Le cronache del nostro scontento. 2014: Il “fenomeno Renzi” mentre arriva la deflazione (ma tra i due fatti non c’è relazione)
di Giorgio Gattei
1. Come narrato nella Cronaca precedente, alla fine del 2013 il governo Letta compie il “miracolo” di conquistare una crescita zero e c’è chi ne gioisce perché l’ISTAT, nel confermare i dati a marzo 2014, potrebbe anche metterci «un segno più di fronte al numero del PIL. Il dato positivo non si riferirà a un anno intero, ma solo a un trimestre. E il numero non sarà elevato, ma non dopo una contrazione dell’economia simile a quella prodotta dalla prima guerra mondiale» (“La Repubblica”, d’ora in poi: R., 3.2.2014). Il fatto sarebbe significativo dopo la disastrosa stagione del governo Monti. Però c’è chi si muove per rimuovere Letta, anche perché un altro in pole position è pronto a prendergli il posto.
Si tratta di Matteo Renzi, che scalpita fin da quando nel settembre 2012 aveva sfidato nelle primarie del PD il padrone della “ditta” Pier Luigi Bersani. Allora aveva perso, ma nel 2013 ci riprova e questa volta stravince a mani basse (il “popolo piddino” è abituato a fare sorprese). Lo statuto del PD dice che il suo segretario deve essere il candidato premier alle successive elezioni politiche, ma quelle elezioni non sono alle viste eppure Renzi ha fretta di andare al governo. Così muove all’attacco di Letta e sabato 22 febbraio 2014 ce la fa a salire al Quirinale a giurare da nuovo Presidente del Consiglio nelle mani dell’intramontabile “re Giorgio”. Ma come ha fatto? Per Marco Damilano (La repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi, Milano, 2015) «l’outsider arriva al potere non con un voto popolare, ma con una manovra di palazzo: un tradimento, il brutale assassinio politico del capo del governo Enrico Letta, appena rassicurato. Dal tweet con l’hastag #enricostaisereno alla defenestrazione del premier non passa neppure un mese. Renzi va a comunicare all’inquilino di palazzo Chigi che il giorno dopo sarà sfiduciato dal suo partito, il PD, senza neppure un passaggio parlamentare, l’onore delle armi, la possibilità di difendere il suo operato in una sede istituzionale». Come ad una domestica, gli dà il benservito e buonasera.
Più in dettaglio la vicenda è raccontata da Davide Vecchi (Matteo Renzi, Il prezzo del potere, Milano, 2016). Per il delitto (politico naturalmente) servono due passaggi distinti: il primo è quello di convincere Napolitano, strenuo sostenitore per un anno intero di Enrico Letta, ad abbandonarlo; il secondo è di scansare il passaggio delle elezioni politiche, per le quali Renzi non si sente pronto. Così, con pazienza, intesse la sua trama. Dapprima rassicura Letta che non ha alcuna intenzione di sostituirlo, comunicando il 5 gennaio che «non faccio le scarpe a Letta, mi ricandido sindaco [di Firenze]» (ma in una comunicazione privata intercettata già dice che quello là «non è cattivo, non è proprio capace»). Nel frattempo intreccia quella “relazione pericolosa” con Silvio Berlusconi che darà vita al “patto del Nazareno”, sponsorizzato da Denis Verdini, che gli assicura una maggioranza parlamentare a priori. Dopo di che il 10 febbraio sale al Colle: «il capo dello Stato gli chiede cosa abbia intenzione di fare, cosa voglia, Lui lo dice. A modo suo. Napolitano ascolta e lo congeda. Il giorno successivo, l’11 febbraio, riceve Letta» che invece scarica. “Re Giorgio” si è convinto che «occorreva dare il benservito a Enrico Letta senza passare né da una crisi formale né tantomeno dalle elezioni, imponendo per la terza volta un premier non eletto» (L. Bisignani e P. Madron, I potenti al tempo di Renzi, Milano, 2015).
