5 maggio 1821 (in memoriam): il Mee Too dell’”ei fu”
da “Vita di Napoleone” di Henri Beyle Stendhal
«Noi stessi abbiamo abitato per parecchi anni alla sua Corte» (Stendhal)
“Quando cominciò a scrivere la Vie de Napoléon Henri Beyle si firmava Stendhal da appena un anno. Lo scrittore era in pratica nato dalle ceneri dell’epopea napoleonica: logico quindi, se non addirittura necessario che tentasse di fare i conti con il proprio passato, con il proprio idolo e tiranno, con la propria capacità di amore e la propria capacità di odio. Questa biografia di un grande della storia che tende a diventare autobiografia di un individuo e di una generazione, questa testimonianza di reduce che sconfina nelle ipotesi e nelle recriminazioni del senno di poi, questo romanzo che si pretende vero, questo documento che di continuo si mette in dubbio e si sconfessa a forza di immaginazione, questa Vie de Napoléon passionale, imprecisa, unilaterale nell’informazione, incoerente, frammentaria, lacunosa nello sviluppo, restò incompiuta”.
(dalla quarta di copertina di: Stendhal, Vita di Napoleone (1818), Bompiani, 1977).
Nel 1785 esisteva una società; avveniva cioè che alcuni esseri, indifferenti l’uno all’altro, riuniti in un salotto, riuscivano a procurarsi se non godimenti molto vivi, almeno piaceri assai delicati e mutevoli. Il piacere della società divenne anzi così necessario, che giunse quasi a sopprimere i godimenti che attengono alla natura più intima dell’uomo e all’esistenza delle grandi passioni e delle altre virtù. Le cose forti e sublimi non si trovarono più nei cuori dei francesi. L’amore soltanto fece qualche rara eccezione. Ma poiché le grandi emozioni non si incontrano che ad intervalli molto lontani, mentre i piaceri del salotto sono di tutti i giorni, la società francese aveva tutte le attrattive che le procurava il dispotismo della lingua e delle belle maniere. Senza alcun dubbio, però, questa estrema raffinatezza aveva interamente distratto l’energia nelle classi ricche della nazione. Restava quel coraggio personale che trova origine soltanto nell’estrema vanità e che la raffinatezza tende a irritare e ad alimentare incessantemente nei cuori.
Ecco che cos’era la Francia, quando la bella Maria Antonietta, volendo concedersi i piaceri di una donna graziosa, trasformò la Corte in una società. A Versailles non si era più ricevuti perché si era duca e pari, ma perché la signora di Polignac si era degnata di trovarvi piacevole. Si scoprì che il re e la regina mancavano di spirito. Di più, il re non aveva carattere, e così accessibile a tutti i distributori di consigli, non seppe nè gettarsi fra le braccia di un ministro nè mettersi sotto il giogo dell’opinione pubblica. Da molto tempo quasi non era più utile andare a Corte, ma le prime riforme del signor di Necker, colpendo gli amici della regina, resero questa verità lampante a tutti. Da allora la Corte cessò d’esistere.
La Rivoluzione cominciò per l’entusiasmo delle anime belle di tutte le classi. Nell’Assemblea costituente la destra esplicò una resistenza inopportuna e ci volle dell’energia per piegarla: ciò significava chiamare sul campo di battaglia tutti i giovani delle classi medie, i quali non erano stati indeboliti dalla eccessiva raffinatezza. Tutti i sovrani d’Europa fecero lega contro il giacobinismo. Allora avemmo lo slancio sublime del 1792. Ci volle una carica maggiore di energia ed uomini di una classe ancora meno elevata, e così, persone di età giovanissima si trovarono al comando degli affari. I nostri generali più grandi uscivano dalle file dei soldati per comandare, come per divertimento, eserciti di centomila uomini. In quei momenti, i più grandi negli annali della storia di Francia, la raffinatezza fu bandita per legge. Tutto ciò che sapeva di raffinato divenne giustamente sospetto a un popolo circondato da traditori e da tradimenti, e si sa benissimo che non si aveva tutti i torti a temere una controrivoluzione.
Ma non è con una legge o con un movimento entusiastico che un popolo o un individuo possono rinunciare a un’antica abitudine. Alla fine del Terrore, si videro i francesi ritornare con furore ai piaceri della società. Fu nei salotti di Barras che Bonaparte si trovò per la prima volta in mezzo a quei piaceri delicati ed incantevoli che possono essere offerti soltanto da una società raffinata. Ma, come quello schiavo che si presentava al mercato di Atene carico di pezzi d’oro e senza monete di rame, il suo spirito era di natura troppo elevata, la sua immaginazione troppo infiammata e fulminea, perché egli potesse mai aver successo in un salotto. D’altra parte era giunto a ventisei anni con un carattere già formato e inflessibile.
