Al Referendum preferirei di NO (Bartleby lo scrivano)
di Giorgio Gattei
A metà degli anni ’60, in un celebre comizio, Martin Luther King annunciò di aver fatto un sogno (I have a dream). Più di mezzo secolo dopo a me è capitato di avere invece un incubo: ho sognato che al referendum costituzionale di dicembre vinceva il Sì e, in combinato disposto con la nuova legge elettorale detta “Italicum” che è già in vigore, andavo a votare (nel 2017 o nel 2018 non importa) secondo le nuove regole introdotte dagli “ultimi costituenti”. Ed ecco il mio incubo.
1. Il Senato. Vado al seggio e mi danno una scheda soltanto, quella per la Camera dei Deputati, perché con l’approvazione del referendum è stabilito che «il Governo deve avere la fiducia della sola (ma questa è aggiunta mia) Camera dei Deputati» (art. 94). E’ così abolito il dettato precedente che diceva che «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere», ma questo è il monocameralismo, bellezza! Si tratta di una trasformazione costituzionale importante che renderà finalmente rapida la nomina del Governo e poi duratura, facendola dipendere soltanto dai Deputati e non anche da quei parrucconi dei Senatori! Ed il primo effetto che mi ritrovo è che il Senato io non lo voto più. Però non è detto che non esista più; semplicemente viene eletto in altra maniera e senza di me. E come viene eletto? Trasformato in espressione delle «istituzioni territoriali» (art. 55), esso è ridotto a 100 componenti (visto come si risparmia con la revisione costituzionale!), di cui 5 «che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica» (notare quel “possono” perché potrebbero anche non essere nominati) e 95 eletti dai Consigli regionali «tra i consiglieri regionali e i sindaci in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio«» (art. 57). E’ pur vero che io ho partecipato a scegliere i consiglieri regionali, ma quelli di loro (più i sindaci) che verranno mandati al Senato li decidono loro e non è detto che siano quelli che avrei mandato io se avessi potuto votare.
Ma tant’è. E in che maniera li scelgono? Intanto ogni Regione nomina due consiglieri-senatori e un sindaco-senatore, ma siccome le regioni più le due Province autonome di Trento a Bolzano fanno in tutto 21, vengono così nominati soltanto 63 senatori che con quelli “di nomina regia” sarebbero in tutto 68. Ne mancano perciò ancora 32, che saranno assegnati alle Regioni più grandi «in proporzione alla loro popolazione quale risulta dall’ultimo censimento generale». Per le modalità di nomina ci si dice che provvederà una legge apposita, ma nel frattempo l’art. 139 dispone che ogni Consiglio regionale voti scegliendo tra le «liste di candidati formate da consiglieri e sindaci dei rispettivi territori» che si presenteranno. La lista «che ha ottenuto il maggior numero dei voti» potrà indicare quale senatore «il sindaco oppure, in alternativa, un consigliere regionale nell’ambito dei seggi spettanti», ma se sceglie il consigliere regionale sembra (qui la disposizione non è chiara) che la nomina del sindaco passi alla seconda lista, ma se pure questa sceglie il consigliere regionale, sarebbe la terza lista a dover indicare il sindaco, e così via seguitando fino all’ultimo posto di senatore spettante a quel Consiglio regionale, che per forza dovrà essere assegnato ad un sindaco.
Poi segue la novità più straordinaria della revisione costituzionale perché quei nuovi senatori, non più eletti da cittadini, lavoreranno gratis per noi (art. 69: soltanto «i membri della Camera ricevono una indennità stabilita dalla legge»). Incredibile! Ma siccome è cosa nota che nessuno fa nulla per nulla, c’è da chiedersi quale sarà mai la loro convenienza ad assumere l’incarico di senatore in aggiunta (gratuita) alla precedente mansione di consigliere regionale o di sindaco per la quale risultano pagati. Ce lo svela l’art. 68, che non a caso è rimasto immutato rispetto al testo costituzionale precedente, così da valere sia per i deputati che per i nuovi senatori. Esso recita che «senza autorizzazione della Camera di appartenenza nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale o mantenuto in detenzione» (a meno di sentenza irrevocabile di condanna o di flagranza di reato). E’ il principio della immunità parlamentare che in tempi d’intercettazioni telefoniche può fare molto comodo estendendosi, come dice il comma successivo, alle «intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestri di corrispondenza». Insomma, i consiglieri regionali e i sindaci che si faranno senatori non potranno essere perseguitati (pardon: perseguiti) dalla Magistratura senza autorizzazione del Senato stesso. Se ne deduce che quelli di loro in odor di malefatte faranno il possibile per entrare nelle liste dei senatori “papabili” e per farsi eleggere, pur di rifugiarsi in quel gran “porto delle nebbie” che diventerà il nuovo Senato dove le inchieste giudiziarie finiranno per perdersi.
