L’amor cortese è “amare di lontano”, ma lontano da che? 1/2
di Giorgio Gattei
1. Nella sua definizione più sintetica la sessualità non è che quella speciale «inclinazione per le parti genitali altrui» (così Kant nelle Lezioni di morale) che risponde alla duplice finalità del “progetto di specie” necessario per perpetuare il genere umano superando la caducità dei singoli individui. Ma essa risponde pure ad un “programma personale” di ricerca del piacere, essendo gli organi della generazione anche i depositari della soddisfazione orgasmica. A questa luce la modalità dell’amore cristiano (nello specifico: solo dell’amore tra un uomo e una donna in quanto distinto dall’amore verso Dio che è detto “amor sacro”) si è imposta come destinata esclusivamente alla riproduzione sulla base di una forma istituzionale matrimoniale che per definizione deve risultare soltanto eterosessuale, genitale e fecondativa.
Tuttavia la ricerca privata del piacere, che invece non è necessariamente eterosessuale, genitale e fecondativa, non ha potuto essere abolita nella pratica concreta degli umani, cosicché l’assoluto del comportamento cristiano ha dovuto sopportare l’ingombrante presenza, non legittima ma comunque ampiamente tollerata, delle due antiche istituzioni “di complemento” della “soddisfazione della carne” costituite dalla prostituzione per il piacere di lui e dall’adulterio per la soddisfazione di lei.
Orbene, nella Francia meridionale del XII secolo è venuta ad elaborarsi una particolare teoria dell’adulterio (che poi sia stata messa in pratica è altra questione) che in qualche modo avrebbe potuto essere compatibile con la morale cristiana perchè aggiungeva la libertà della relazione adulterina (purché infeconda e nella maniera che si dirà) alla servitù dell’obbligo coniugale procreativo. E’ stata questa l’invenzione dell’amore cosiddetto “cortese” che il poeta provenzale Jaufre Rudel (1130-1170) ha chiamato un «amore di lontano» (amor de lohn) che solitamente si legge come un “lontano da lei”, perchè sfortunatamente lei abiterebbe altrove, quando invece era piuttosto un amore “lontano da che”, sebbene ciò da cui era necessario tenersi a distanza non è facile da riconoscere nelle testimonianze reticenti del tempo ed è difficile a dirsi da parte degli storici che se ne sono interessati perchè, se capiscono, si vergognano a dire.
2. Sulla problematica dell’amor cortese va tuttora per la maggiore l’interpretazione proposta da Denis de Rougemont nel libro L’amore e l’Occidente, pubblicato nel 1938 e poi ristampato con aggiunte nel 1956, in cui l’“amor cortese” viene identificato con l’amor-passione e quindi moralmente riprovato in quanto contrario al matrimonio ed eretico rispetto alla religione cristiana. In sintesi il libro intende «descrivere il necessario conflitto tra passione e matrimonio in Occidente» che a giudizio dell’autore non era affatto un argomento trapassato se
un soggiorno di sette anni in America mi ha rivelato che il mito della passione, scaduta a semplice romance, è ben lontano dall’aver esaurito i propri effetti; il cinema li diffonde nel mondo intero e le statistiche sul divorzio permettono di misurarne l’ampiezza (p. 58).
A detta di de Rougemont questo conflitto opporrebbe
da una parte, una morale della specie e della società in generale, più o meno improntata di religione, che si chiama la morale borghese, e dall’altra, una morale ispirata dall’ambiente culturale, letterario, artistico che è la morale passionale o romanzesca. Tutti gli adolescenti della borghesia occidentale sono educati nell’idea del matrimonio, ma al tempo stesso si trovano tuffati in un’atmosfera romantica alimentata dalle letture, dagli spettacoli e da mille illusioni quotidiane il cui sottinteso pressappoco è questo: che la passione è la prova suprema, che ogni uomo dovrà un giorno conoscerla, e che la vita non potrà esser vissuta appieno se non da coloro che sono passati per di là (p. 333).
