L’assedio di Troia durò solo cinque mesi
di Massimo Roccati
La notizia che Troia era caduta nelle mani degli Achei guidati da Agamennone raggiunse la reggia di Argo, dove, in assenza del marito, regnava Clitennestra, nell’arco di tempo di un giorno. È Eschilo a confermarcelo nel primo episodio della tragedia Agamennone, dove il Corifeo chiede alla regina perché si accinga ai sacrifici e lei che risponde:
“Di Priamo la città hanno preso gli Argivi.”
“Come dici? È incredibile!”
“Dico che Troia è in mano agli Achei. Parlo chiaro?”
“E da quanto tempo la città è stata distrutta?”
“In questa notte dico, che ora ha generato la luce.”
Ad Argo, quindi, la notizia era giunta in tempo reale, come si direbbe oggi, ma niente affatto per miracolo degli dèi, bensì grazie ad una accorta soluzione tecnica che lo stesso Eschilo ci descrive. Quando gli Achei partirono per l’assedio, venne dislocata lungo la costa e attraverso le isole una successione di postazioni di vedetta, ciascuna a portata di sguardo dell’altra e con cataste di legna già predisposte, fino al monte Ida che sovrastava Troia. E quando la città venne presa nella memorabile notte del “cavallo di legno”, l’ultima postazione accese il fuoco avvisando la precedente e così via seguitando tutte le altre con “segnale che rimandava segnale” all’incontrario, finché la luce dell’ultimo falò “balzò qui sul tetto degli Atridi” dove vigilava la sentinella della regina. Una simile staffetta luminosa era stata predisposta dalla stessa Clitennestra che se ne fa vanto nella tragedia: “Tale fu per me l’ordinamento dei lampadefori giunti a compimento succedendosi l’uno all’altro; e vince il primo e l’ultimo corridore. Siffatto indizio e segno io dico a te, Corifeo, avendomi lo sposo inviato questo messaggio da Troia: Troia in questo giorno la tengono gli Achei!”
Geniale la maniera di comunicazione, che però mette in dubbio la durata temporale dell’assedio. Eschilo, secondo la tradizione, lo ritiene protratto per dieci anni (“il decimo anno è questo”), ma ci si può credere? Si può credere che quel complesso sistema di segnalazione abbia potuto rimanere attivo per un decennio, che è una infinità di tempo, in attesa della luce da Troia? Non a caso il prologo della tragedia si apre con il lamento della vedetta di Argo provata dalla faticosa sorveglianza: “Sul tetto degli Atridi, accucciato sui gomiti come un cane…, spio il segnale di fiaccola, bagliore di fuoco che da Troia porti annunzio e voce di conquista… E quando nelle notti agitate occupo questo mio rorido giaciglio che i sogni mai non visitano, invece del sonno mi sta accanto la paura di chiudere saldamente le palpebre… Felice giunga alfine la liberazione dalle pene con l’apparire nella tenebra di un lieto messaggio di fuoco” .
Questa sua liberazione giunse proprio nella notte che dà inizio alla tragedia, così che la sentinella poté correre dalla regina ad annunciare che Troia era caduta. Ma la vedetta avrebbe dovuto vegliare per un decennio, e con lui tutti gli altri “lampadefori”? Omero – che evidentemente la sapeva lunga – nell’Odissea si lascia scappare che quello sarebbe stato di guardia appena un anno: sarebbe stato Egisto, l’amante della regina, ad aver creato quel sistema di avvistamento per essere immediatamente avvisato quando Agamennone si fosse messo in viaggio per il ritorno e la sentinella – dice sempre Omero – “vigilò per un anno” e non oltre (a meno che non si voglia pensare che Egisto abbia sedotto la regina soltanto dopo nove anni dalla partenza del marito per la guerra…).