Adesso però bisogna far cadere il governo. E come si fa? Lo si fa sfiduciare in Parlamento dal suo stesso partito di maggioranza. Il 13 febbraio Renzi convoca la direzione nazionale del PD per fare approvare, con 136 sì, 16 no e 2 astenuti, una mozione con cui è deciso di dimissionare il governo in carica ed affidare a lui l’incarico di formarne un nuovo. Ma perché Napolitano dovrebbe accettare? Perché non glielo chiede Renzi, ma il partito stesso e lui, da ex-comunista quale comunque rimane, al partito non è capace di dire di no. Allora, il 14 febbraio, è lo stesso Letta che, per non farsi sfiduciare in Parlamento dai suoi, sale al Quirinale a rassegnare le dimissioni. Seguono le consultazioni di “re Giorgio”, che comunque vanno di fretta essendo tutto ormai prestabilito, ed il 17 febbraio l’incarico è affidato ad un Renzi che inizialmente accetta “con riserva” e poi la scioglie il 21 febbraio con il tweet: «Arrivo, arrivo!» seguito dall’hastag #lavoltabuona.
Il colpo è riuscito, o piuttosto il “delitto” è consumato. E se Letta «entra in modalità broncio», come lo sbeffeggerà Renzi in Avanti. Perché l’Italia non si ferma (Milano, 2017), per Davide Vecchi il Matteo è ormai «proiettato nella sala di comando: l’odiato partito è totalmente nelle sue mani, gestisce il parlamento attraverso impensabili alleati come Denis Verdini e truppe di transfughi, può gestire il potere». «E’ chiaro a tutti però che qualcosa nel sistema democratico è saltato: la sfiducia al governo votata da un partito e non dal parlamento; l’incarico per formare l’esecutivo affidato a un leader scelto non dal Capo dello Stato ma indicato dal suo stesso partito. Il segretario del PD è riuscito nella sostanza a sostituirsi e imporsi agli iter costituzionali».
Sul momento sembra non accorgersene nessuno, ma in quel mutamento di procedura si consuma definitivamente la mutazione genetica del PD (già DS, già PDS ed ex PCI) nel PdR, ossia nel Partito di Renzi (copyright di Ilvo Diamanti). Torniamo al libro di Damilano: «gli è bastato occupare e svuotare il guscio di un partito che già esisteva… e far coincidere il partito con se stesso» per cambiarne la natura (ma non l’insegna, che resta PD), portando così all’estinzione quel “partito nuovo” che era stato teorizzato da Antonio Gramsci nelle carceri fasciste e pazientemente costruito da Togliatti-Longo-Berlinguer nel corso della Prima Repubblica. Ma adesso siamo nella Seconda e il “grande-e-giusto-Partito-comunista” è un fossile politico sopravvissuto fin troppo a se stesso. Per Gramsci, che in prigionia aveva riflettuto sulle cause del fallimento della rivoluzione “sovietica” in Italia del 1919-1920 quando invece in Russia era riuscita così bene, da noi era mancato un Capo, un leader adeguato o piuttosto un “principe” come quello divisato nel 1513 da Niccolò Machiavelli (la destra, invece, il suo “principe” l’aveva trovato in Benito Musssolini che sarà il Duce per un ventennio). Però per Gramsci quel “principe” non avrebbe dovuto più essere una persona singola, bensì un apparato principesco che fosse l’espressione politica della alleanza storica delle classi sociali degli operai e dei contadini, a cui Togliatti doveva aggiungere nel secondo dopoguerra anche i “ceti medi” perché altrimenti in Italia non si sarebbe vinto mai. Il fatto è che Gramsci diffidava di un “uomo solo al comando” (perfino di Stalin, sebbene comunista), annotando nei Quaderni del carcere che «il moderno principe, il mito-principe, non può più essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo, un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretizzarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di una volontà collettiva che tendono a diventare universali e totali».
Ma nel Duemila i partiti politici, come storicamente formati durante il “secolo breve”, si presentavano ormai così malridotti che di altro si sentiva il bisogno. Ma per andare oltre o per tornare ‘indietro? Che so, per ritornare a Machiavelli? E’ stato così che, a detta di Damilano, «il partito moderno Principe scompare per lasciare il posto a “uno principe, uno principe nuovo”. Una persona. Con la sua storia, la sua biografia, i suoi odi, furbizie, miserie, ambizioni. Il Principe, cinquecento anni dopo». E se al tempo di Machiavelli quella persona in carne ed ossa era stato Cesare Borgia, detto il Valentino, con il suo carico di delitti e di lussurie, ai giorni nostri è bastato Matteo Renzi, assente da lussurie e da delitti, a testimoniare che, se la storia si ripete quando la si dimentica, per la prima volta si presenta in forma tragica, ma poi nei sequel assume forme sempre più ridicole. Eppure, da Valentino a Renzi, l’intenzione resta la stessa, che è poi quella, per dirla con Machiavelli, di «vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ popoli e spegnere quelli che ti possono o debbono offendere».