In quei primi momenti che seguirono al suo ritorno dall’Egitto, la Corte delle Tuileries consistette in serate di bivacco. Vi si trovavano franchezza, naturalezza e mancanza di spirito. La signora Bonaparte soltanto dava un tono di delicatezza, ma quasi furtivamente. La società della figlia Ortensia e la propria influenza addolcirono a poco a poco il carattere di ferro del primo console. Egli ammirò la raffinatezza e le belle maniere del signor Talleyrand. Costui dovette ad esse una stupefacente libertà.
Bonaparte si rese conto di due cose: che, se voleva essere re, era necessaria una Corte per sedurre il debole popolo francese, per il quale la parola Corte è onnipossente. Si vedeva alla mercé dei militari. Una congiura delle guardie pretoriane poteva gettarlo dal trono alla morte. Un contorno di prefetti di palazzo, di ciambellani, di scudieri, di ministri, di dame di Corte si sarebbero imposti ai generali della guardia, i quali erano anch’essi francesi e avevano perciò un rispetto innato per la parola Corte.
Ma il despota era sospettoso: il suo ministro Fouché aveva delle spie persino fra i marescialli. L’imperatore aveva cinque polizie differenti, che si controllavano a vicenda. Una parola che si allontanava un poco dall’adorazione, non dico per il despota, ma per il dispotismo, rovinava per sempre. Egli aveva eccitato al più alto grado l’ambizione di ciascuno. Con un re che era stato sottotenente d’artiglieria, e con dei marescialli che avevano cominciato la carriera come strimpellatori di violino ovvero come maestri d’armi, non c’era uditore che non volesse diventare ministro, o sottotenente che non aspirasse alla spada di conestabile. Infine, l’imperatore volle far sposare la sua Corte in due anni. Niente rende più schiavi; e, fatto ciò, volle rispettati i costumi. La polizia intervenne in maniera grossolana nelle disgrazie di cuore di una povera dama di Corte. Infine questa Corte si componeva di generali e di giovani che non avevano mai assaporato la raffinatezza da cui il regno decadde nel 1789.
Niente era più adatto per impedire la rinascita dello spirito di società. Non vi fu più società. Ognuno si era rinchiuso all’interno della propria vita familiare; fu, quella, un’epoca di virtù coniugale. Un generale mio amico voleva dare un pranzo di venti coperti. Andò da Véry al Palais Royal. Ascoltati i suoi ordini, Véry gli disse: “Voi sapete senza dubbio, generale, ch’io sono obbligato a dare avviso del vostro pranzo alla polizia, perché vi mandi qualcuno dei suoi uomini.” Il generale rimase molto stupito, e ancor più fortemente irritato. La sera, incontrando il duca d’Otranto, a un consiglio imperiale, gli disse: “Perbacco, è piuttosto grossa, non poter dare un pranzo di venti persone senza dover sopportare uno dei vostri uomini!” Il ministro si scusa ma non deflette minimamente da quella condizione necessaria; il generale si indigna. Infine Fouché gli dice, come per un’ispirazione: “Orsù, diamo un’occhiata a questa lista!” Il generale gliela dà. Appena il ministro arriva al terzo nome sorride e rendendogliela dice: “Non c’è bisogno che invitiate degli sconosciuti.” E i venti invitati erano tutti dei gran personaggi!
Dopo lo spirito pubblico, ciò che il monarca aborriva di più era lo spirito di società. Egli proscrisse furiosamente l’Intrigante, commedia che pure era di un autore venduto all’autorità, ma che osava prendere in giro i suoi ciambellani; tra l’altro erano messe in ridicolo le dame di Corte che, sotto Luigi XV, facevano dei colonnelli. Questo episodio, pur così lontano da lui, lo scandalizzò profondamente: si era osato prendere in giro una Corte. In mezzo a un popolo spiritoso, ove si sacrifica gaiamente la propria fortuna al piacere di dire un motto di spirito, ogni mese circolava qualche nuova battuta maligna; ciò lo amareggiava. Talvolta il coraggio arrivava fino alla canzone; egli era allora nervoso per otto giorni e maltrattava i capi delle sue polizie. Ciò che avvelenava questa piaga era il fatto che egli era molto sensibile al piacere di avere una Corte. Il suo secondo matrimonio rivelò una nuova debolezza del suo carattere. Era lusingato all’idea che lui, sottotenente d’artiglieria, fosse arrivato a sposare la nipote di Maria Teresa. La vana pompa e il cerimoniale di Corte sembravano fargli lo stesso piacere che se fosse nato principe. Arrivò a tal punto di follia da dimenticare la sua prima qualità, quella di figlio della Rivoluzione. Federico, re del Württemberg e vero re, gli disse, in uno di quei congressi che Napoleone teneva a Parigi per giustificare agli occhi dei francesi il titolo di imperatore: “Alla vostra Corte non vedo nessun nome storico; io quella gente, o la farei impiccare tutta, oppure la metterei nella mia anticamera.” È forse questo l’unico consiglio importante che Napoleone abbia mai seguito, e lo seguì con un rispetto in se stesso ben ridicolo. Immediatamente le cento più grandi famiglie di Francia andarono a pregare il signore di Talleyrand di costringerle a entrare a Corte. L’imperatore, stupito, disse: “Quando ho voluto avere la giovane nobiltà nel mio esercito, non ho potuto trovarla.” Napoleone ricordò così alle grandi famiglie che erano grandi senza lui: esse l’avevano dimenticato. Ma egli era anche costretto, come ha confessato in seguito, a cedere a questa sua debolezza con la più grande prudenza: “Perché, tutte le volte che toccavo questa corda, gli animi fremevano come un cavallo cui si tira troppo la briglia.” Egli, colpiva l’unica passione del popolo francese: la vanità. Finché aveva colpito soltanto la libertà, tutti lo avevano ammirato.
