Il ’68 a Bologna (1/2)
di Andrea Rapini
1. L’esordio (da gennaio 1967 a febbraio 1968) *
Sin dai primi mesi del 1967 è possibile cogliere a Bologna i lineamenti di un movimento di contestazione che tocca le principali facoltà universitarie, coinvolge le scuole medie superiori, ha ramificazioni all’interno del sindacato, nel Partito comunista e negli organismi rappresentativi studenteschi. Si tratta di un esordio fulmineo che mette in evidenza, sin dallo statu nascendi, la gran parte delle caratteristiche e dei nodi problematici che punteggeranno la storia del ’68 bolognese: la presenza del Pci attraverso la sua appendice universitaria ribelle (la Fgci, poi Sezione Universitaria Comunista), il rapporto con le fabbriche e il sindacato, la pratica dell’inchiesta, la centralità dell’assemblea.
Mercoledì 25 gennaio 1967 un gruppo di studenti occupa l’Istituto di Fisica “A. Righi” e da questo momento in poi i “fisici”, tra i quali molti fanno riferimento al Pci, costituiranno uno dei motori trainanti del movimento. Il giorno successivo, alle 21,30, un altro gruppo di studenti decide di bloccare l’inaugurazione dell’anno accademico rendendo inagibile per alcuni giorni l’aula magna di via Zamboni. E da qui parte il movimento studentesco. Come racconta Roberto Grandi:
verso la fine di gennaio… in una sessantina di studenti abbiamo occupato l’Aula Magna… ma fu una occupazione complessa e difficile perché bisognava salire con delle scale fin sopra, abbiamo fatto una ventina di metri arrampicandoci, siamo così scesi nell’aula magna e ci siamo rimasti tre giorni. L’aula magna era gelata e ci siamo riscaldati con gli ermellini dei vari docenti che erano all’interno dell’aula. Questo mi sembra, a parte le cose che si sono fatte a livello di Facoltà, un momento di rottura molto forte perché interrompeva il flusso delle continuità della vita accademica in un momento simbolicamente importante come l’inaugurazione dell’anno accademico, dove l’accademia si presentava con quelli che erano i propri simulacri di autorità e di potere.
Mentre altre facoltà si aggiungevano a Fisica e all’aula magna allargando la base della mobilitazione, il 31 gennaio entrano in lotta gli studenti medi degli istituti “Righi”, “Galvani”, “Aldini-Valeriani” e una rappresentanza del “Minghetti”, con una manifestazione in piazza Maggiore e un corteo in via Zamboni. Ai primi del mese di febbraio le facoltà occupate sono otto: Lettere e filosofia, Magistero, Giurisprudenza, Economia e commercio, Chimica e chimica industriale, Scienze politiche, Matematica, Fisica.
Tra gli argomenti del dissenso studentesco vi è l’opposizione ad un progetto di decentramento dell’amministrazione universitaria e comunale che prevede il trasferimento delle facoltà scientifiche ad Ozzano Emilia. Pietro Bellasi, allora giovane docente di Economia del lavoro a Scienze politiche, che stava conducendo una ricerca sull’argomento, ricorda bene le opzioni in campo:
io ero abbastanza contrario perché mi pareva che il campus fosse una sorta di campo di concentramento, di isolamento degli studenti dalla città. Andreatta invece era uno dei grandi propugnatori del campus. Diceva che bisognava che gli studenti si abituassero a fare i lavoratori, gli impiegati, per cui dovevano timbrare e stare tante ore dentro. Ma sul campus erano d’accordo anche un po’ tutti i tecnocrati bolognesi, di destra e di sinistra, mentre io e altri dicevamo di no, certo anche in modo molto ideologico: io lo vedevo come un fatto di pre-proletarizzazione. Quando alla fine del ’68 pubblicai i risultati della ricerca, era scoppiata la rivolta del ’68, tanto che il titolo fu Rivolta studentesca e campus universitari.
