Il gran Trump/estio
di Polpo
Tramestio s. m. Movimento continuo e disordinato di persone o cose.
Trump/estio s. m. Peggio
Dipinto dalla stampa “progressista” come il ricettacolo di tutti i mali, descritto come razzista, sessista, evasore fiscale, accusato dalla candidata del Partito Democratico di non essere adeguato a svolgere il ruolo di commander in chief (chissà perché Hillary ha usato questo linguaggio militare, che fosse alla ricerca di una guerra e che lei già si pensasse il comandante in capo?), osteggiato dalla potente lobby della finanza mondiale, eppure, alla fine, Donald Trump è stato eletto 45° presidente degli Stati Uniti d’America.
Un “populista” alla Casa Bianca! Sì, ma chi sono questi “populisti” che raccolgono sempre più consensi in molte nazioni dell’occidente capitalista?
Secondo la vulgata della “sinistra istituzionale” sono beceri soggetti di destra che sfruttano il malcontento di ampie porzioni della popolazione per arrivare al potere. Una spiegazione che non spiega. Infatti, gli illuminati progressisti non spiegano perché quote crescenti dei cittadini occidentali, appartenenti soprattutto ai ceti popolari, siano così “poco contenti” della loro condizione da abbandonare i partiti di sinistra (e di centro e di centro destra) per votare degli impresentabili populisti. Si tratta di un cattivo umore passeggero o c’è qualche motivo più serio e solido che li motiva?
Secondo uno studio del PewResearchCenter (The American middle class is loosing ground, 9 dicembre 2015) negli Stati Uniti la cosiddetta “classe media” è stata superata in numerosità dalla somma delle fasce sociali più e meno abbienti. Ma siccome una famiglia viene classificata come appartenente alla classe media se il suo reddito cade nell’intervallo compreso tra i due terzi e il doppio del reddito mediano familiare americano, allora questa definizione lascia intendere che questa middle class non è poi altro che quell’insieme di persone che, negli anni ’30 del secolo scorso, veniva chiamato working class.
Ora, non è difficile scorgere in questo suo impoverimento l’effetto della sistematica distruzione dell’industria manifatturiera USA, smantellata a colpi di delocalizzazione e aumento delle importazioni rese più convenienti da un dollaro il cui valore è stato mantenuto artificialmente alto nel ventennio che abbraccia gli anni ’80 e ’90. Così si sono persi posti di lavoro ben retribuiti. Così si è svilito lo stesso orgoglio di un ceto produttivo che si riconosceva nella qualità e nel successo dei prodotti che fabbricava. Sono stati proprio gli anni del presidente Clinton quelli in cui tale processo è arrivato a compimento. Sono stati gli anni della finanza liberata dalle pastoie dello Steagall-Glass Act, che imponeva la separazione tra banche d’affari e banche commerciali, e del dollaro forte, che convogliava verso Wall Street imponenti masse di capitali da tutto il mondo.
Paradossalmente, è stato proprio il partito democratico americano (legato ai sindacati USA) a gestire, per conto della finanza, il processo di globalizzazione che, mettendo in concorrenza i lavoratori occidentali con quelli dei Paesi emergenti, ha irrevocabilmente condannato i primi alla disoccupazione. Per sostenere i consumi interni, si è poi fatto ricorso, come sempre, alla “finanza creativa” dei mutui subprime, delle carte di credito revolving e, più in generale, della erogazione indiscriminata di credito che, sostenendo artificialmente il potere d’acquisto delle famiglie americane, ha oscurato temporaneamente il loro impoverimento. Ma, con la crisi cominciata nell’agosto del 2007, l’allegro festino è giunto al termine e, con esso, anche il flusso di briciole che i finanzieri elargivano alla middle class americana.
Il panorama sociale degli Stati Uniti è, oggi, ben poco rassicurante: milioni di senza casa (gli ex proprietari subprime), una forza lavoro sottoccupata e sottopagata che deve vedersela con milioni di immigrati latinos disposti ad accettare le condizioni peggiori pur di avere un lavoro. Una nazione governata (come altre qui in Europa) da una classe dirigente al servizio di quella élite mondialista, nata e sviluppatasi nell’ambiente delle multinazionali e della finanza globalizzata, che non manifesta alcuna empatia per i propri connazionali caduti nella miseria. La percezione di un destino nazionale comune si è così frantumata e, conseguentemente, è aumentato lo scollamento tra elettori ed eletti, tra cittadini e politici – e la chiamiamo antipolitica!