Una seconda evidenza contro la durata decennale dell’assedio di Troia ci proviene dalla storia fattuale in cui non si ricordano assedi, con date certe, che si siano prolungati per più di un anno: Gerusalemme da giugno a luglio 1099, Costantinopoli da aprile a maggio 1453, Vienna da luglio a settembre 1683, Roma da giugno a luglio 1849, Sebastopoli da ottobre 1854 a settembre 1855, Port Arthur da luglio 1904 a gennaio 1905; anche l’assedio di Masada nel 73 d.C., che si dice durato tre anni, andrebbe ridimensionato a sole 4 o 5 settimane. Questo lo si capisce considerando le difficoltà dell’approvvigionamento non soltanto degli assediati, come è ovvio, ma pure degli assedianti, se dovevano rimanere fissi sul posto. Soltanto nel XX secolo, a condizioni tecniche del tutto differenti, sono stati possibili assedi pluriennali, come quello di Leningrado, da settembre 1941 a gennaio 1944, o di Sarajevo, da aprile 1992 a febbraio 1996. Ma nelle condizioni primitive del II millennio prima di Cristo sarebbe stato possibile un assedio lungo dieci anni che non si è mai verifgicato nella storia?
Infine la prova-regina proviene dal testo stesso dell’Iliade che, se letto senza preconcetti, offre una quantità di indizi contrari alla durata decennale della guerra di Troia. Ha provato a raccoglierli tutti Felice Vinci in Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica, che d’ora in poi seguiremo su questo argomento specifico. Nel suo libro Vinci intende argomentare soprattutto altro, e cioè che, contrariamente alla tradizione consolidata, la guerra di Troia è successa in Finlandia, Agamennone e Menelao erano scandinavi e Ulisse proveniva da un’isola della Danimarca. L’ottimo climatico, allora esistente, avrebbe consentito il fiorire attorno al mar Baltico di una precoce “civiltà del bronzo” (alla quale sarebbe imputabile lo scontro tra Achei e Troiani) che però sarebbe stata del tutto travolta allorché il peggioramento delle condizioni atmosferiche a quelle latitudini avrebbe costretto gli Achei ad abbandonarle per emigrare a sud alla ricerca di un habitat, altrettanto marittimo, più favorevole. Ed essi lo avrebbero trovato lungo le coste del mare Egeo, dove avrebbero riprodotto la propria civiltà di origine e cantato la loro più grande saga vittoriosa, poi raccolta in tempi storici e in forma scritta con l’attribuzione ad un mitico aedo cieco di nome Omero.
Vinci, però, tratta anche della durata di quell’assedio, collegandolo alla qualità delle mura di Troia, giudicate imprendibili sebbene Omero non le abbia mai descritte in dettaglio e “già questo può apparire sorprendente, dato il fondamentale ruolo strategico che, secondo tutta la tradizione, esse avrebbero avuto nel sostenere un interminabile assedio decennale”. Ma ripercorriamo la narrazione dell’Iliade, che si svolge in appena una cinquantina di giornate (dalla defezione di Achille al funerale di Ettore). Nel primo canto è descritta per l’appunto l’“ira di Achille” per lo sgarbo fattogli da Agammenone nella spartizione di un bottino ed in conseguenza del quale l’eroe mirmidone diserta il campo acheo e per il momento cessa di combattere. Nel secondo libro Agamennone, dopo aver saggiato lo stato d’animo della truppa che comunque resta bellicoso nonostante la defezione di Achille, dà l’ordine di combattimento: “per tutto il giorno ci misureremo nella contesa crudele e non vi sarà riposo, neppure per poco, solo la notte separerà la furia degli uomini”. Ma di quale giorno si tratta? A leggere bene, piuttosto che l’ennesima battaglia dopo dieci anni di assedio, sembra piuttosto che sia il primo giorno di guerra. Dagli spalti della città, Polite, uno dei figli Priamo, di vedetta per spiare “il momento in cui gli Achei si sarebbero mossi dalle navi”, corre (invasato dagli dèi favorevoli a Troia) ad avvertire il padre che sta parlando in assemblea, e lo interrompe bruscamente urlando: “Vecchio, sempre ti sono cari i discorsi che non finiscono mai, come una volta in tempo di pace; ma ora è sorta una guerra tremenda. Ho già visto molte e molte battaglie, ma mai un’armata così splendida e grande; sono come foglie, come grani di sabbia e marciano nella pianura per dare l’assalto alla città”! È un avvertimento preoccupato e urgente che mal si concilia se gli Achei le fossero stati accampati davanti alle mura ormai da un decennio.