Ma Renzi, che più che persona è personalità, ha ben imparato anche la lezione di quel precedente di “principe nuovo” ch’era stato Berlusconi, e addirittura la supera non avendo nemmeno bisogno di un apparato comunicativo. Il partito è lui e ciò basta. «Tra lui e il popolo c’è il nulla. Nessuna cinghia di trasmissione, nessun canale di collegamento, neppure Canale 5». Così arriva a prendersi il 40,8% delle preferenze alle elezioni del 2014 (che però sono europee e non nazionali), il che non è male per chi, a ventiquattro anni, aveva dato alle stampe un libretto dal titolo ingiustificabile Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. La politica spiegata a mio fratello, pubblicato da Giunti nel 1999 con prefazione di Romano Prodi, commenti di Luciano Violante e Carlo Conti e illustrazioni di Sergio Staino, che sono stati i suoi sponsor all’origine.
Adesso al “nuovo principi” resta soltanto da formare il proprio governo aprendo a Berlusconi secondo l’accordo del Nazareno. Ma sia chiaro, si giustificherà in Avanti, che «il governo di larga coalizione tra il PD e Forza Italia non l’ho inventato io, lo ha fatto Bersani con premier Monti prima e Letta poi». Che cosa però lui abbia promesso al suo “compare di anello” non è mai stato detto completamente. E’ certo invece che quel patto è stato rotto da Berlusconi quando, a gennaio 2015, bisognerà trovare un altro Presidente della Repubblica a seguito delle dimissioni anticipate di “re Giorgio” (per vecchiaia, stanchezza istituzionale o che altro?). Renzi ha raccontato la rottura così: quando Silvio gli comunica «di avere già concordato il nome del nuovo Presidente con la minoranza del PD» (Renzi non ne fa il nome, ma si trattava di Giuliano Amato) e «mi spiega di avere ricevuto una telefonata da Massimo D’Alema, di aver parlato a lungo con lui e che io adesso non devo preoccuparmi di niente», si inalbera perché non può accettare «l’idea che Berlusconi abbia già fatto una trattativa parallela con la minoranza del mio partito… E in quel momento – sono più o meno le due del pomeriggio del 20 gennaio – nel salotto del terzo piano di palazzo Chigi capisco che il patto del Nazareno non esiste più: il reciproco affidamento è rotto. Quando mi trovo a dover scegliere tra l’asse Berlusconi-D’Alema (non ricordo un solo accordo Berlusconi-D’Alema che alla fine sia stato utile al paese) e la soluzione più logica per il Parlamento e per l’Italia non ho dubbi»: Amato non sarà il suo candidato al Quirinale.
Il suo candidato è invece Sergio Mattarella, ma bisogna evitare che Berlusconi lo impallini in Parlamento. E allora si organizza l’astuzia procedurale di farlo votare solo al quarto scrutinio, quando il quorum necessario è abbassato alla maggioranza semplice dei componenti delle Camere riunite. E anche stavolta il colpo riesce: dopo tre votazioni inutili, la quarta elegge Mattarella con 665 voti su 1009 con il voto contrario di Forza Italia, Lega e Movimento5Stelle. A seguito della sconfitta il “Berlusconi furioso” abbandona il governo, che però non cade perché Angelino Alfano esce da Forza Italia, fonda il Nuovo Centro Destra e, a mo’ di cozza attaccata alle poltrone ministeriali, funge da stampella più che necessaria al governo del «boy scout della Provvidenza» (copyright di Giuliano Ferrara).
