Sul Referendum costituzionale, ovvero i boschi neri della Repubblica
di Giorgio Morgione
Iniziamo da una domanda: si può sostenere che la modifica costituzionale contenuta nel ddl Boschi-Renzi-Verdini sia un attacco alla dialettica politica? L’espressione dialettica politica indica sinteticamente la presenza attiva e concreta di un dispositivo di confronto tra le parti, che ha lo scopo di dare misura ed equilibrio al momento decisionale e all’esercizio del potere. Di tale dispositivo, la democrazia è premessa e conseguenza. Nel secondo Dopoguerra l’Italia ha sperimentato un clamoroso ritorno alla dialettica democratica, più articolato, intenso e critico rispetto al passaggio di secolo. All’indomani della liberazione, sorsero e risorsero partiti, di massa e non, a rappresentare il malessere, le idee e le attese delle altrettanto diverse categorie sociali, preparando così il terreno della svolta repubblicana. Nel 1948 la Costituzione repubblicana tira il primo respiro e da quel momento, nel bene o nel male, l’Italia ha attraversato uno sviluppo democratico che l’ha accompagnata fino ad oggi. Ricordiamo anche che la Costituzione parla di una Repubblica democratica, di una sovranità che appartiene al popolo e di un ordinamento bicamerale paritario a rappresentanza del popolo e a garanzia della democraticità del legislativo.
Il prossimo Referendum costituzionale chiama l’elettorato a decidere se conservare l’impianto fondamentale del testo, votando NO; o se modificarlo attraverso la riscrittura di 47 articoli, votando SI. Bisogna dunque riconoscere la correttezza lessicale dei promotori della legge di modifica, poiché, considerata la sua portata trasformativa, si tratta effettivamente di una riforma, sebbene la stessa Costituzione non contempli in nessun articolo la possibilità di essere riformata, bensì solo di essere sottoposta a revisione (art. 138). L’uso della parola riforma è dunque corretto quando descrive le attuali intenzioni di modifica costituzionale, mentre in pratica, l’attuazione di una riforma, vieppiù se prevede la modifica di 47 articoli su 139, è illegittima.
Ma non è il caso di annoiarsi con cavilli lessicali, vorrei piuttosto tentare due brevi analisi sul merito di questa riforma: 1) della dialettica democratica e 2) delle cause “remote” del Referendum.
1) Occorre anzitutto domandarsi se in uno stato democratico l’arte di governare sia mediazione, oppure se debba assomigliare a qualcosa che si può definire come immediatezza e univocità della volontà del politico. Sono trascorsi 68 anni dal momento in cui la Costituzione repubblicana d’Italia è entrata in vigore. Durante questo arco di tempo sono cambiate molte cose, in Italia come nel resto d’Europa, ma resta viva (ancora per quanto?) una categoria della pratica politica, quella che ha guidato i padri costituenti e che i promotori di questa riforma vorrebbero ignorare: la dialettica politica. Se la democrazia è partecipazione, e l’Italia è un paese democratico per Costituzione, allora ciò che ci si dovrebbe aspettare dalla classe politica è, appunto, la ricerca e la promozione della dialettica politica. Ma cosa vuol dire? Se nel V secolo a.C. la democrazia fece la sua comparsa su questa terra fu perché si pensò che esistessero un valore e una dignità della persona e che tali attributi dovessero emergere e trovare espressione nel dibattito pubblico. Obiettivo: presentare i propri interessi alla collettività per il bene proprio e di tutti. Affinché ciò fosse possibile era necessario che le istanze dell’individuo giungessero nella piazza per avere udienza ed essere discusse. Certo, era la hegeliana bella eticità, eppure era l’alba della cittadinanza.