Dopo le prime azioni spontanee, è lo stesso organismo rappresentativo degli universitari bolognesi (Orub) a vacillare, scavalcato dalla prassi studentesca e diviso al suo interno tra favorevoli e contrari alla mobilitazione. In effetti fin dai primi mesi del 1967 le occupazioni delle facoltà eleggono, quasi automaticamente, l’assemblea quale esclusivo luogo decisionale, basato sulla partecipazione in prima persona e sulla democrazia diretta, con l’assemblea che spazza via il vecchio “parlamentino” universitario, ormai obsoleto rispetto alle accelerazioni imposte dal movimento. L’Unione Goliardica Italiana (Ugi, a prevalenza comunista) richiederà in un volantino la liquidazione dell’organismo rappresentativo ed “il passaggio di tutto il potere alle assemblee di facoltà che eleggono esecutivi con mandato revocabile”, minacciando di uscire immediatamente dall’Orub in caso contrario. Come ricorda Antonio Genovese,
in quegli anni c’è insoddisfazione del rapporto con l’università, del rapporto con l’istituzione e comincia anche a sentirsi l’esigenza di una forma di rappresentanza che oggi possiamo dire politica… Le forme precedenti, che erano i consigli studenteschi, avevano l’aria del parlamentino, erano espressione di partiti politici… Nel ’67, anche perché arriva all’università una leva nuova, comincia un po’ l’università di massa, comincia ad arrivare anche questa generazione un po’ più politicizzata dalla scuola media… Allora le cose cominciano a trasformarsi… Il consiglio cominciò ad andare stretto. Cosa comunichi? Noi diciamo una cosa, tu vai là e ne fai un’altra: non ci va mica bene! E allora cominciano le prime schermaglie e cominciò a saltare il meccanismo, per cui l’assemblea cominciò a darsi dei rappresentanti e questo coinvolse un sacco di gente.
L’atto definitivo che sancisce ufficialmente il decadimento dell’Orub è la decisione di assegnare all’assemblea la gestione dei fondi studenteschi prima destinati al “parlamentino” da parte del Senato accademico il 17 aprile 1968. Si tratta di un vero e proprio disconoscimento: in quel momento l’autorità dell’ateneo riconosce come formalmente il suo interlocutore sia ormai un altro: l’assemblea degli studenti. Tuttavia è dai primi mesi del ’67, con l’utilizzo dell’occupazione come pratica di contestazione, che l’assemblea si afferma quale luogo centrale e strategico della lotta studentesca, almeno sino alla fine del ’68.
Tutta questa prima fase del movimento si può definire spontaneista nella misura in cui la mobilitazione degli studenti non è governata da alcun soggetto politico precedentemente strutturato, ma, semmai, cresce e si indirizza proprio contro gli istituti rappresentativi universitari esistenti, scegliendo forme originali di auto-organizzazione. Ciononostante sarebbe scorretto proporre una netta contrapposizione tra spontaneità e movimento, da una parte, ed organizzazione e istituzione dall’altra: una organizzazione come la Fgci (poi, dal 1967, Sezione universitaria comunista) già prima della occupazione della facoltà di Fisica si è spesa per alimentare una contestazione dentro l’università, inoltre alcune minoranze dell’Ugi, appartenenti alla Sinistra socialista e comunista, contribuiscono dall’interno all’implosione delle associazioni para-partitiche. D’altro canto il movimento, una volta sorto, deve pur darsi necessariamente uno scheletro di organizzazione al fine del coordinamento della lotta studentesca, seppure nella forma movimentistica. In questo senso i gruppi di studio, le commissioni, i collettivi, le assemblee di facoltà e l’assemblea di ateneo non sono che le varie articolazioni dell’architettura organizzativa su cui si regge il movimento.
