che spara muore perché il terzo lo uccide, a meno che tra due degli avversari non sia stato predisposto un qualche accordo che riporti alla logica del duello. Così le possibilità combinatorie risultano tre: Stati Uniti+Russia contro Cina oppure Stati Uniti+Cina contro Russia oppure ancora Russia+Cina contro Stati Uniti. Tuttavia queste combinazioni non sono fra loro tutte equivalenti se vi aggiungiamo la considerazione geopolitica genuina (di Halford Mackinder in Il perno geografico della storia, 1904) secondo la quale sul pianeta esiste un luogo privilegiato il cui governo è capace di consentire il dominio del mondo. E’ questo l’Heartland, ovvero il “cuore della terra”, coincidente (non per scelta politica, ma per collocazione geografica) con l’estensione euroasiatica della Russia, che però soffre della limitazione di essere rinchiuso dentro il continente non avendo alcuno sbocco sui mari caldi. Ecco perché la sua “vocazione geopolitica” non può essere se non quella di traboccare su una di quelle terre di confine che invece vi si affacciano, come l’Europa sull’Oceano Atlantico, i Balcani sul Mediterraneo, il Medio Oriente sull’Oceano Indiano o la Cina sull’Oceano Pacifico. Ma siccome al momento la Russia è impedita nella sua proiezione verso l’Europa e i Balcani dal “dispositivo NATO” (vedi la Prima questione) ed è coinvolta nel Medio Oriente in un groviglio islamico al momento irrisolubile (vedi la Seconda questione), non le resta, per espandersi verso un mare caldo, che volgersi verso est, e quindi verso la Cina e l’Oceano Pacifico. Ma questa prospettiva, se mai si realizzasse, darebbe origine ad una inedita Russasia tutta terrestre che potrebbe segnare la fine di quel dominio marittimo sul pianeta conservato dagli Stati Uniti dal 1945 fino ad oggi.
- La Cina e le inquietudini del dollaro.
Ma, sempre secondo la logica geopolitica autentica, nel caso di Russasia salirebbe al governo del mondo pure quella “terra di confine” che si è alleata al “cuore della terra”, ossia la Cina che, superata la crisi di regime del 1989 con la repressione brutale di piazza Tien an Men, rimane tuttora dichiaratamente comunista. E come mai? Perché, in cambio del mantenimento di quella connotazione politica, il governo di Pechino ha consentito al suo popolo di aprirsi ad un consumismo interno assicurato da uno sviluppo economico trainato, dopo l’ingresso nel WTO, dall’esportazione fuori dai confini di prodotti cinesi a prezzi stracciati per il basso costo della manodopera impiegata. E chi più ne ha approfittato (è proprio il caso di dire) è stata la grande distribuzione americana che li ha smerciati ai propri consumatori per accrescerne, senza bisogno di aumentarne i salari monetari, il potere d’ acquisto.