Di conseguenza, nella opinione romanzesca pur se «l’adulterio resta una colpa, al tempo stesso esso riveste l’aspetto di un’avventura più bella della morale» (p. 332), ma siccome «passione e matrimonio sono per essenza incompatibili,… questo conflitto minaccia in permanenza tutte le nostre ‘sicurezze’ sociali» (p. 333-334). Per questo, da buon borghese quale egli era, «se la nostra civiltà vuol sussistere», essa deve «riconoscere che il matrimonio, da cui dipende la sua struttura sociale, è cosa ben più seria dell’amore che essa coltiva» (p. 58) e che di conseguenza essa dovrebbe espellere dal proprio sistema di valori quel «diffusissimo ed ossessionante tormento dell’amore che la rompe con la legge» che, nella società contemporanea, «nove volte su dieci riveste le forme dell’adulterio» (pp. 60-61).
Ma come era venuta ad imporsi storicamente in Occidente una siffatta supremazia della passione adulterina sull’amore coniugale? Non di certo per la severità e la noia del matrimonio, che pure c’erano, bensì per la comparsa di una particolare ideologia del sentimento amoroso «la quale forse, senza che ce ne siamo accorti, rende quel legame insopportabile fin dal principio» (p. 61). Per dimostrarlo de Rougemont risale a quel «grande mito europeo dell’adulterio che sta nel romanzo Tristano e Isotta» (p. 62) che, nato nel Medioevo, è sopravissuto nei secoli fino alla riconsacrazione romantica nell’opera lirica di Richard Wagner e poi per proseguire nelle produzioni filmiche hollywoodiane. Infatti, sebbene quel mito trovi le proprie origini nel
tipo delle relazioni dell’uomo e della donna in un dato gruppo storico: la società cortese, penetrata di cavalleria, del XII e XIII secolo e sebbene questo gruppo sia scomparso da gran tempo, tuttavia le sue leggi in modo segreto e diffuso, sono ancora le nostre. Profanate e rinnegate dai nostri codici ufficiali, esse sono divenute tanto più costrittive in quanto non hanno ormai più potere che sui nostri sogni (p. 63).
Esse infatti sono presenti
ovunque la passione è sognata come un ideale, non già temuta come una febbre maligna; ovunque la sua fatalità è chiamata, invocata, immaginata come una bella e desiderabile catastrofe, e non già come una catastrofe e basta. Questo mito vive della vita stessa di coloro i quali credono che l’amore sia un destino (nel romanzo si chiamava “il filtro”), che piombi sull’uomo impotente e travolto per consumarlo in un puro fuoco, e che sia più forte e più vero della felicità, della società, della morale (pp. 67-68).
Il suo contenuto più pericoloso sta per l’appunto proprio in questo: che «ciò che esalta il lirismo occidentale non è il piacere dei sensi, né la pace feconda della coppia», ma «la passione d’amore. E passione significa sofferenza, ecco il fatto fondamentale» (59), che è una sofferenza «legata alla morte perchè porta con sé la distruzione per coloro che vi si abbandonano con tutte le forze» (p. 65).
Ma riassumiamo il contenuto del mito. Superando i preliminari, Tristano deve condurre Isotta “la bionda” al re Marco che l’attende per sposarla. Per uno spiacevole equivoco sono tuttavia Tristano e Isotta a bere il “filtro d’amore” destinato ai coniugi, così che i due sono travolti da una passione amorosa colpevole. Però Tristano, ligio al dovere di cavaliere, rinuncia ad amare Isotta e la riporta a corte, dove però le malelingue si scatenano denunciando un adulterio consumato. Per questo re Marco rinchiude Isotta in prigione e condanna Tristano a morte, ma lui riesce a liberarla fuggendo con lei nella foresta, dove però un giorno re Marco li sorprenderà addormentati, ma vestiti e con la spada di Tristano messa tra i due corpi a significare simbolicamente che il rapporto sessuale tra i due non era mai avvenuto. Almeno così interpreta re Marco che, in segno di perdono, sostituisce, senza destarli, la propria spada a quella di Tristano. Al risveglio i due capiscono il messaggio e possono rientrare a corte, Isotta dal marito e Tristano a sposarsi un’altra Isotta, quella “dalle bianche mani”, con la quale però va “in bianco” per restare fedele alla sua prima e unica passione amorosa. La storia ha però un finale tragico: quando Tristano è ferito mortalmente e solo Isotta “la bionda” potrebbe salvarlo, lei giunge troppo tardi e, nel vederselo davanti già morto, non può che morire anch’essa: «voi siete morto per il mio amore e io muoio, amico, di tenerezza».