Il 16 febbraio il movimento ottiene un risultato di indubbia rilevanza: il Senato accademico, sulla scorta della larga mobilitazione studentesca che si fonde con quella degli assistenti universitari (Unau) e dei professori incaricati (Anpui), concede in ogni facoltà i comitati consultivi, che sono commissioni paritetiche di quindici membri formate da docenti e studenti con poteri soltanto consultivi. Non è il massimo, ma è pur sempre lo strumento più avanzato di lotta in grado di garantire un canale diretto di comunicazione con il potere accademico. Da questo tornante il movimento esce rafforzato, poiché acquista fiducia in se stesso e nelle forme di lotta intraprese. Così in primavera si moltiplicano le occasioni di conflitto, le assemblee, le occupazioni, i cortei, le manifestazioni. In questa prima fase le motivazioni delle lotte studentesche si intrecciano e si accavallano, diventano patrimonio e piattaforma comune di lotta nelle varie facoltà occupate, a partire dal rifiuto del piano di riforma del ministro Gui e dalla richiesta di istituire seminari con cui costruire un rapporto più diretto tra professori e studenti, e poi la creazione di Dipartimenti disciplinari all’interno delle singole facoltà, l’opposizione all’accumulo degli insegnamenti da parte dei docenti, lo sdoppiamento dei corsi fondamentali troppo affollati, la legittimazione del ruolo propositivo dell’assemblea, la pubblicità dei bilanci, la documentazione della ricerca, il rispetto reale del diritto allo studio, la richiesta di ampliamento delle strutture. In ogni caso si tratta di rivendicazioni tutte interne all’università, vale a dire che gli studenti individuano come controparte il rettore (al limite, il Ministro dell’Istruzione) per migliorare aspetti della vita e della gestione dell’istituzione universitaria.
Nella tarda primavera cominciano però a circolare i primi tentativi di inquadrare la riflessione sull’università entro una visione sintetica dell’intera società, che ponga il problema del nesso tra sapere e potere, formazione e classi sociali, cultura e politica. La spinta verso questo diverso piano di ragionamento proviene, in primo luogo, da quelle avanguardie, già politicizzate negli anni precedenti e con esperienza di milizia entro i partiti della Sinistra, come Francesco Garibaldo, Franco Berardi, Antonio Genovese, Roberto Grandi, Massimo Serafini, Claudio Sabattini; in secondo luogo, da alcune figure intellettuali, come Gianni Scalia, Federico Stame, Roberto Roversi, Pietro Bonfiglioli, Vittorio Boarini, che godono di un significativo credito presso gli studenti più consapevoli.
In questo senso un ruolo di primo piano deve essere assegnato al Centro marxista che nasce ad aprile 1967 come circolo politico-culturale con sede in via del Pratello ad opera di dissidenti del Psiup e de Pci. Sebbene il Centro sia dislocato all’esterno dell’università, al suo interno si formano molti di coloro che animano il movimento e che per questo trasferiscono idee da un luogo all’altro, assicurando così una trasmissione dei saperi per via indiretta (come ad esempio il marxismo eterodosso di Gianni Scalia e l’antimperialismo di Federico Stame, che traghettano le tematiche della rivista bolognese “Classe e Stato” nella contestazione). Ricorda Massimo Serafini:
fondiamo il Centro marxista a cui aderiscono molti giovani studenti. Non ci si limita ad organizzare dibattiti, ma il gruppo si impegna anche a costruire la mobilitazione a favore del Vietnam e dei fenomeni di guerriglia in America Latina. Insomma in quegli anni cresce a sinistra, e spesso al di fuori del Pci, un gruppo di quadri che sarà fra i protagonisti del ’68 bolognese.
Continua Antonio Genovese:
i quadri politici che hanno poi gestito il ’68 sono stati quelli che si sono formati lì, insomma che erano partiti prima su una spinta generica, poi hanno trovato qualche gruppo, qualche persona di riferimento e sono confluiti nel movimento. Io vedo il Centro marxista come una fase di passaggio che è stata utile perché ha messo in contatto generazioni diverse… Poi dopo, quando nacque il movimento, il Centro crollò immediatamente perché ognuno di noi si ricollocò nelle facoltà.
Un ruolo importante nella crescita teorico-politica del movimento è stato svolto anche dalla Sezione universitaria comunista (Suc), che fu una anomalia sia rispetto all’orientamento politico nazionale del Pci, sia rispetto a quello della Fgci. Francesco Garibaldo, tra i fondatori e i principali dirigenti della Suc, osserva, riferendosi agli anni che precedono l’esplosione del movimento:
Non ero d’accordo con la svolta che la Fgci prese e quindi mi rimisi a studiare… facendo contemporaneamente il capo dell’opposizione interna in questa svolta qui a Bologna… C’era una valutazione molto diversa sul processo di trasformazione in corso nella società italiana e lo scontro fu fatto con Petruccioli… Contrariamente a quello che dicevano i sociologi, non era vero che si andava verso un momento di stabilizzazione; noi pensavamo invece che si stesse andando verso un momento di rottura degli equilibri. Tant’è che assieme a Sabattini e La Forgia decidemmo di costituire un nucleo di intellettuali, che chiamammo allora Circolo universitario comunista, che ha dato origine alla Sezione universitaria… Poi si arrivò al precipizio quando Petruccioli, sbagliando completamente analisi di quello che stava accadendo, considerò che il movimento sarebbe finito in niente; noi pensavamo che invece quello era esattamente la conferma in qualche misura della nostra impostazione… e ci buttammo a corpo morto nel movimento.