A conseguenza di queste importazioni negli Stati Uniti si è creato un deficit commerciale (Import > Export) nei confronti della Cina che nel 2017 ha toccato i 375 miliardi di dollari (“La Repubblica”, 26.7.2018). Ma come è stato pagato negli anni questo disavanzo? Naturalmente con dollari, che tuttavia sono stati restituiti agli Stati Uniti in cambio di titoli del loro debito pubblico per lucrarne gli interessi fino alla data del rimborso. Così la Cina, da esportatrice netta di merci, si è trasformata in paese creditore, mentre gli USA, importatori netti, sono diventati nei suoi confronti un paese debitore per un ammontare, nel novembre 2014, di 1250 miliardi di dollari (ma essi sono in debito anche verso il Giappone per 1241 miliardi ed altri paesi per un totale complessivo di 6112 miliardi). E questo rappresenta un elemento di fragilità per il paese debitore perché che cosa mai succederebbe se la Cina intendesse liberarsi del suo credito vendendolo anticipatamente sul mercato? Che, per evitare che il valore di quei titoli precipitasse, la Federal Reserve sarebbe costretta ad acquistarli in cambio di dollari, stampando ancor più moneta il cui valore necessariamente diminuirebbe. Ne seguirebbe una crisi di fiducia nel “biglietto verde” che potrebbe indurre anche altri paesi a vendere i titoli pubblici americani posseduti, nonché a non accettare più quei dollari svalutati negli scambi internazionali a favore di un’altra moneta mondiale più credibile, qualora ci fosse. Potrebbe essere lo yuan? Non al momento, come osservano gli economisti, perché manca alla Cina la condizione necessaria per imporre al mondo la sua moneta, e cioè un sistema finanziario così sofisticato da consentirle di gestire il passaggio da nazione creditrice a debitrice netta con il resto del mondo (cfr. F. Sisci, Pechino non è pronta a insidiare il dollaro, “Limes”, 2015, n. 2) e questo perché, come spiegato da M. De Cecco e F. Maronta in Il dollaro non teme rivali sullo stesso numero di “Limes”, «la centralità monetaria è pagata al prezzo di un alto deficit commerciale, a sua volta sostenuto (anche) da un indebitamento pubblico e privato reso possibile proprio da questo signoraggio».
Eppure la prospettiva di una “de-dollarizzazione” è sempre più incombente e siccome vale la regola keynesiana (formulata al tempo di quell’accordo di Bretton Woods che ha sancito il trapasso ufficiale, quale moneta mondiale, dalla sterlina al dollaro) per cui l’aggiustamento dei conti «è obbligatorio per il debitore e volontario per il creditore… perché, mentre le riserve di un paese non possono scendere sotto lo zero, non esiste un massimale che definisce un limite superiore» (cit. in B. Steil, La battaglia di Bretton Woods. J. Maynard Keynes, Harry D. White e la nascita di un nuovo ordine mondiale, Donzelli, Roma, 2015), spetta agli Stati Uniti attivarsi al più presto per ridimensionare i suoi conti con l’estero.
Risalendo alla causa dello scompenso finanziario, è il deficit commerciale, soprattutto nei confronti della Cina, che va ridimensionato. Ma come? Nel rispetto del libero scambio Barak Obama aveva provato, nel 2015, a minacciare sul piano militare, contestando la rivendicazione cinese di alcune isolette del Mar della Cina Meridionale (come le Spratly e le Paracelso) tra le quali passano ogni anno merci per più di 5000 miliardi di dollari. Ne è seguito un “braccio di ferro” navale ed aereo sempre a rischio d’incidente, ma senza che si sia mai arrivati ad un confronto militare diretto tra le due super-potenze perché entrambe armate di quelle bombe atomiche che impediscono il superamento dell’“ultimo miglio”.
- L’assalto alla Cina.
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca lo stile del confronto con la Cina si è fatto invece immediatamente economico. Non più tante prove muscolari militari, bensì piuttosto dazi diretti sulle merci cinesi importate negli Stati Uniti, così da renderne l’acquisto non più conveniente. Certamente Trump avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato svalutando il dollaro così da incentivare le esportazioni americane, ma non sarebbe stato rispettata la sua parola d’ordine di America first, compreso evidentemente anche il dollaro! Così a Davos, nel gennaio 2017, lo si è visto proclamarsi paladino di un “protezionismo prossimo venturo”, mentre il presidente cinese Xi Jinping, in un paradossale scambio delle parti, si è dichiarato strenuo difensore del libero commercio. Ora è del tutto evidente che per entrambi vale solo il proprio interesse economico, però Trump ha buoni motivi per accusare la Cina di approfittare della ”clausola di favore” (dazi più alti sulle proprie importazioni rispetto a quelli consentiti agli Stati Uniti) che le venne assegnata al momento del suo ingresso nel WTO in quanto “economia emergente”, ma che dopo 17 anni di sviluppo economico sfrenato fa un po’ ridere. Infatti per Trump il free trade è legittimo solo se è fair trade, ossia solo se è “equivalente”, e quello tra Cina e Stati Uniti non lo è più, se mai lo era stato.