A questo punto l’esercito troiano esce dalla città e si posiziona nella pianura antistante dove ha luogo il duello tra Paride e Menelao che sarebbe potuto essere il primo e l’unico della guerra, essendo il risultato della proposta di Ettore, accolta da Menelao, di far combattere solo i due pretendenti di Elena: “chi dei due sarà il vincitore si prenda la donna con tutti i suoi beni e se la porti a casa; noi stringeremo invece amicizia e patti leali”. A quella intesa “gioirono Troiani ed Achei sperando di mettere fine alla guerra funesta; fila per fila fermarono i carri, si tolsero le armi e le disposero a terra” accingendosi ad assistere allo spettacolo. Ma è mai possibile che una simile modalità di chiudere la questione del “ratto di Elena” sia venuta in mente ad Ettore soltanto al decimo anno d’assedio e non piuttosto subito, all’inizio?
Ancora: mentre i due pretendenti duellano, Elena dall’alto delle mura indica i maggiori capi achei al re Priamo, il quale, per quanto possa apparire incredibile, non li aveva ancora visti. Sintetizzando il testo, leggiamo così:
“Vieni qui, figlia mia, siedimi accanto, perché tu veda il tuo primo marito e i parenti, gli amici. Vieni a dirmi chi è quel quel guerriero acheo così nobile e grande che non ne ho mai visto uno così bello e maestoso: ha l’aspetto di un re.”
“Suocero mio, è il potente Agamennone e un tempo, se mai ci fu, era cognato di questa donna indegna.”
“E anche quell’uomo, figlia, dimmi chi è: di una testa è più basso, ma ha il petto e le spalle più larghe.”
“È il figlio di Laerte, l’accorto Odisseo.”
“E quell’altro guerriero acheo nobile e grande, che supera tutti gli Argivi con la testa e le ampie spalle, chi è?”
“Quello è il gigantesco Aiace… Ma ora distinguo anche gli altri Achei e tutti potrei riconoscerli, tutti potrei nominarli.”
Un simile colloquio, come è evidente, si giustifica nel primo giorno dell’assedio, non certamente dopo un decennio, quando ormai Priamo avrebbe dovuto conoscerli bene tutti i grandi condottieri nemici.
Ma non basta, se si pensa che, fra i tanti eroi enumerati in quella meticolosa rassegna delle truppe assedianti che nell’Iliade prende il nome di “Catalogo delle navi”, molti dei quali soccomberanno nel corso della narrazione, l’unico che fin dall’inizio è già caduto è Protesilao, ucciso proprio durante lo sbarco “mentre, primo fra tutti gli Achei, balzava giù dalla nave”. Ora è mai possibile che dopo nove anni di combattimenti non ci siano state altre vittime illustri? Eppure nessun altro manca nel “Catalogo”, o piuttosto è assente soltanto l’arciere Filottete che, morso da un serpente velenoso, era stato abbandonato sull’isola di Lemno a giacere “in preda a grandi dolori”. Però, quando si viene a sapere che soltanto una sua freccia potrebbe uccidere Paride, dando la svolta definitiva alla guerra, allora gli Achei corrono a riprenderselo per curarlo. E ciò accadde “presto”, come dice il poeta, e non dopo nove anni d’abbandono.