Ora de Rougemont contesta che qui s’abbia a che fare soltanto con una «epopea dell’adulterio» (p. 68), con una semplice storia di corna coniugali, per la presenza disturbante di quel rifiuto di consumare sessualmente l’adulterio che richiede di essere spiegato. Ed invero, commenta, siamo alle prese con uno «strano amore, penserete,… che preferisce… ciò che impedisce la felicità degli amanti, li separa e li martirizza» (p. 79), con un Tristano che con entrambe le Isotte resta sulla soglia di un rapporto carnale che, sia pure per ragioni diverse, non si dà. Ma come è stato possibile che in un certo momento storico ed in una particolare regione europea si sia arrivati a preferire un adulterio senza sesso alla relazione carnale matrimoniale? Da dove può mai essere uscita fuori una simile «deviazione» (p. 103) del sentimento amoroso che respinge il piacere opponendosi «alla vita terrestre con efficacia tanto maggiore in quanto prende la forma del desiderio e questo desiderio, a sua volta, si traveste da fatalità» (p. 99)?
Per de Rougemont non c’è dubbio che qui siamo di fronte, più che a un privilegio per la castità (se così fosse, perchè mai mettersi in due e nell’adulterio per giunta?), ad una predilezione per la fine della procreazione che rinviava al catarismo, ossia alla eresia gnostica dilagata nel secolo XII nella Francia meridionale (l’autore si dilunga a mostrare la coincidenza di personalità e castelli sia catari che “cortesi”) il cui contenuto religioso stava precisamente in questo: siccome l’anima appartiene all’ordine dell’Essere e precipita nell’avvilimento degli enti quando s’incarna in un corpo materiale, essa vi abita smaniando di ritornare al proprio luogo d’origine, il che può avvenire soltanto con la morte, che perciò viene attesa con desiderio. Ma nel frattempo della vita mondana? L’anima non può che respingere ogni rapporto sessuale per non imprigionare altre anime nella carne dei nuovi nati, da cui il rifiuto dei “catari” (la parola vuol dire “puri”) sia di unirsi in matrimonio che di far figli per potersi dedicarsi interamente a quell’amore per l’Essere che è «la via che conduce al di là della vita» (p. 113) e che per definizione risulta
estraneo al matrimonio, poiché il matrimonio non significa che l’unione dei corpi, mentre l’Amore, che è l’Eros supremo, è il balzo dell’anima verso l’unione luminosa, al di là d’ogni amore possibile in questa vita. Ecco perchè l’Amore presuppone castità e d’amor mou castitaz (d’amor viene castità) canta il trovatore tolosano Guilhelm Montanhagol (p. 119).
Ora questa eresia «ha rappresentato per la Chiesa cattolica un pericolo altrettanto grave che quello dell’arianesimo» (p. 122) quando ha preso a diffondersi presso le corti francesi “cortesi”, dandovi luogo ad una rivoluzione della psiche occidentale (p. 172) in un senso anti-umano che la Chiesa ha fronteggiato, nel nome dell’amore coniugale tra marito e moglie e dell’affetto familiare di genitori e figli, con la sanguinosa crociata contro gli Albigesi che
all’inizio del milleduecento ha distrutto le città dei catari, bruciato i loro libri, massacrato e mandato al rogo le popolazioni che li amavano, violato i loro santuari e la loro ultima roccaforte, il castello-tempio di Montségur, saccheggiando brutalmente la raffinatissima civiltà di cui erano stati l’anima austera e segreta (p. 127).