2. Comunque nel 2014 il fatto storico più importante per l’Italia non è politico, ma economico. Sta nel riconoscimento ufficiale che l’Eurozona è precipitata nella malsana condizione della deflazione monetaria. Era prevedibile e traggo dalla faticosa lettura (troppe parole e troppa soggettività) dell’Italia può farcela (Milano, 2014) di Alberto Bagnai una citazione d’epoca 1998 di Paul Krugman che aveva avvertito in anticipo che l’Unione europea, per come si andava costituendo, sarebbe finita «inesorabilmente nella deflazione e quando i banchieri centrali finalmente si decideranno ad allentare la morsa sarà troppo tardi». Comunque all’appuntamento con la deflazione l’Europa ci arriva soltanto nel 2014, complici anche le politiche europee di “austerità espansionistica” (che espansionistiche non sono state mai) discusso nelle due Cronache precedenti.
Ma cosa comporta “deflazione”? Tutto il peggio che si può pensare perché, come insegnato da John Maynard Keynes nella Riforma monetaria del 1923 (voltata in italiano da Piero Sraffa nel 1925 e ristampata nel 1975), se «l’inflazione è ingiusta e la deflazione dannosa, delle due la deflazione è forse la peggiore; perché è peggio, in un mondo impoverito, provocare la disoccupazione che disilludere i rentiers». La deflazione, infatti, con il ribasso dei prezzi «si risolve in un impoverimento dei lavoratori e degli imprenditori, perché induce questi ultimi a restringere la produzione, allo scopo di evitare perdite; e quindi aumenta disastrosamente la disoccupazione».
Ma cerchiamo di capire come siamo giunti a deflazione. Si deve partire dalla premessa inevitabile, però troppo spesso ignorata, ha condensata da Bagnai nel principio che «il capitalismo funziona solo se c’è abbastanza domanda aggregata», dato che, se si producono merci, queste dovranno poi essere vendute. Ma a chi? Nell’ordine inverso: allo Stato, alle imprese, alle famiglie. Però, se lo Stato è condannato al contenimento della spesa pubblica e le imprese producono in funzione dei consumi delle famiglie, allora sono questi ultimi quelli che più importano. Ma le famiglie domandano le merci in base ai redditi che riscuotono, che sono prevalentemente dati dalle remunerazioni ricevute per il lavoro svolto. Però, se a seguito della “controrivoluzione monetarista” degli anni ’80 del secolo scorso si è introdotta una sistematica e prolungata contrazione salariale (che pudicamente si preferisce chiamare “moderazione”), le famiglie avrebbero dovuto ridurre le spese, e se ciò non è successo è perché le banche si sono messe a concedere indiscriminati “crediti al consumo” su cui quelle famiglie avrebbero pagato adeguati interessi. Era geniale: ai lavoratori si pagavano meno salari, così che le imprese ci guadagnavano, mentre dalle aperture creditizie ci guadagnavano le banche con gli alti interessi. E’ così che l’economia capitalistica è trapassata, per dirla ancora con Bagnai, «da wage-led (alimentata dai salari) a debt-led (alimentata dal debito)».
Però alla lunga le banche hanno esagerato nel concedere mutui perfino ai clienti ninja (no income, no job, no asset = non ho reddito, non ho occupazione, non ho patrimonio e quanto credito mi date?), ai quali venivano elargiti prestiti rischiosissimi poi “cartolarizzati” in “veicoli derivati” insieme ad altri titoli sicuri da far girare, complici consulenti finanziari compiacenti, ad altri risparmiatori incauti. Quando però i ninja non sono più stati in grado di pagare (anche a seguito dell’aumento dei tassi d’interesse portato avanti dalla Federal Reserve che intendeva “raffreddare” la bolla speculativa), la loro insolvenza ha travolto i creditori e, di rimpallo, anche le banche, originando quella colossale crisi dei mutui subprime (2007-2009) che ha rischiato di far crollare l’intero sistema finanziario internazionale. Allora gli Stati sono corsi a salvare banche e risparmiatori con iniezioni di denaro pubblico per un ammontare stimato sui 15.000 miliardi di dollari a fronte di un PIL planetario di 60.000 miliardi (L. Gallino, Finanzcapitalismo, Torino, 2011), e nessuno sul momento ha protestato.