Per questo vanno cambiate le regole del commercio e, se Pechino non intende abbassare i suoi dazi, sarà Washington ad aumentare i propri. E se sul momento nessuno lo aveva preso sul serio, Trump era invece così determinato da introdurre, all’inizio del 2018, dazi del 25% sulle importazioni d’acciaio e del 10% su quelle di alluminio. Giustificazione presidenziale: «quando un paese non produce più alluminio e acciaio non è quasi più un paese» (“La Repubblica”, 2.3.2018). Naturalmente la misura non vale solo per le importazioni dalla Cina, ma pure per quelle dall’Europa, dalla Germania soprattutto, e già che ci siamo perché non alzare dazi anche contro le automobili tedesche e giapponesi? Giustificazione presidenziale: «le automobili e i loro componenti sono cruciali per la nostra forza come nazione» (“La Repubblica”, 25.5.2018). Vengono così poste le premesse per una “guerra commerciale” con Pechino che, per ritorsione, elenca 5.207 prodotti made in USA da colpire con un dazio del 25%, mentre Bruxelles intenta presso il WTO un’azione legale sia contro gli Stati Uniti che contro la Cina per violazione degli accordi internazionali.
Ora sia chiaro che il protezionismo non è un disvalore a fronte del valore del free trade: è soltanto una particolare misura di politica commerciale che può essere utilizzata, se necessaria, in un particolare momento storico, come avvenne negli anni Trenta del Novecento (il caso è sempre citato perché sarebbe stato l’innesco della Seconda guerra mondiale) ma pure negli anni Ottanta dell’Ottocento (e questo caso è meno ricordato sebbene poi ne seguì la Belle Epoque). E se è pur vero, come dicono gli inglesi, che la qualità del budino si misura col mangiarlo, anche la svolta daziaria di Trump (accompagnata, non lo si dimentichi, nel dicembre 2017 da una riforma fiscale favorevole al ritorno dei capitali americani dall’estero) va giudicata dal suo risultato. Il quale ha portato i capitali internazionali, preoccupati dai diversi “rischi-paese” in giro per il mondo, a ritrovare il loro miglior approdo negli Stati Uniti, mentre da par suo la Federal Reserve li ha invitati rialzando il tasso di sconto (al momento i Treasury bonds pagano ormai più del 3% d’interesse). L’effetto è stato un PIL stimato per il 2018 al 4,2%, il miglior dato da quasi quattro anni, mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 4%, al minimo degli ultimi vent’anni (“La Repubblica”, 30.8.2018). Euforia presidenziale: «Siamo l’invidia economica del mondo. Finalmente l’America torna ad essere prima» (“La Repubblica”, 29.7.2018). Insomma, non è che il “delitto” di protezionismo sia pagante?
- La reazione di Pechino.
Però non si può dire che la Cina abbia atteso il blocco protezionistico trumpiano alle proprie merci in vendita oltremare per preoccuparsene, avendo cavalcato da tempo due direzioni “di protezione” distinte. La prima, la più istintiva, è stata quella (per usare una terminologia inconsueta introdotta da Michal Kalecki negli anni Trenta del secolo scorso) delle cosiddette esportazioni interne, ossia dei consumi nazionali sostenuti da una politica di progressiva crescita delle remunerazioni salariali. La seconda è stata invece quella delle esportazioni esterne ma terrestri approfittando della contiguità territoriale con la Russia siberiana. Si sa che la Siberia è quasi priva di popolazione, ma è facilmente percorribile per via ferroviaria fin dal tempo della mitica Transiberiana che da Mosca conduce a Vladivostok. E allora, piuttosto che la vecchia Via della Seta di Marco Polo che attualmente finisce nella instabilità medio-orientale, perché non aprirne una nuova – che si potrebbe anche chiamare la Via della Steppa – che congiunga Pechino a Mosca per via siberiana (cfr. A. Marcigliano, Lungo i corridoi dell’Eurasia, “il Borghese”, febbraio 2014)?