Eppure, pur giudicando questa crociata come il «primo genocidio o massacro sistematico di un popolo che si registri nella nostra storia ‘cristiana’ dell’Occidente» (p. 139), de Rougemont non se ne dispiace; le rimprovera soltanto di non essere riuscita ad estirpare definitivamente quella mala pianta eretica che così ha potuto sopravvivere nella «forma più ambigua e forse più pericolosa» (p. 295) della retorica dell’amor romantico (ripercorsa de Rougemont con minuziosa documentazione) fino ai nostri giorni e di cui «l’attuale crisi del matrimonio borghese è il trionfo tardivo, snaturato quanto si voglia ma pur sempre trionfo, di quella passione profanata» (p. 297).
Insomma, a dar retta a de Rougemont l’invenzione dell’amor “cortese” non sarebbe stata altro che il travestimento sentimentale di una eresia contraria alla vita (sto estremizzando: nella replica ai critici egli attribuirà ai due fenomeni della cortezia d’amore e del catarismo appena un vincolo di coesistenza temporale e geografica senza una filiazione diretta) teso a giustificare un rapporto di coppia impostato sulla rinuncia, nel nome della fede eretica, alla consumazione sessuale per impedire, non facendo figli, la decadenza dell’Essere nel mondo. Ma, se così fosse stato, perché mai tutta quella insistenza sulla natura comunque adulterina dell’amor “cortese”, dato che il divieto di procreazione avrebbe dovuto valere anche per le coppie eretiche coniugate?
3. Per rispondere, offrendone una interpretazione divergente che non scomodi religione ed eresia, è sufficiente leggere quel manuale canonico d’educazione “cortese” che è Dell’amore di Andrea, cappellano alla corte di Maria, contessa di Champagne (1145-1198), che era la figlia di Eleonora di Aquitania (1122-1204) a sua volta nipote di quel Guglielmo di Poitiers (1071-1126) passato alla storia come “il primo trovatore”. Il libro, scritto successivamente al 1174, ebbe successo anche in Italia, dove è stato citato da Cino da Pistoia (sebbene con il titolo errato di “Gualtieri”, che è invece il nome del personaggio a cui l’opera è dedicata) e da Guido Cavalcanti in una tenzone poetica con Gianni Alfani: «Eccomi apparecchiato/ sobarcato/ d’Andrea co’ l’arco in mano». Costruito in forma di dialogo tra un uomo e una donna, esso è suddiviso in tre parti, dove la terza (incongrua e forse d’altra mano) sconfessa le precedenti giudicando «povero pazzo e più che bestia chi per i momentanei piaceri carnali lascia il gaudio eterno e si assoggetta alle fiamme dell’Inferno eterno» (161). Evidentemente si voleva evitare una condanna ecclesiastica, che comunque venne nel 1277. E qui merita notare che siamo il richiamo esplicito a “piaceri carnali” da consumare.