Però, non appena scaricato il debito privato sulle spalle del “pubblico”, è risorta la solita vecchia litania dagli “economisti del rigore” contro gli Stati spendaccioni, che dovevano essere costretti a risanare i propri bilanci in deficit con severi programmi di meno spese e più tasse, giusta l’ideologia (perché di “teoria” ce n’era ben poca) che ne sarebbe seguita una maggiore crescita del Pil. Perché mai? Ma perché, ha ironizzato Bagnai, «i cittadini, consapevoli che lo Stato, essendo diventato virtuoso, in futuro chiederà loro meno tasse, presi da una ventata di ottimismo smetteranno di risparmiare per pagare le tasse future e si metteranno a consumare oggi, alimentando la domanda complessiva dei beni». Il che sarebbe forse teoricamente possibile se i cittadini fossero tutti individui razionali e lo Stato una istituzione credibile, perché in caso contrario…
In caso contrario i cittadini, spaventati per i maggiori oneri fiscali che si vedevano rovesciare addosso e senza fiducia che non aumentassero ancora, hanno pensato bene di accumulare risparmio riducendo i consumi, e così lasciando l’offerta di merci senza una domanda aggregata adeguata. Dopo di che, per la validità del più antico teorema della scienza economica per cui, se la domanda è minore dell’offerta, i prezzi calano, l’Eurozona si è infilata in una deflazione monetaria che sul momento il governatore della BCE Mario Draghi (che avrebbe il compito istituzionale di mantenere il livello dei prezzi europei ad un tasso d’inflazione «inferiore, ma vicino al 2%») si è rifiutato perfino di ammettere parlando invece di «bassa inflazione» per colpa di una ripresa che però era «debole, modesta, fragile e lenta» (R., 10.1.2014). Anche Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, assicurava che «in Italia non c’è alcun rischio di deflazione» (R., 25.1.2014) e Draghi confermava che L’Europa non è in deflazione (R., 7.2.2014), finché a marzo i dati Eurostat dovevano mostrare che «cinque paesi su diciotto – Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e adesso anche la Spagna – sono già scivolati in deflazione: invece di salire i prezzi scendono, rallentando consumi e investimenti perché le famiglie e le imprese rinviano ogni spesa nell’idea che domani costerà di meno» (R., 1.3.2014). Nell’elenco non c’era ancora l’Italia, ma vi si sarebbe aggiunta ad agosto: «Prezzi italiani a crescita zero, mai un declino così dal 1959 e in dieci grandi città è deflazione» (R., 13.8.2014).
3. A queste condizioni pare evidente che il nuovo governo Renzi, nonostante le migliori intenzioni, non può che vivacchiare. In quella sorta di auto-elogio (che è il contrario di una autocritica) che Renzi ha pubblicato a consuntivo dei suoi “mille giorni” (Avanti. Perché l’Italia non si ferma, Milano, 2017), lui comincia doverosamente descrivendo lo stato comatoso del paese ricevuto in eredità dai governi “tecnici” precedenti: «nel febbraio del 2014 l’Italia è un paese fermo, bloccato, impantanato nella palude… Il PIL ha il segno meno. Nel 2012 il governo Monti ha chiuso a -2,8%. Nel 2013 il governo Letta ha chiuso a -1,7%. Numeri freddi ma implacabili, sono i numeri dell’Istat». Sono queste le conseguenze delle troppe tasse («la grande coalizione che governa insieme, appassionatamente, da Bersani a Berlusconi promette di tagliare le tasse, ma finisce con l’aumentare l’IVA e, quanto alla sbandierata promessa di cancellare le imposte sulla prima casa, succede che quella che si chiamava IMU cambia nome e diventa TASI. In Veneto fioriscono le battute: Paga le tasse e Tasi»), ma pure dello strangolamento del Fiscal Compact «che prevede una serie di limitazioni molto stringenti per il bilancio dello Stato, voluto dai sacerdoti dell’austerity e inserito nella Costituzione con il voto condiviso di quasi tutti gli schieramenti. Per quella riforma costituzionale nessuno parla di attentato alla democrazia. Non si fa un referendum perché in parlamento il quorum si raggiunge agevolmente. E’ una situazione di emergenza, certo: le attenuanti generiche ci sono tutte. Ma in quel momento l’Italia s’impegna a raggiungere con un ritmo inaccettabile il pareggio di bilancio. Ipotechiamo il futuro quasi senza accorgercene».