La Suc nasce nel dicembre del 1967 e può essere considerata, caso forse unico in Italia, come una componente interna al movimento studentesco con un forte radicamento nella facoltà di Fisica e la capacità, in taluni casi, di esercitare egemonia politica sull’intero fronte della contestazione. La singolarità della Suc sta nel fatto che gli universitari del Pci da una parte sono militanti di lungo corso e all’altro che, sul piano culturale, condividono ben poco della formazione storicistica predominante all’interno del partito. Essi, infatti, privilegiano, come i loro coetanei non iscritti, tutti i filoni minoritari, ed in qualche misura eretici, del marxismo: il Gramsci consiliare, Trotzky, il Marx meno noto dei Grundrisse (tradotti in italiano soltanto nel 1968, ma già in circolazione almeno per il Frammento sulle macchine pubblicato nel 1964 sui “Quaderni rossi”), il maoismo in forma non dogmatica e ingessata, e soprattutto Rosa Luxemburg. E’ l’opzione luxemburghiana ad assumere un’importanza decisiva nella comprensione di questa “anomalia bolognese” per la sensibilità alla tematica libertaria, spontaneista, anti-autoritaria, anti-burocratica e, in questo senso, anti-leninista, e a spingere la sezione comunista al riconoscimento pieno del movimento intervenendo al suo interno come una componente tra le altre. Ricorda Claudio Sabattini:
la scelta fu quella di entrare dentro al movimento e da qui la nostra ambiguità non nel movimento, ma rispetto al Pci, perché eravamo pur sempre una sezione del Pci. Credo che Fanti e Galletti facessero la scelta che era meglio avere dentro al movimento dei comunisti di sinistra che non rompono le regole interne al Pci, ma che hanno questa grande influenza nel movimento.
La Suc, in virtù del proprio profilo politico “eccentrico” rispetto alla direzione della Fgci, riesce nella difficile impresa di non restare schiacciata tra il movimento e il partito che guida l’amministrazione comunale e che, per questo, si presenta come una delle controparti istituzionali agli occhi degli studenti. Beninteso, i momenti di frizione sono molti sia con l’assemblea degli studenti, che facilmente scaglia l’accusa di subalternità nei confronti dell’amministrazione municipale e di revisionismo, sia con il partito che, specularmente, taccia gli universitari di estremismo. Tuttavia l’intelligenza politica dei dirigenti della Suc permette di governare i conflitti con equilibrio, senza provocare rotture insanabili su entrambe le sponde (almeno fino al 1969: con l’esaurimento del movimento e il sorgere dei gruppi extra-parlamentari tutto sarà completamente diverso).
2. La radicalizzazione (da febbraio a maggio 1968)
Soltanto tra febbraio e marzo 1968 il movimento studentesco, nelle sue varie articolazioni, matura il passaggio dalla critica dell’università alla critica della società, realizzando una piccola “rivoluzione copernicana” che muta nel profondo la prospettiva politica, la prassi, le proposte e, progressivamente, lo spazio della contestazione. Nel corso delle occupazioni, gli studenti approdano alla convinzione che il sistema formativo superiore e universitario non può essere considerato autonomo rispetto al contesto sociale, ma va messo in stretta correlazione con esso, di cui costituisce una appendice essenziale.