Ma qual era l’intenzione di Andrea? Di aggiornare l’Arte d’amare di Ovidio introducendovi il rapporto di vassallaggio feudale con la donna che assumeva il ruolo di Signora (Madama = la mia dama), mentre l’amante si poneva in quello subalterno del Vassallo al suo “servizio”. Come nell’Arte d’amare, anche l’amor “cortese” è rigorosamente adulterino, dato che non si può dare alcun amore tra moglie e marito. Del resto a quel tempo il matrimonio nobiliare era questione di famiglie piuttosto che di persone, avendo la finalità d’instaurare opportune alleanze parentali e di “produrre” una discendenza legittima a cui lasciare il feudo. Esso era quindi deciso all’insaputa e nonostante gli sposi, che dovevano soltanto prenderne atto dedicandosi poi a far figlioli senza tante smancerie (da cui la legittimità del divorzio se quei figli non arrivavano). Tutto il contrario, invece, accadeva nell’adulterio “cortese” in cui era la dama a scegliersi l’amante, esigendo da lui di essere, non soltanto sentimentalmente, soddisfatta. Per questo alla Signora che poteva opporre all’amante il «particolare non secondario che m’impedisce di amarti: ho un marito molto nobile, cortese e gentile e sarebbe infame tradire il suo letto o far l’amore con un altro», lui poteva rispondere che
all’affetto coniugale, che tutti i coniugi con il vincolo di matrimonio sono tenuti a scambiarsi, voi volete dare impropriamente il nome d’amore quando invece si sa che tra marito e moglie l’amore non può aver luogo.
Era tutta una questione di definizione: siccome l’amore
è smisurato e concupiscente desiderio di abbracci furtivi e nascosti, quale abbraccio furtivo, per favore, può esserci tra coniugi, quando si dice che l’uno possiede l’altro e, senza paura di rifiuto, entrambi possono soddisfare tutti i desideri e le voglie che hanno (p. 77)?
La dama del dialogo non è però del tutto convinta e chiedeo di ricorrere al superiore giudizio della contessa di Champagne. La quale risponderà, dopo essersi consultata con «moltissime altre donne», con una sentenza datata «maggio 1174» che stabiliva ufficialmente che
amore non può affermare il suo potere tra due coniugi perchè gli amanti si scambiano gratis ogni piacere senza nessun tipo di costrizione, mentre i coniugi sono per legge tenuti ad obbedire l’uno alla volontà dell’altro senza potersi rifiutare.
Ma se per caso i coniugi si amassero? Sarebbe uno spreco perché
come potrebbe accrescersi l’onore della coppia se fanno l’amore come gli amanti, dal momento che non cresce la gentilezza né della moglie né del marito e non hanno niente di più di quanto per diritto avevano prima?… Nemmeno la moglie del re può meritare la corona d’amore se non è legata alla cavalleria d’amore fuori del vincolo matrimoniale… e per questo giustamente amore non può accampare alcun diritto tra i coniugi (p. 83).
La dama ha perciò ogni diritto a farsi un amante per gustare quei piaceri d’amore che col marito non ci possono mai essere. Però dovrebbe scegliersi un amante che sia degno di lei, il che può avvenire soltanto dopo averlo messo alla prova attraverso una severa disciplina d’amore (p. 41). Ma dobbiamo andare con ordine. Innanzitutto, se l’amore è «una passione che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro sesso per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro», l’iniziativa spetta soltanto all’uomo che, quando vede
una donna che corrisponde al suo amore ed è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore… cominciando a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue membra, a immaginare i propri gesti e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possedere tutto per il proprio piacere (pp. 14-15).
E’ ovvio che un amore siffatto può essere necessariamente solo «tra persone di sesso diverso» (p. 15) con lei che deve avere almeno dodici anni e lui quattordici (p. 17), e va condiviso da entrambi, dato che il principale compito dell’amante sarà quello di guadagnarsi il consenso della dama. Ma per essere «degno d’essere amato chi chiede di essere amato» (p. 34) non serve alcun blasone di nobiltà, ma «soltanto la gentilezza degna della corona d’amore» (p. 20) e quando la dama «lo trova pienamente degno, non deve mai privarlo del suo amore, a meno che non sia legata d’amore ad un altro» (p. 34).
A questo punto l’amante può frequentare la dama, ma con pazienza dovendo passare per i quattro gradi del servizio d’amore
il cui primo consiste nel dono della speranza, il secondo nell’offerta del bacio, il terzo nel piacere dell’abbraccio, e il quarto che si conclude con l’offerta di tutta la persona (p. 26).