Al momento la Russia resta una economia monodimensionale centrata sull’esportazione di materie prime (gas e petrolio) in direzione europea, che però le sanzioni internazionali introdotte su sollecitazione americana per la secessione unilaterale della Crimea mettono in difficoltà. Così gli unici elementi di supremazia che le restano sono l’eccellenza relativa della sua industria bellica e l’attivismo militar-diplomatico manifestato di recente nel Medio Oriente. E’ per queste limitazioni che la Russia può essere particolarmente sensibile ad una collaborazione di scambi economici con la Cina: materie prime e armamenti da una parte contro manufatti industriali e di consumo dall’altra e da fatturarsi in rubli oppure in yuan, basta che non siano dollari! E’ pur vero che storicamente le relazioni politiche tra Mosca e Pechino sono sempre state problematiche a causa delle tensioni sul confine condiviso. Però nel tempo questa frontiera è diventata più porosa e nella parte russa si sono insediati stabilmente o stagionalmente una gran quantità di cinesi “siberiani” che stanno dando luogo ad una popolazione meticcia, in crescita numerica, che vive principalmente lavorando nelle aziende di trasformazione del legno, dell’estrazione dei minerali e del commercio frontaliero. Pur restando guardinghi, negli ultimi anni i russi si stanno orientando in direzione di un piano di reciproco vantaggio economico, come si è visto ad esempio nel caso della costruzione del grande ponte ferroviario sul fiume Amur, da inaugurarsi nel 2019, che consentirà l’integrazione dei trasporti nel cosiddetto Corridoio Economico Cina-Mongolia-Russia (CMREC) (cfr. F.W. Engdahl, Russia e Cina costruiscono una nuova geografia economica, “New Eastern Outlook”, 16.11. 2017). Ma ciò che più dovrebbe cementare la convergenza di interessi saranno le imminenti manovre militari russo-cinesi a Tsugol, dove si incontrano i confini tra Russia, Cina e Mongolia, che avranno, come annunciato nella dichiarazione ufficiale, «una dimensione di scala senza precedenti sia per estensione di territorio che per numero di truppe coinvolte» (cit. in L. Lago, Di fronte alle minacce degli Usa la Russia e la Cina uniscono le loro forze, controinformazione.info, 27.8.2018).
Più in generale, nel grande progetto cinese della Nuova Via della Seta (yi dai yi lu = one belt, one road) le relazioni economiche con la Russia darebbero luogo ad un nuovo modello di geopolitica funzionale rivolto a costruire moderne infrastrutture connettive multi-modali (dalle ferrovie alle pipe-lines, dalle dorsali informatiche alle strade) sull’intero territorio di “Russasia”. E con reciproco vantaggio perché la Russia, aggirando l’arretratezza economica in cui si trova, avrebbe la convenienza di ottenere sul proprio territorio siberiano infrastrutture moderne, mentre la Cina avrebbe l’accesso a nuovi mercati per i propri prodotti in cambio di quelli che le mancano (come le materie prime energetiche e pregiate di cui ha costante bisogno), mentre estenderebbe una sorta di propria sovranità allargata sulle infrastrutture finanziate, costruite e messe a disposizione dell’altro partecipante al progetto (cfr. P. Khanna, Connectography. Le mappe del futuro mondiale, 2016). E sarebbe allora un curioso destino quello del Celeste Impero, che oggi si trova protagonista di una nemesi storica: dopo aver costruito la Grande Muraglia per difendersi dai mongoli e dall’Orda d’Oro di Kublai Khan che pure lo dominò, oggi intenderebbe favorire la costituzione di una grande massa geografica continentale in cui sarebbe compreso, a mo’ di suo “nocciolo duro”, il “cuore della terra” – e chi governa il “cuore della terra” governa il mondo, come Mackinder dixit. Ma gli Stati Uniti starebbero a guardare?