L’imperatore Giuliano muore in battaglia – da Ammiano Marcellino, Le storie
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Ammiano Marcellino nacque ad Antiochia intorno all’anno 335 e morì verso il 400 in luogo non noto. Servì nell’esercito romano e partecipò, fra l’altro, alla battaglia contro i Parti nella quale fu ferito a morte l’imperatore Giuliano. Ritiratosi a vita privata si stabilì a Roma, dove scrisse – in latino, lui greco – Rerum gestarum libri, l’opera storica che gli diede la fama e che in parte ci è pervenuta. La trattazione infatti iniziava con il principato di Nerva e comprendeva XXXI libri, di cui restano solo i libri XIV-XXXI, quelli cioè più legati al suo tempo e quindi più ricopiati. Di sé quale storico, egli stesso scrive nelle ultime righe dell’opera: Ho esposto questi avvenimenti […] nei limiti delle mie forze come può farlo un vecchio soldato e un Greco / “ut miles quondam et Graecus”.
L’imperatore Giuliano, nel suo secondo anno di principato, marcia con l’esercito romano contro i Persiani. È l’anno 363: c’è anche Ammiano, quindi testimone oculare. […] Mentre i fianchi erano efficacemente protetti e l’esercito, come esigeva la natura del terreno, avanzava in formazioni quadrate, ma non compatte, fu annunciato all’imperatore, il quale ancora disarmato si era spinto innanzi per esplorare, che la retroguardia era stata improvvisamente attaccata alle spalle. Fuor di sé per la notizia infausta, dimenticò la lorica e, afferrato nella confusione uno scudo, si affrettava a portare aiuto alla retroguardia, ma fu distolto da un’altra preoccupazione, poiché gli veniva annunciato che anche i soldati della prima linea, dai quali si era allontanato, stavano subendo un eguale attacco. Mentre dimentico di sé stesso e del pericolo che correva, si affrettava a porre riparo a queste minacce, da un’altra parte uno squadrone di corazzieri persiani attaccò le centurie del centro. Gettatisi con impeto sopra il lato sinistro che già aveva ceduto, poiché i nostri non sopportavano il fetore e il barrito degli elefanti, i Persiani combattevano con lance ed un gran numero di dardi. Ma, mentre l’imperatore correva dove il pericolo della battaglia era più grave, balzarono fuori i nostri fanti armati alla leggera e colpirono ai garretti ed alle spalle i Persiani messi in fuga e così pure le fiere.
Quando Giuliano, incurante se stesso, con grida ed alzando le mani cercò di indicare chiaramente che i nemici trepidanti s’erano dispersi in fuga, e, eccitando l’ira di quanti li inseguivano, si gettò audacemente nella mischia, da tutte le parti gli gridavano le guardie del corpo, disperse dal terrore, che evitasse la massa dei soldati in fuga come il crollo di un tetto mal costruito. Ma improvvisamente non si sa donde pervenisse (1), una lancia della cavalleria gli sfiorò il braccio ed attraverso le costole gli si conficcò fra i lobi più bassi del fegato. Mentre tentava di estrarla con la destra, s’accorse che i nervi delle dita erano stati recisi dal ferro aguzzo da entrambe le parti. Cadde da cavallo e, soccorso immediatamente dai presenti, fu riportato nell’accampamento dove fu sottoposto alle cure dei medici. Poco dopo, diminuito alquanto il dolore, cessò di temere e, lottando con grande coraggio contro la morte, chiedeva le armi e il cavallo per ridare fiducia alle truppe con il suo ritorno in battaglia e per mostrarsi non ansioso per la propria sorte, ma profondamente preoccupato per la salvezza altrui. […] Ma poiché la volontà non era sorretta dalle forze e d’altronde egli soffriva per la perdita del sangue, rimase immobile dopo aver perduto la speranza di sopravvivere, dato che, informatosi, aveva appreso che il luogo, dove era caduto, si chiamava Frigia. Infatti aveva saputo che in questo luogo egli sarebbe morto per volontà del destino.