Eppure la tradizione sostiene che Troia poté resistere per un decennio grazie alle sue “alte mura” inespugnabili, costruite addirittura da Poseidone e Apollo, e che capitolò solo in seguito allo stratagemma del “cavallo di legno”. Anche qui Vinci non condivide e, testo alla mano, ha buon gioco nel dimostrare che su quelle mura non c’era da fare troppo affidamento. Nell’Iliade esse non vengono mai descritte, mentre ci si dilunga sul muro innalzato dagli Achei a difesa del loro accampamento (come al solito: soltanto dopo nove anni di guerra o non piuttosto appena dopo lo sbarco?) che era stato costruito con “alte torri” e “porte ben salde perché potessero passare anche i carri; e fuori, vicino al muro, scavarono una fossa larga e profonda e vi impiantarono pali”. Ma di quali materiali poteva mai essere fatto questo muro? Non certo di mattoni (non ce ne sarebbe stato né il tempo né il luogo dove trovarli), bensì soltanto di pietre e di legno. Si doveva quindi trattare più o meno di una robusta palizzata, di cui poi rimbomberranno “sotto i colpi le travi di legno” quando subirà l’assalto dei Troiani: “scuotevano i merli delle torri, abbattevano i parapetti, scalzavano i pilastri sporgenti che gli Achei piantarono in terra per primi per sostenere le torri”. Né può far meraviglia che una simile costruzione, al termine della cosidetta “battaglia delle navi”, abbia finito per cedere sotto l’assalto “in massa” dei Troiani, sia pure con l’aiuto del dio Apollo che “abbatteva il muro degli Achei senza fatica”.
Ma è proprio la fattura di questo muro che ci permette di visualizzare, sul fronte opposto, come dovevano essere le difese di Troia quando Omero, senza descriverle, le paragona al “gran muro degli Achei” la cui fama, finché eretto, secondo il dio Poseidone sarebbe andata “fino a dove si estende l’aurora”, facendo dimenticare “quello che io e Apollo costruimmo [per Troia] con tanta fatica”. Sembra quindi che anche le mura di Troia, peraltro inferiori di qualità, fossero costruite con pietre e tronchi d’albero alla maniera di quelle della città dei Feaci che saranno menzionate nell’Odissea come “alte, lunghissime, rinforzate da pali, meravigliose a vedersi”. All’aspetto, Troia doveva quindi assomigliare più ad un fortino di legno da film western che ad una rocca in muratura micenea, e le sue difese dovevano svolgere soprattutto una funzione di protezione per la popolazione civile. Per questo, in diversi momenti della guerra, i Troiani affrontano il nemico in campo aperto con le mura alle spalle e non al riparo di esse: “furono aperte le porte e gli uomini si lanciarono fuori, a piedi, a cavallo”; senza escludere, naturalmente, che in caso di necessità quelle mura potevano servire da riparo ai soldati in ritirata, come quando tutto l’esercito troiano, inseguito dalla furia di Achille, corre a rifugiarvisi dentro con Priamo che ordina: “Tenete le porte aperte, fino a che gli uomini in fuga avranno raggiunto la città [che] Achille da vicino li incalza… Ma quando, racchiusi fra le mura, avranno ripreso fiato, subito chiudete i saldi battenti che quell’uomo funesto non vi balzi dentro.”
Di fronte alla debole consistenza di questa “muraglia” fatta di pali, Vinci può permettersi di contestare perfino la necessità di un espediente particolare come quello del “cavallo di legno” (di cui peraltro nell’Iliade non c’è traccia) per superarla. La capitolazione finale può così essere stata la conseguenza di una successione di assalti continui da parte dell’esercito acheo finché, dopo la morte di Ettore e di Paride (la seconda è raccontata nel seguito dell’Iliade), si arriverà ad espugnarla approfittando di almeno un punto debole nelle mura. Era un punto debole di cui Andromaca aveva pur avvertito il marito Ettore nel celebre incontro alle porte Scee: “Vicino al fico selvatico è più facile attaccare la città, salire sulle mura. Per tre volte sono venuti a tentare l’assalto gli Achei più forti, spinti da qualche profezia o guidati dal loro stesso coraggio.”