Al proposito Andrea consigliava però «alle donne sagge di non concedersi a nessuno così in fretta da saltare direttamente all’offerta del quarto grado tralasciando i primi tre… perchè fino al terzo grado la donna può tornare indietro senza biasimo», ma quando è giunta al quarto grado «è troppo tardi per pensarci o per pentirsi» (p. 133)): infatti «cosa mai può dare di più la donna se non lasciare la propria persona alla volontà di un altro?» (p. 27).
Arrivati al dunque, l’amor “cortese” si consuma comunque “nella carne” perchè nella Francia meridionale del XII secolo non erano presenti quelle sublimazioni erotiche che subentreranno invece nel “dolce stil novo” italiano del secolo seguente. Qui la dama e il suo amante si portano a letto ben volentieri, e non soltanto perchè la voglia di lui è irresistibile, ma perchè anche lei se la vuol godere, come rivela il caso curioso sottoposto dalla dama all’amante
di una donna straordinariamente gentile che, volendo liberamente scegliere tra due uomini che le chiedevano amore, si divise in questo modo i piaceri dell’amore dicendo: Uno di voi si scelga la mia parte superiore e l’altro la parte inferiore.
I due scelgono, ma quale di loro sarà poi da preferire? Per l’amante non c’è dubbio che sia più degno d’amore colui che ha scelto i piaceri della parte superiore, che sono quelli che più allontanano dall’animalità, ma la dama non è per niente d’accordo:
mi pare che in questo caso la vostra opinione sia sbagliata e si allontani dal sentiero della verità. Tutti i piaceri che gli uomini frappongono agli affanni, hanno principio da ciò che è nascosto nella parte bassa e da lì traggono origine… (né) il diletto della parte alta esisterebbe assolutamente senza la parte bassa che lo sostiene e rafforza… E dico di più: qualunque cosa facciano, gli amanti tendono esclusivamente a raggiungere il piacere della parte bassa perchè lì totalmente si compie amore, e senza quel compimento si crede di non aver nulla se non preludi d’amore. Pertanto chi sceglie la parte bassa, proprio perchè sceglie di usare per il suo piacere la parte più degna, è per sua scelta più degno di chi vuole i preludi della parte alta (pp. 109-110).
A questo punto l’amante ripiega almeno sul compromesso che la donna non conceda «la parte bassa senza i piaceri della parte alta», perchè altrimenti sarebbe un «comportamento molto sconcio del corpo», e su questo compromesso la donna finisce per convenire sia pure insinuando (purtroppo senza approfondire) che «per varie ragioni anche questa vostra opinione è tuttavia confutabile» (p. 112)!
Comunque i due amanti potranno praticare tutti quei piaceri d’amore imposti dal privilegiamento dalla “parte bassa” del corpo della donna. E quali saranno mai? Ne accennerà con eleganza un testo di duecento anni più tardi, le Quindici gioie del matrimonio attribuito a Gilles Bellemère, dove si dice che il maggior godimento della moglie (e saranno corna per il marito) sarà di appartarsi con il proprio amante e
quando staranno insieme a tutto loro agio, si faranno l’un l’altro tutti gli immaginabili favori. E sappiate che lei farà al suo amico cento cose e un mucchio di segreti d’amore e tanti piccoli giochetti che non oserebbe fare né mostrare a suo marito; ed egualmente il suo amico le darà tutti i piaceri che potrà e tanti piccoli trastulli in cui ella avrà molto piacere e che nessun marito saprebbe fare (p. 36).
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Abbiamo così dimostrato sulla base dell’interpretazione autentica di Andrea che, contrariamente a quanto sostenuto da de Rougemont, gli amanti “cortesi” il sesso lo praticavano allegramente nell’adulteri. Lo esigeva la dama: che il suo amante non stesse tanto con le mani in mano perchè lei voleva soddisfazione. Però in qual senso quel loro amore si dimostrava, rispetto ad ogni altro, un “amor cortese”? La risposta verrà data nella seconda parte di questa inchiesta che apparirà dopo l’estate.