Prima del miracolo economico, osservano gli studenti, l’università serviva a garantire la produzione della classe dirigente, che sarebbe andata ad inserirsi nei punti nevralgici della società. Il processo avveniva su basi seccamente classiste, nella misura in cui l’accademia contribuiva alla riproduzione delle classi che già erano dominanti nella società. Ma con la diffusione del fordismo e l’affermazione progressiva della “università di massa”, gli atenei, oltre a svolgere la tradizionale funzione di classe, sfornano anche e soprattutto una moltitudine di laureati da inserire come quadri o tecnici in processi lavorativi che, in virtù delle profonde trasformazioni subite, necessitano sempre più di “forza-lavoro intellettuale” per coordinare, nei vari settori, l’attività produttiva. Ed è all’interno dell’università che si realizza la formazione di questa forza-lavoro intellettuale, che non gode più dei privilegi socio-economici dei laureati di un tempo, ma al contrario è proletarizzata e salariata, più vicina dunque al lavoro materiale degli operai. Queste elaborazioni teoriche recuperano fermenti di idee che travalicano i confini nazionali: come non menzionare Le tesi della Sapienza, un documento tra i più originali che condivide suggestioni culturali del Marx dei Grundrisse e le tematiche della Scuola di Francoforte? Una parte delle Tesi sarà pubblicata dalla rivista bolognese “Il Mulino” che, pur condannandone l’estremismo, ne apprezza il potenziale contributo ad una riforma dell’università.
Sulla scorta del passaggio teorico-politico delineato, ciascuna facoltà si impegna nella decostruzione delle discipline che vengono trasferite ai discenti nei singoli corsi di laurea: Medicina, Ingegneria, Giurisprudenza, Lettere. Ne deriva una critica spietata dei saperi, e poi delle professioni che su di essi si basano, in ragione del ruolo politico assegnato loro dal fine della produzione controllata delle gerarchie sociali. Ma ben si comprende che, una volta realizzata la compenetrazione tra università e società, sapere e potere, non è più possibile per il movimento incidere in profondità sul funzionamento delle facoltà senza intervenire direttamente sulla dinamica della produzione capitalistica, su cui la formazione universitaria si plasma. Da qui, in conclusione, il postulato degli studenti che “per cambiare questa università occorre cambiare questa società”. Tiziano Loreti chiarisce così il “salto teorico” in questione:
ora non metti più in discussione solo la scuola. Cioè, prima il rapporto era: io sono uno studente, ho dei problemi con la scuola, voglio maggiore democrazia. Adesso il ragionamento è: la scuola sta nella società, la società opprime, fa diversificazioni, ci sono i ricchi, ci sono i poveri. Tu ti opponi alla società e tenti ovviamente di cambiarla radicalmente… Quindi a questo punto è chiaro che il movimento si pone il cambiamento radicale della società.
Al processo di radicalizzazione del movimento non è però estranea anche la ricaduta di alcuni eventi internazionali che precipitano nei mesi in questione: dalla “offensiva del Tet” (il capodanno buddista) in Vietnam al “maggio rosso” di Parigi. In effetti l’internazionalismo o, forse una sorta di soggettività globale, che implica un salto di qualità rispetto alla parola d’ordine storica del movimento operaio e prelude il dispiegamento della globalizzazione, costituisce una sorta di tratto antropologico della generazione del ’68. Si tratta di una soggettività che sembra dar corpo alla sollecitazione di Ernesto Che Guevara che nel 1965 incoraggiava i giovani a “sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”. Per alcuni segmenti della prima generazione post-atomica, infatti, un ruolo di primo piano ha la lotta dei Vietcong contro l’imperialismo americano, la “rivolta contro il quartier generale” delle guardie rosse del presidente Mao, il Black Power, la morte del “comandante Che Guevara”, la strage di Piazza delle Tre culture a Città del Messico e, per finire, le suggestioni evocate dall’“uomo con la roncola” di Frantz Fanon, simbolo di tutti i diseredati del Terzo Mondo che Marcuse, da un canto, e Lin Piao, dall’altro, incitano all’“accerchiamento delle città”. Cosicché si ha quasi l’impressione che nella mappa mentale degli studenti i confini geopolitici eretti dall’esito della seconda guerra mondiale siano ridefiniti, soverchiati da un immaginario inedito che salda insieme i problemi del microcosmo della cittadella universitaria bolognese a quelli del macrocosmo planetario senza soluzione di continuità. Succede così, come ricorda Marcello Dall’Aglio, che “nei volantini, nei discorsi, nelle assemblee si partiva sempre parlando del Vietnam, di Mao, di Fidel Castro per arrivare poi ai problemi dell’Itis”.