Ma perché sprecar tempo sulle «funzioni di raccordo» (art. 55) che avrà questo nuovo Senato quando interverrà, insieme alla Camera di Deputati, ad esercitare quel poco di funzione legislativa che gli rimane? E’ il famigerato art. 70 di cui tutti sparlano e che io vi risparmio. Una sua parte però non ve la risparmio, ed eccola: «… e per le leggi di cui agli art. 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma e 132, secondo comma. Le altre leggi sono approvate dalla sola Camera dei deputati». E’ così che si revisiona una Costituzione, sebbene ipocritamente proclamata “la più bella del mondo”!
2. La Camera. Comunque io, da semplice elettore, non mi curo di questo Senato che non contribuisco a formare. Però nel seggio elettorale ho la scheda in mano per scegliere i deputati ed è qui che posso sfogare la mia preferenza politica per favorire quella maggioranza parlamentare che sarà l’unica a dare la fiducia al Governo. E si tratta di una Camera mica da poco se si pronuncerà «in via definitiva entro il termine di 70 giorni» dalla delibera di urgenza (e quindi, come si dice, “a data certa”) sui «disegni di legge indicati come essenziali per l’attuazione del programma di Governo» (art. 72); se ogni anno approverà, da sola, «il bilancio e il rendiconto consuntivo presentato dal Governo» (art. 81); se potrà in solitario «deliberare a maggioranza assoluta lo stato di guerra conferendo al Governo i poteri necessari» (art. 78); se disciplinerà «lo statuto delle opposizioni» (che non so cosa sia) (art. 64); se potrà intervenire su qualsiasi materia di competenza regionale «quando lo richieda la tutela della unità giuridica ed economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (art.117); ed il cui Presidente (non più quindi il Presidente del Senato) eserciterà «le funzioni del Presidente della Repubblica nel caso che egli non possa adempierle» (art. 86). Insomma, come si vede, è una Camera in grado di fare il bello e cattivo tempo, senza più l’inciampo del Senato, i cui rappresentanti io, con la scheda elettorale in mano, sto accingendomi a scegliere.
Apro allora la scheda e ci trovo indicati i partiti (ma li chiamano “liste”) che concorrono alla rappresentanza parlamentare. Ed ecco la prima novità di quella nuova legge elettorale per la quale ciascun partito deve correre da solo, non essendo più ammessi quegli “apparentamenti” (leggi: “parentele”) per cui mi trovavo a mandare al Parlamento il partito A, anche se non mi andava bene, se votavo per una delle liste apparentate, che sono quei partiti minori se non minimi, come Ala, Petto o Coscia, che così potevano mandare qualcuno dei loro al Parlamento. Adesso, quando scelgo la lista, è solo quella che scelgo e nessun’altra, giusta la logica “grillina” che “uno vale uno” che adesso si è allargata fino ai partiti da spedire alla Camera.
Però accanto al simbolo del partito trovo un nominativo già stampigliato: è quello del capolista, il cui nome è “bloccato” perché, se scelgo quel partito, alla Camera deve andarci assolutamente lui. Se poi è vero il fac-simile di scheda elettorale pubblicato dal “Sole-24 ore” il 29 giugno 2016, il nome del capolista precede addirittura il simbolo della partito, a prova che la scelta si fa sulla persona piuttosto che sulla lista, essendo il capolista la persona che il partito intende far vincere. E per non farlo fallire è previsto che lo si possa presentare capolista in più collegi, fino a un massimo di 10 su 100 che sono in totale, cosicché prescelto dal partito (o piuttosto dal suo segretario?) verrà paracadutato nei dieci collegi anche se sconosciuto o impopolare o addirittura impresentabile. Ma così è: il voto alla lista/partito passa per quel nominativo e peggio per me se mi piace il partito ma non il capolista: o me lo voto o voto contro il mio partito.
E siccome un simile marchingegno è valido per tutti i partiti in gara, saranno tutti i loro capilista ad avere una corsia preferenziale di accesso alla Camera, a meno che la lista non superi la soglia di sbarramento del 3% dei voti (nel qual caso resterà fuori) oppure non raggiunga in un dato collegio i voti sufficienti per strapparvi almeno un seggio (in ogni collegio si eleggeranno dai 3 ai 9 deputati). Qualcuno ha provato anche a stimare quanti capilista “bloccati” potrebbero finire alla Camera ed è risultato che potrebbero essere addirittura 375 su 630, lasciando appena 255 seggi alla libera scelta degli elettori. Perché comunque una libera scelta io ce l’ho se nella scheda elettorale, accanto al nome del capolista, ci sono anche due righe libere dove potrò finalmente indicare i nomi di chi mi piace traendoli dagli elenchi predisposti da ciascuna lista. Ma qui scatta un’altra limitazione di legge, perché delle due preferenze una dovrà essere “al maschile” e l’altra “al femminile”, a pena dell’annullamento della seconda preferenza se al maschile oppure al femminile come la prima (un eventuale nominativo “trans” non farebbe problema?). E’ questa la clausola di genere introdotta per promuovere «l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza» (art. 55), che però non è stata inserita nella designazione dei capilista che quindi potrebbero essere anche tutti quanti “al maschile”.