Però ecco che è arrivato lui, il factotum (in dialetto romagnolo: il “fac-tôt-mé”): «nel 2014, dunque, ci mettiamo all’opera e riempiamo il dibattito pubblico di tutta la nostra energia. Dalle tasse ai diritti, dal lavoro alla cultura, dal cantiere istituzionale alle sfide europee: una ventata di novità investe la gerontocrazia politica nazionale». Si “rottamano” le persone (e qui Renzi riesce alla grande), ma quanto a “rottamare” le politiche economiche vigenti ci sono ormai dei vincoli europei che fanno sì che il primo anno del suo governo trascorra inutilmente.
Una disposizione finale del Fiscal Compact imponeva che il pareggio di bilancio (disavanzo pubblico allo 0,0%, tanto per intenderci) lo si dovesse mettere in esecuzione, per gli Stati sottoposti a procedimento per disavanzo eccessivo com’era l’Italia, alla chiusura della procedura. Esso sarebbe quindi arrivato nel 2015, mentre per il 2014 la “raccomandazione” (come la si chiama, ma in realtà è un ordine) suggerita da Bruxelles era un disavanzo pubblico al 2,6%, in calo rispetto al 3% di cui aveva goduto il governo Letta. Ma Renzi non ci sta e fin dal primo incontro con il premier francese Hollande sfacciatamente dichiara che lui sarebbe rimasto al di sotto del «tetto del 3%» (R., 16.3.2014), ch’era l’originario parametro di Maastricht, per approfittare di quei decimali in più per abbassare Irpef e Irap. Ma al primo incontro a Berlino la cancelliera Angela Merkel gli ricorda che C’è anche il Fiscal Compact da rispettare, così in conferenza stampa è costretto a barcamenarsi: «ha continuato a dire che rispetterà Maastricht, ma l’impressione dei suoi interlocutori tedeschi è che il neopremier non cogliesse appieno la differenza tra il Trattato del ’92 sull’Unione monetaria e le regole più recenti. Non è che ciò abbia creato scandalo, perché anche a Berlino si capisce che un primo ministro appena arrivato può anche non conoscere l’armamentario europeo a memoria» (R., 18.3.2014).
Comunque lui ci riprova a Bruxelles annunciando: “Tetto al 3% anacronistico ma il deficit non lo sfonderà” (R., 20.3.2014), ma pure lì gli va male perché gli rispondono che: “Niente sconti, rispetta i vincoli”, e si guadagnai lo stesso sorrisetto di commiserazione ricevuto da Berlusconi nel 2011. Allora erano stati Merkel e Sarkozy, adesso sono Barroso e Van Rompuy che «si guardano, sorridono, quasi a non volersi prendere la briga di commentare una proposta che non piace a Bruxelles ma che mette in imbarazzo due dirigenti chiamati dal galateo a essere accomodanti verso un leader al debutto» (R., 21.3.2014). Spetta allora al ministro dell’Economia dell’ Pier Carlo Padoan assicurare che «gli impegni vanno rispettati, tutti. Per noi stessi e non perché ce lo chiede l’Europa, Noi non siamo vincolati solo a Maastricht, ma anche al Fiscal Compact» (R., 27.3.2014). Però anche lui prova a chiedere qualcosa, e cioè che almeno il pareggio di bilancio sia «posposto di un anno, al 2016» (R., 13.4.2014), ma senza successo, così che, quando al vertice europeo del 27 giugno si voterà il documento ufficiale che “raccomanda” all’Italia il pareggio nel 2015, lo firmeranno tutti, «incluso il premier Matteo Renzi» (R., 28.6.2014)!