Insomma, una ricostruzione coerente dell’assedio di Troia, a partire da quel prequel dell’Iliade rappresentato da Cypria, un poema epico purtroppo andato perduto e di cui resta soltanto il riassunto lasciatoci da Proclo nella Crestomazia (II sec. d.C.), dovrebbe condurre a ragionare nel modo seguente. A seguito del ratto di Elena ad opera di Paride e dopo la gran fatica ad organizzare una spedizione per andare a riprendersela, gli Achei riescono comunque a salpare in un giorno di una imprecisata primavera, la stagione in cui la navigazione è resa più facile. Radunatisi in Aulide, devono però prima guadagnare la benevolenza degli dèi con un sacrificio umano (o non piuttosto aspettare il vento favorevole?) e così perdono altro tempo. Quando poi sbarcano davanti a Troia (qui muore Protesilao) si danno al saccheggio delle zone circostanti, da cui consegue la lite tra Achille e Agamennone per la spartizione delle schiave. Comunque i Troiani sul momento propongono una resa dei conti “privata” tra Paride e Menelao, intenzionati a restituire Elena e gli altri beni trafugati se l’acheo ne fosse uscito vincitore, mentre Priamo sugli spalti si fa indicare da Elena i principali guerrieri avversari. Il duello, però, non è risolutivo (Paride fugge…) e così ha inizio la prima battaglia campale con “il sangue che bagnava la terra”. Il giorno dopo gli Achei innalzano l’alto muro a difesa della flotta, dopo di che si succedono tutti gli avvenimenti che sono descritti dall’Iliade: dalla iniziale pressione militare troiana alla morte di Patroclo; dal rientro in campo di Achille all’uccisione di Ettore.
Negli altri libri del cosiddetto “ciclo troiano”, e cioè Etiopide, Piccola Iliade e Iliou persis (che costituiscono la prosecuzione del poema omerico e, se pur anch’essi andati perduti, arrivati a noi nel riassunto di Proclo e Fozio), continuano le uccisioni: Pentesilea, regina delle Amazzoni, e Memnone, re degli Etiopi, accorsi in aiuto dei Troiani, sono fatti fuori da Achille che però viene a sua volta ucciso dalla freccia di Paride. Allora gli Achei recuperano l’arciere Filottete che, restituendogli il favore, saetta a morte Paride. E qui sopraggiunge il più clamoroso “colpo di teatro” della vicenda, curiosamente mai considerato dalla tradizione: con i Troiani ormai rinserrati in città, Ulisse vi entra travestito per incontrare Elena e convincerla ad aprire le porte. Lei accetta (e il tradimento le salverà poi la vita), così che, senza bisogno di alcun inganno “equino”, gli Achei possono, in una “notte funesta”, superare le mura di Troia e conquistarla, mentre sul monte Ida si accende quel primo fuoco di segnalazione la cui luce arriverà nella giornata seguente alla reggia di Argo.
A questo punto gli Achei devono pensare al ritorno, ma sono partiti tardi e l’assedio si è prolungato troppo. Se concordiamo con Vinci che le prime battaglie campali, quelle narrate nell’Iliade, possono essersi svolte presumibilmente “nel mese di giugno”, dopo i cinquantun giorni raccontati nel poema omerico ne saranno occorsi almeno altrettanti per gli avvenimenti successivi. Troia sarebbe quindi caduta alla fine di settembre, oppure ai primi di ottobre quando ormai, alle soglie dell’autunno, il tempo si era fatto inclemente e la vendetta degli dèi – per i molti delitti commessi nella distruzione di Troia: il figlioletto di Ettore buttato giù dalle mura, Polissena sgozzata sulla tomba di Achille, Priamo ucciso sull’altare di Zeus e Cassandra violentata ai piedi dell’altare di Atena – risultava inevitabile. Per questo il rientro in patria sarebbe stato così disastroso, con tante navi perdute in mare e Ulisse costretto a peregrinare – lui sì, probabilmente, per un decennio! – prima di ritrovare la via di Itaca.
Nota.
Le citazioni sono liberamente tratte dai seguenti testi:
Eschilo, Agamennone, nella traduzione di Raffaele Cantarella;
Omero, Iliade e Odissea, nella traduzione di Maria Grazia Ciani;
Felice Vinci, Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica, Fratelli Palombi Editori.