Ma che importa? Io voto bene: scelgo o ingoio il capolista, indico le mie due preferenze maschio/femmina ed il mio voto si aggiunge agli altri nel determinare quanti del mio partito finiranno alla Camera dei deputati su base nazionale. Ma non in proporzione ai voti espressi perché alla lista che supera il 40% dei voti validi verrà assegnato il 54% dei seggi, e quindi 340 deputati su 630, 88 in più di quelli che gli sarebbero spettati proporzionalmente. E’ questo il premio di maggioranza, variante renziana della “legge truffa” di democristiana memoria, che allora fu ferocemente osteggiata e sconfitta ai voti ma che adesso fa bella mostra di sé nella legge elettorale a prova che i tempi sono veramente cambiati da allora. E’ lo zuccherino che gli “ultimi costituenti” si sono inventati per indurre gli elettori di un partito/lista a votarlo subito in massa al primo turno, così da fargli superare l’asticella del 40% ed assicurargli per legge (e non per voto) la maggioranza assoluta alla Camera.
Ma perché quel 40%? Mi sa che la cifra sia stata condizionata dal successo elettorale del Partito Democratico alle elezioni del maggio 2014, quando il “PdR” (Partito di Renzi) è passato dal precedente 25,4% delle elezioni politiche del 2013 al 40,8% dei voti. E’ vero che quelle del 2014 erano elezioni europee, ma allora si pensava che quel risultato fosse acquisito per sempre, così da ripetersi alla prima tornata elettorale nazionale utile. E i sondaggi sembravano dare conferma di ciò se nelle intenzioni di voto del giugno 2014 il PD scalò la vetta eccezionale del 45,2%. Era fatta: a queste condizioni il PD avrebbe vinto a mani basse, guadagnandosi al primo turno quel premio di maggioranza alla Camera che avrebbe garantito la fiducia ad un Governo tutto “piddino” e poi la stabilità governativa e quant’altro fino al termine della legislatura.
Eppure già nel 2015 l’incanto elettorale si era incrinato perché nelle intenzioni di voto il PD era scivolato al 35%, così da mancare il premio di maggioranza al primo turno. Però nell’Italicum era previsto il salvagente del ballottaggio: se infatti nessun partito superasse il 40% dei voti, la spartizione dei seggi alla Camera sarebbe rimasta congelata fino all’espletamento di un secondo turno elettorale tra i due partiti più votati, che si sarebbero sfidati in un epico duello e, come al solito, da soli. ossia senza apparentamenti. Ed al partito che al ballottaggio avesse preso il (50%+1) dei voti sarebbero stati assegnati i 340 deputati del premio di maggioranza, lasciando al partito sconfitto e agli altri partiti passati al primo turno la spartizione, da buoni perdenti, dei 290 seggi rimasti. Anche in questo caso l’intenzione dell’Italicum era chiara: cari elettori del partito A, se non lo avete votato a sufficienza al primo turno, lo voterete più che a sufficienza al ballottaggio quando la scelta sarà ridotta a “voi contro tutti gli altri”. E siccome si prevedeva che ci sarebbe stata disaffezione al voto nella ripetizione elettorale, non è stata prevista alcuna percentuale minima di votanti per la sua validità, col paradosso che se mai al ballottaggio partecipassero tre elettori, due per il partito A e uno per il partito B, al partito A spetterebbero i 340 deputati, avendo brillantemente superato al secondo turno, con due voti soltanto, il (50%+1) dei voti validi.