4. Però l’economia continua ad andar male e quando ad agosto si ha notizia che: Pil -0,2%, peggio del previsto, mai così basso da 14 anni (R., 7.8.2014), Renzi deve riaprire la trattativa con Bruxelles. Ma ad un rimbrotto di Mario Draghi che tutti gli stati europei (compresa l’Italia) dovrebbero «cedere sovranità» per le riforme promesse e finora mancate, lui risponde a muso duro che «l’Italia non è finita, con buona pace dei gufi e degli sciacalli… Io ho detto di cambiare verso, non di cambiare l’universo. Quello è un potere da fumetti. Riforme per far mangiare gli italiani? Non sono mica uno chef» (R., 8.8.2014) e poi, in una, in una intervista sul “Financial Times”, che «sulle riforme decido io, non la Troika né la Bce. Farò io le riforme perché l’Italia non ha bisogno di qualcuno che le spieghi cosa fare» (R., 11.8.2014). Sembra aver dimenticato che la letterina, che nel 2011 aveva dato il benservito a Berlusconi se non avesse obbedito a quanto richiesto dalla Bce, era firmata pure da Draghi, ma glielo ricorda subito Lucrezia Reichlin, già direttrice di ricerca della Bce, augurandogli «che non ci sia alcuna lettera,… ma se un paese non riesce a uscire da una crisi così acuta e mette a repentaglio la sostenibilità dei conti, Draghi ha il dovere di avvertire e suggerire una via collettiva che dia più forza all’azione di governo». Però per l’Italia questa non potrebbe essere «un’opportunità per contrattare le proroghe al Fiscal Compact, a fronte delle quali offra un impegno credibile sulle riforme» (R., 12.8.2014)? E’ uno scambio su cui si fionda, rapace, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble proponendo di «rendere obbligatorie e rinforzare al massimo le raccomandazioni con le riforme per i singoli paesi che la Commissione europea approva ogni giugno e concedere margini di flessibilità sui conti pubblici solo alle capitali che le rispettano alla lettera» (R., 14.9.2014). Ma Renzi ancora prova a resistere: «nessun trattato consente all’Europa di fare le riforme al posto nostro» (R., 15.9.2014).
Ma che margini ha? Peggiorando la situazione economica (L’Ocse vede nero per l’Italia: il Pil scenderà dello 0,4%: R., 16.9.2014) e non aiutando nemmeno il ricalcolo del Pil per tener conto del contributo (presunto) delle attività criminali come droga e prostituzione (Il restyling Istat non cambia il Pil: R., 23.9.2014), non resta che ritornare a Bruxelles e questa volta con il cappello in mano. Il ministro Padoan è subito a richiedere che almeno il bilancio in pareggio sia rinviato addirittura al 2017 e che il deficit per il 2015 sia portato al 2,9% del Pil, un pelino al di sotto del 3% di Maastricht (R., 1.10.2014), mentre Renzi si inchina ad offrire quel «patto-lavoro alla tedesca» (R., 1.10.2014) che sarà il Jobs act approvato alla fine del 2014 (ma con decreti attuativi emanati nel 2015 per cui se ne dirà nella prossima Cronaca). Ai guardiani europei si presenta una manovra di bilancio da 36 miliardi di euro, di cui 11 per aumento del deficit e 15 di spending review da destinare per 15 miliardi a disattivare la maledetta “clausola di salvaguardia” introdotta dal governo Letta (che si spiegherà nella prossima Cronaca) e per il resto ad interventi per bonus, tagli Irap, ammortizzatori sociali ed anche missioni militari (R., 2.10.2014). E Renzi ha la faccia tosta di magnificarla come «una manovra di sinistra» che, «se l’avesse fatta qualcun altro, la Cgil avrebbe applaudito» (R., 14.10.2014) quando agli industriali aveva già promesso che «vi tolgo l’articolo 18 e i contributi, vi abbasso l’Irap, ora assumete» (R., 16.10.2014).
E Bruxelles? Accetta il rinvio del bilancio in pareggio al 2017, ma “raccomandando” di fare almeno un «piccolo sforzo in più» per portare il disavanzo al 2,5% del Pil (R., 29.11.2014). Comunque i conti si regoleranno a primavera 2015, cosicché quando la cancelliera Merkel sbraiterà per un’ultima volta che l’Italia dovrebbe fare di più, Renzi potrà ribatterle che «la logica dei compiti a casa è finita: la ragioneria e le pagelle devono lasciare posto alla politica» (R., 8.12.2014) e Padoan potrà confermare che da Bruxelles non è venuta «nessuna richiesta di misure aggiuntive: la legge di stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà l’economia italiana» (R., 9.12.2014). Ci si affida alla provvidenza e la provvidenza si chiamerà Mario Draghi.