Il 14 febbraio viene occupata l’aula didattica di Fisica ed il 22 vi si tiene una grande assemblea sul Vietnam, che resta al centro dell’attenzione per diverso tempo. Il 27 marzo sfila per la città una nutrita manifestazione a sostegno del popolo vietnamita con la partecipazione anche di studenti e docenti dell’università americana J. Hopkins. Bruno Giorgini, allora studente di fisica, ricorda:
il Vietnam era l’elemento scatenante… Facemmo addirittura un progetto per un politecnico da costruirsi ad Hanoi, una iniziativa promossa da Science for Vietnam. Preparammo tutto il progetto e anche un piano di studio adatto alla situazione vietnamita per preparare buoni tecnici in poco temo, gli spedimmo anche gli strumenti di laboratorio attraverso una delegazione che li consegnò a Ho Chi Minh, che era un po’ lo zio di tutti noi.
A fine marzo il movimento studentesco respinge la proposta del Senato accademico di costituire commissioni paritetiche in ogni facoltà, che era stata avanzata nel febbraio dell’anno precedente ed era stata raccolta solo parzialmente dagli studenti, mentre le occupazioni toccano otto facoltà (Fisica, Magistero, Lettere, Scienze politiche, Medicina, Giurisprudenza, Chimica, Ingegneria) e si estendono anche ad alcuni istituti superiori (Fermi, Righi, Aldini-Valeriani). Tuttavia, questa volta il movimento si muove in una prospettiva sensibilmente diversa dal 1967 e la misura dello scarto è data dal rifiuto netto di ogni ipotesi di cogestione. Le assemblee si disinteressano della distribuzione del potere dato, puntano ormai alla costruzione di un ordine nuovo. Secondo l’Assemblea occupante di Scienze politiche:
gli studenti oppongono… il potere studentesco inteso, negativamente, come rifiuto ad ogni ipotesi cogestionale e partecipazionistica entro le strutture attuali e, positivamente, come organizzazione delle masse studentesche su una linea alternativa alle strutture date… ponendo al centro della sua tematica il problema del potere: di quello attuale da spezzare e di quello alternativo da costruire.
Il 17 aprile la contestazione bolognese ottiene un risultato che legittima il potere rappresentativo e decisionale dell’assemblea, sancendone il riconoscimento politico. Il Senato accademico concede “tre punti”: la sospensione della didattica per un giorno alla settimana per i lavori del movimento; un’aula libera tutti i giorni per ogni facoltà; la gestione dei fondi versati dagli studenti stessi che prima erano destinati all’Orub. La reazione del movimento nel complesso è fredda, pur con sfumature diverse. C’è persino chi rifiuta la concessione del Senato accademico nella convinzione che si tratti di un cedimento riformistico che rischierebbe di “ingabbiare la spinta delle masse studentesche”.
Ma intanto, a maggio, è esplosa a Parigi la maggior contestazione del ’68: il 10 e l’11 maggio si tocca l’apice degli scontri tra polizia e studenti nel Quartiere latino, poi il 30 maggio truppe militari circondano Parigi, mentre la Francia gollista scende in piazza a sostegno del presidente De Gaulle. E’ questo l’evento che più di tutti, con la sua dirompente carica iconoclasta, incide prepotentemente sulla percezione soggettiva della contestazione. La sensazione di una accelerazione tumultuosa degli avvenimenti, congiunta ad un inasprimento del conflitto su scala mondiale, costituisce uno dei vettori della radicalizzazione studentesca. Osserva Claudio Sabattini:
il ’68 francese dà una spinta al movimento… C’è nel ’68 il passaggio da una linea di contestazione al potere, che poteva sfociare anche nella partecipazione e nella cogestione, ad una linea di radicale e pura contestazione… Il maggio francese è stato un tentativo di vedere il mondo in un altro modo.
Adesso anche a Bologna è il movimento a contaminare con la sua protesta l’intera società, fungendo da formidabile detonatore per un possibile e imminente “mondo nuovo”.
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* Per i riferimenti bibliografici e archivistici si rinvia a Andrea Rapini, “Per una storia del movimento studentesco: il caso bolognese”, Annali dell’Istituto Gramsci Emilia-Romagna, vol. 2/3, 2000, pp. 153-179.