3. Il risultato elettorale. Però il diavolo, come si sa, insegna a fare le pentole e non i coperchi. Col ballottaggio si dà infatti per scontato che il senso di appartenenza partitica (da non confondersi con l’appartenenza politica) rimanga immutato tra i due turni elettorali, così che nessuno tradisca il voto dato al primo turno. Ma se così non fosse? Proprio a Bologna, una volta città di fedelissimi “piccini” a tutta prova, non s’è fatta esperienza della possibilità del “tradimento” quando alle elezioni municipali del 1999 vinse il candidato “civico” perché buona parte dell’elettorato di sinistra non si riconobbe nel nominativo indicato dal partito? Il fatto è, per dirla alla moderna, che ormai le opinioni politiche non sono più ideologiche (per cui “giusto o sbagliato che sia è comunque il mio partito”), ma si sono fatte “liquide” nel senso che la fedeltà ad ogni costo non è più considerata una virtù ed è possibile, senza complessi di colpa, cambiare espressione di voto andando da qui a là o viceversa, come i risultati elettorali delle ultime elezioni amministrative hanno dimostrato. Insomma, non c’è più certezza che un partito, sebbene il più votato al primo turno ma rimasto al di sotto del 40%, non possa vedersi coagulare contro, nel partito sfidante al ballottaggio, non solo l’insieme delle opposizioni più varie, ma addirittura porzioni del proprio elettorato in dissenso con il suo segretario,
Ma si può tentare di quantificare? Escludiamo comunque i cambi di casacca, che sono sempre possibili ma non sono preventivabili. Secondo le intenzioni di voto al settembre 2016 il PD è dato al 32,1% così da dover richiamare su di sé, ad un eventuale ballottaggio, anche l’elettorato (si noti bene: non i partiti, che gli apparentamenti non sono permessi) sia di sinistra (5,7%) che di centro (3,9%). E tuttavia ciò non basterebbe ancora perché la somma fa appena il 41,7%, ossia al di sotto di quel (50%+1) dei votanti, sicché dovrebbe in qualche modo “compromettersi” con l’elettorato di Forza Italia (11%), ma con la difficoltà di non poter offrire alcuna contropartita parlamentare a quel partito perché i 340 deputati del premio di maggioranza se li dovrebbe scegliere comunque e soltanto dentro la lista di un partito “che non può fare coalizioni”. E quell’elettorato sarebbe disposto a votarlo gratuitamente, come fanno i nuovi senatori, dopo le disgrazie del “bail in”, della “buona (?) scuola”, del “jobs act” e della “gestione migranti”? Mi sembra improbabile.
Però alla stessa difficoltà va incontro anche l’altro partito sfidante, che al momento è il “Movimento 5 Stelle” che è dato al 28,8% nelle intenzioni di voto del settembre 2016. Ma con una differenza non da poco perché se su di esso si coagulasse l’intera opposizione “anti-Renzi”, ossia l’elettorato di Forza Italia (11%), della Lega (10,2%) e dei Fratelli d’Italia (4,5%), anche senza contare eventuali “tradimenti” a sinistra arriverebbe al 54,5%, superando così la soglia discriminante del (50%+1). Non dovrebbe quindi alcuna necessità di compromettersi con l’elettorato “piddino”, che resterebbe del tutto fuori dai giochi, e si guadagnerebbe quei 340 seggi di premio di maggioranza da coprire alla Camera con soli propri rappresentanti, lasciando al PD sconfitto la magra consolazione di dividersi con Forza Italia, la Lega ed ogni altro partitino di centro, destra e sinistra i 290 seggi rimasti.
E siccome la revisione costituzionale (che nel mio incubo è stata approvata) assegna in esclusiva alla Camera dei deputati il potere di “fiduciare” il Governo (addirittura nel nuovo testo costituzionale ciò è ripetuto due volte, caso mai qualcuno se lo scordasse: all’art. 55, «La Camera dei Deputati è titolare del rapporto di fiducia col Governo», e all’art. 94, «Il Governo deve avere la fiducia della Camera dei Deputati»), allora è proprio questa, al di là di ogni altro arzigogolo su cui si discute, l’effettiva chiave di volta del referendum decembrino: sapere chi sarà a governare, ma non già la sera del primo turno elettorale nel caso malaugurato del mancato superamento della soglia per il premio di maggioranza, bensì la sera del ballottaggio, essendo quel premio necessariamente assegnato. Nelle cattive intenzioni degli “ultimi costituenti” a governare sarebbe stato il PD, ma nel mio incubo l’esito era diverso con un Governo “a partito unico grillino” per effetto del coagulo, nelle elezioni di ballottaggio, di tutte le opposizioni contrarie al PDR (PartitoDiRenzi) sul Movimento 5 Stelle. Però la conseguenza più rilevante sarebbe un’altra: un PD definitivamente ridimensionato nella geografia politica nazionale per effetto della vittoria del Sì nel referendum di dicembre “in combinato disposto” con quell’Italicum che dal luglio 2016 è legge dello Stato.
Nel pieno della crisi bolognese del 1977, di cui l’anno prossimo si dovrebbe festeggiare (sic!) l’anniversario, di fronte al comportamento verognoso del Partito Comunista di allora m’inventai lo slogan “il PCI è piccino”, che a quei tempi sembrava una colossale fesseria. Nel mio incubo era invece proprio questo che succedeva e su questa prospettiva onirica mi sono risvegliato tutto sudato. E ci ho pensato: ma quale incubo? Era un sogno, un bellissimo sogno, sì che quasi quasi al referendum voto Sì.