E oggi, cosa siamo noi? Siamo ancora persone, o meglio, siamo ancora cittadini? Che valore abbiamo noi? Quale dignità? È nostra tradizione ormai attribuire più importanza alla morale individuale, piuttosto che all’etica dello Stato. E così capita che a forza di evocare lo spauracchio della corruttibilità della classe politica per dare credito all’esigenza di snellire i processi democratici e di rafforzare il potere dell’esecutivo a garanzia di maggiore governabilità, si finisce per perdere di vista la materia e la finalità della stessa democrazia. Il ddl Renzi-Boschi-Verdini vuole togliere al Senato parte della sua autorità legislativa (vedi modifiche all’art. 70). Vuole svilire il diritto di parola di una camera del Parlamento. Data la posta in gioco, occorrerebbe ricordare che il Senato della Repubblica italiana ha avuto fino a oggi la funzione di prendersi cura di noi, mentre i promotori della Riforma pensano che – fatta eccezione per alcune prerogative non ordinarie – la parola di una sola camera sia sufficiente. Se facessi finta che lo Stato sia la mia persona in carne e ossa, per provvedere alla mia salute preferirei di gran lunga il parere di due medici specialisti, piuttosto che di uno solo. Ma quel che è peggio, è che con un’amplificazione dei poteri del Premier come è quella prospettata dalla modifica costituzionale, mi ritroverei addirittura nelle mani dell’infermiere.
A quelli che affermano che a questo Paese democratico occorre una semplificazione dell’ordinamento statuale, a chi insiste nel dire che il superamento del bicameralismo paritario non può più attendere, si risponda che la democrazia è un dispositivo faticoso e per questo necessariamente lento. E la lentezza non è retorica reverenziale, bensì il passo proprio della dialettica politica nell’esercizio delle sue funzioni. Questo vale a prescindere da tutto quello che ragionevolmente si può dire sull’inadeguatezza del bicameralismo paritario italiano rispetto agli standard contemporanei.
2) Partiamo da un fatto: l’Italia ha un deficit a tre cifre, con banche in crisi, carenza di liquidità, calo degli investimenti e aumento della disoccupazione. Un paese con simili requisiti è una ghiotta piazza d’affari per grandi istituzioni finanziarie (Goldman Sachs, J.P. Morgan), giacché vi acquistano a buon mercato beni capitali e crediti in sofferenza (vedi caso MPS). Sarebbe poi ancor meglio se nello stesso paese non ci fosse una Costituzione rigida, nata nel secondo Dopoguerra, che afferma la piena sovranità popolare, un forte principio di rappresentanza, il diritto al lavoro. Le megaistituzioni finanziarie che approfittano della crisi per accaparrarsi capitali speculando sui paesi in difficoltà, hanno bisogno che in questi paesi ci siano: a) esecutivi autoritari in grado di legiferare per garantire; b) una distribuzione della ricchezza a favore della proprietà privata con la quale fare affari, pertanto le megaistituzioni finanziarie debbono convincere i governi ad attuare riforme strutturali che favoriscano il loro tornaconto. Per riuscirci non occorrono soltanto validi consulenti come Tony Blair, ma anche l’aiuto di componenti filoimperialiste dell’Unione europea. E i governi nazionali, cosa ricevono in cambio? Il nostro, dopo averlo cercato nella classe degli imprenditori con il jobs act, nella classe dei lavoratori dipendenti con gli 80 euro e mentre lo cerca nella popolazione anziana con la riforma pensionistica, guadagnerebbe ulteriore sostegno dall’ampio e potente comparto industriale. Come si fa allora ad abbattere l’ostacolo delle Costituzioni garantiste che impedisce al grande capitale di crescere? Per esempio complicandone il testo, rendendolo più confuso ed equivoco e quindi re-interpretabile ogni volta che diviene un intralcio per le trame dei potenti.
Verrebbe da chiedersi se una Costituzione complicata e confusa non sia peggiore di una Costituzione magari sgradita nei contenuti, ma scritta con chiarezza e semplicità. A tal proposito, e per concludere, è il caso di scomodare di nuovo Hegel, il quale nel 1821 scriveva le seguenti parole, oggi più che mai attuali: «Appender le leggi così in alto, che nessun cittadino potesse leggerle, ovvero seppellirle nel prolisso apparato di libri dotti, raccolte di opinioni e giudizi discostantisi da decisioni, consuetudini ecc. […] così che la cognizione del diritto vigente è accessibile soltanto a coloro che si addottrinano in esso, – è una medesima ingiustizia. I governanti che hanno dato ai loro popoli, quand’anche soltanto una raccolta informe […] ma ancor più un diritto nazionale, come codice ordinato e determinato, sono non soltanto divenuti i più grandi benefattori dei medesimi e perciò sono stati da essi esaltati con gratitudine, bensì essi hanno con ciò esercitato un grande atto di giustizia» (Lineamenti, § 215). Bravo Hegel: un grande atto di giustizia, che purtroppo la campagna per il SI vorrebbe trasformare nell’ennesima merce di scambio.