La distanza è stata amplificata da una sorta di disprezzo praticato dalle élites nei confronti dei “normali” cittadini, passato anche attraverso l’ormai insostenibile linguaggio “politicamente corretto”. Abbiamo così assistito al proliferare di persone istruite attentissime a non usare termini come “negro” o “frocio”, impegnate a garantire le “quote rosa” nei consigli di amministrazione, affrante dai patimenti dei migranti, preoccupate dai maltrattamenti di cani e gatti, ma del tutto indifferenti alla sorte di quei milioni di “dimenticati”, i forgotten men, a cui si è rivolto invece Donald Trump nel suo primo discorso post-elettorale.
Ci ha pensato Ezio Mauro (su “La Repubblica” del 10 novembre u. s.) a descriverli quando però ormai la frittata era fatta: il forgotten man “non è necessariamente un povero, piuttosto si sente un espropriato. Gli hanno tolto qualcosa, non sa dove e quando, ma crede di sapere chi lo ha fatto: l’élite, quell’insieme di vip (la parola più orrenda degli ultimi decenni, che conteneva già tutto quello che ci sarebbe successo), di istituzioni, di politica, banche, affari, organismi internazionali, agenzie di rating, governi, media, mercati, esperti, professori, intellettuali, quel mondo della competenza e dell’esperienza – come Hillary Clinton – che sta oltre il ponte levatoio, oltre il fossato che divide chi ce l’ha fatta dagli altri. Quel mondo che sa tutto, ma per sé, non per tutti”.
Non sentendosi politicamente rappresentato da costoro, il forgotten, frustrato e solitario, inizialmente si riduce al “disimpegno da ogni scelta civica, resta sul divano il giorno del voto, cambia canale tanto, come dice Bauman, la posta è così bassa che votare o non votare è eguale”. Ma poi gli passa davanti un pifferaio magico “che prende a calci il sistema, come vorrebbe fare lui, ma per lui la distanza è troppa e non ha la forza. Quel tipo – tosto, nuovo, finalmente irrispettoso, capace di dire pane al pane, arrogante come e più di chi ha il potere – lo può fare al posto suo. Ma lui dice: facciamolo insieme, è giunta l’ora. Anzi, prendiamoci tutto, tocca a voi, i diseredati della rappresentanza, io vi apro la strada”. E il forgotten risponde: perché no?
È in questo clima che nasce e prende corpo l’inaspettato (?) trionfo elettorale di Donald Trump, il tycoon che, evidentemente, ha percepito meglio il problema centrale di milioni di americani “dimenticati”, ha capito le loro frustrazioni, ha colto il vuoto politico da riempire e, contro tutte le aspettative (perfino contro l’establishment del suo partito), ha vinto la competizione elettorale.
Intendiamoci: The Donald non è Lenin. Tuttavia, il nuovo inquilino della Casa Bianca porterà novità tanto sul piano economico, quanto su quello geopolitico. Che gli Stati Uniti possano cominciare a rappresentare un freno nello sviluppo della globalizzazione, dopo esserne stati i promotori? Se Trump darà attuazione alle promesse elettorali, si assisterà, nel medio periodo, ad un deprezzamento del dollaro, indispensabile per sostenere la reindustrializzazione degli USA, mentre il processo di ricostruzione interna, perseguito anche attraverso politiche di spesa pubblica, lascerà meno spazio al ruolo di gendarme mondiale esercitato dai precedenti governi americani. Si dovrebbero stemperare le tensioni politico-militari con la Russia, mentre aumenterebbero (sul piano economico e commerciale) quelle con i Paesi esportatori netti verso gli Stati Uniti (la Cina in testa). Il deficit pubblico degli Stati Uniti salirebbe, così come il suo debito (alla stessa maniera degli anni “gloriosi” della Reaganomics), mentre nel medio termine la risalita dei tassi di interesse potrebbe far scoppiare diverse bolle finanziarie un po’ dovunque e mettere in difficoltà i Paesi più indebitati (come l’Italia).
Ma le conseguenze più rilevanti si avrebbero, con tutta probabilità, in Europa. Dopo Brexit, il processo di unificazione europea difficilmente arriverebbe a sopravvivere al Trump/estio. L’attrazione verso i partiti “populisti” (quasi tutti di estrema destra) sarebbe destinata ad aumentare e il susseguirsi delle normali scadenze elettorali si trasformerebbe in un film dell’orrore per le aristocrazie “euriste”, con il loro progetto di moneta unica che potrebbe imboccare la strada per entrare nel novero dei ridicoli “fallimenti della storia”.
Sarebbe, per ultimo, il ritorno in grande stile della destra sociale. Una cosa forse non troppo sorprendente in un quadro in cui la sinistra “di partito e di governo” è schiacciata da tempo dalla parte degli interessi del grande capitale finanziario internazionale.