Ma è incredibile con quanto ardore, dopo che l’imperatore fu portato nella tenda, i soldati di slanciassero a vendicarlo fuori di sé per l’ira e il dolore, battendo le lance sugli scudi e decisi anche a morire se questa fosse la volontà della sorte. Sebbene una densa polvere offuscasse loro la vista ed il calore torrido togliesse vigore alle membra, tuttavia, come se fossero congedati in seguito alla perdita del comandante, si gettavano contro le armi nemiche senza riguardo per la propria vita. D’altra parte i Persiani con maggior coraggio toglievano agli avversari per mezzo di una pioggia di dardi la possibilità di vederli, mentre gli elefanti, che li precedevano lentamente, incutevano terrore ai cavalli e agli uomini con la grandezza dei loro corpi e con le orrende creste. Pertanto si udiva anche a distanza lo scontrarsi dei guerrieri e il gemito di quanti cadevano, il nitrire dei cavalli ed il tintinnio del ferro, finché, essendo tutte e due le parti stanche e sazie di ferite, la notte ormai profonda separò i contendenti. Caddero in quella battaglia cinquanta nobili e satrapi persiani assieme ad un grandissimo numero di soldati semplici […]. Tuttavia la tristezza offuscava la gioia per il successo. […]
Nel frattempo Giuliano, che giaceva nella tenda, parlò a quanti gli stavano attorno abbattuti e tristi: << È arrivato amici il momento assai opportuno di uscire di vita. Giunto il momento di restituirla alla natura che la richiede, come un debitore leale mi rallegro e non mi rattrista né mi dolgo (come alcuni pensano), poiché ben so, per opinione unanime dei filosofi, quanto l’anima sia più felice del corpo e penso che, ogniqualvolta una condizione migliore venga separata da quella peggiore, dobbiamo rallegrarci, non dolerci. Penso pure che anche i celesti diedero la morte ad alcune persone piissime come massimo compenso. Ma io so che mi è stato dato il dono della vita perché non soccombessi di fronte a gravi difficoltà, né mai mi umiliassi né piegassi, dato che sono ben conscio che tutti i dolori, se da un lato hanno il sopravvento sugli ignavi, cedono di fronte a quanti resistono loro. Né io mi pento di quanto fatto, né mi sfiora il ricordo di qualche delitto; sia nel periodo in cui ero costretto all’oscurità e alla miseria, che dopo essere stato assunto l’impero, ho conservato pura la mia anima (almeno così ritengo) che penso tragga origine dagli dei immortali ai quali è affine. […] Me ne vado lieto poiché sono consapevole che, ogni qualvolta lo stato, come un padre imperioso, mi ha esposto direttamente ai pericoli, io sono stato ben saldo, avvezzo com’ero a calpestare i turbine della sorte. Né mi vergognerò d’ammettere che da tempo sapevo, in séguito a una profezia sicura, che io sarei perito di ferro. Perciò adoro la divinità eterna, perché non muoio in seguito ad insidie nascoste, né dopo una lunga e dolorosa malattia, né condannato come un criminale, ma perché ho meritato questa splendida fine a mezzo il corso della mia fiorente gloria. Infatti è giustamente considerato pauroso ed ignavo chi desidera la morte quando non è necessaria come chi la evita quando è opportuna. Mi basta d’aver detto questo. Ora le forze mi vengono meno. Riguardo all’elezione del mio successore, cautamente taccio, per non omettere imprudentemente qualcuno che sia degno o per non esporlo all’estremo pericolo nominando chi ritengo adatto a questo compito, se per caso un altro divenisse preferito. Ma, come un onesto figlio dello stato, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore.>>
Dopo aver pronunciato serenamente queste parole, distribuì, come con un ultimo decreto, agli amici più intimi il suo patrimonio familiare e chiese di Anatolio, capo della cancelleria. Poiché Sallustio gli rispose che era stato felice, ne comprese la fine e pianse vivamente la morte dell’amico, proprio lui che con animo nobile aveva disprezzato la propria. Nel frattempo tutti i presenti piangevano, ma Giuliano, che conservava ancora tutta la sua autorità, li rimproverava affermando che era da vili piangere un sovrano che si stava ricongiungendo al cielo e alle stelle. Essi perciò tacquero ed egli disputò profondamente con i filosofi Massimo e Prisco sulla nobiltà dell’animo. Ma, essendosi troppo aperta la ferita al fianco dove era stato colpito ed impedendogli l’infiammazione del sangue di respirare, dopo aver bevuto dell’acqua fredda, spirò serenamente nel cuore della notte all’età di 32 anni. […] Uomo certamente degno di essere annoverato fra i geni eroici, ammirabile per le illustri imprese e per l’innata maestà.
(1) Libanio, Orationes, XXIV, 6 invece dice che era stato ucciso da un soldato ausiliario dei Taieni che eseguì l’ordine datogli da chi aveva l’interesse che Giuliano fosse ucciso.