Napoleone, povero e tutto dedito a cose serie in gioventù, era peraltro ben lontano dall’essere indifferente verso le donne. La sua figura estremamente magra, la sua statura piccola, la sua povertà, non erano certo fatte per procurargli audacia e successi. In questo campo bisognava avere un coraggio a piccole dosi. Non mi meraviglierebbe affatto l’idea ch’egli fosse un timido con le donne. Temeva le loro frecciate, e quell’anima inaccessibile al timore, quando fu potente, si vendicò di loro, esprimendo in ogni occasione e con crudezza un disprezzo che non avrebbe certo manifestato, se fosse stato reale. Prima della sua grandezza, scriveva a un amico, l’ordinatore Rey, a proposito di una passione che teneva prigioniero Luciano: “Le donne sono bastoni fangosi; non si possono toccare senza sporcarsi.” Egli voleva indicare, con questa frase inelegante, gli errori che esse fanno commettere: era una predizione. Se odiava le donne, è perché temeva sovranamente il ridicolo che esse distribuiscono. Trovandosi a pranzo con Madame de Staël, che gli sarebbe stato così facile conquistare, esclamò grossolanamente di amare soltanto le donne che si occupano dei propri bambini. Per mezzo del suo cameriere Constant, volle avere ed ebbe, si dice, quasi tutte le donne della sua Corte. Una di esse, sposata da poco, il secondo giorno in cui fece la sua apparizione alle Tuileries, diceva alle sue vicine: “Mio Dio, non so che cosa voglia da me l’imperatore; ho ricevuto l’invito di trovarmi alle otto negli appartamenti privati.” L’indomani, le dame le domandarono se aveva visto l’imperatore ed ella arrossì violentemente.
L’imperatore, seduto a un tavolino con la spada accanto, firmava decreti. La dama entrava; senza scomporsi, egli la pregava di mettersi a letto. Subito dopo la riaccompagnava personalmente con una candela, e si rimetteva a leggere i suoi decreti; a correggerli e a firmarli. L’essenziale dell’incontro non durava tre minuti. Spesso il suo mamelucco si trovava dietro un paravento. Ebbe sedici incontri di questo genere con la signorina George e, durante uno di essi, le mise in mano un mucchietto di biglietti di banca. Se ne contarono novantasei. Ciò fu combinato dal suo cameriere Constant; qualche volta pregava la dama di togliersi la camicia e, senza disturbarsi, la rimandava via. Con questa condotta l’imperatore riduceva alla disperazione le dame di Parigi. Rimandarle indietro in due minuti per firmare i suoi decreti, spesso senza neppure lasciare la spada, pareva loro atroce. Era far assaporare loro tutto il suo disprezzo. Sarebbe stato più amabile di Luigi XIV, se avesse voluto darsi la minima apparenza di avere un’amante, mettendole in mano due prefetture, venti brevetti di capitano, e dieci posti di uditore da distribuire. Che cosa ci avrebbe rimesso? Non sapeva forse che, su presentazione dei suoi ministri, nominava talvolta i protetti delle loro amanti? Egli fu ingannato dal timore di apparire debole. Era come per la religione; un politico dovrebbe chiamare debolezza ciò che gli avrebbe consegnato tutte le donne? Non ci sarebbero stati tanti fazzoletti bianchi, all’entrata dei Borboni!
Ma egli odiava, e il timore non ragiona. La moglie di uno dei suoi ministri commette un unico sbaglio, e lui ha la barbarie di andarglielo a dire. Il pover’uomo che adorava la moglie, cade svenuto. “E voi, Maret, credete forse di non essere c…? Mercoledì scorso vostra moglie ha avuto il generale Pir.” Niente era più insipido e, possiamo dire, più stupido delle domande che faceva alle signore durante i balli offerti in suo onore dalla città. Quest’uomo affascinante assumeva allora un tono distratto e annoiato: “Come vi chiamate? Che fa vostro marito? Quanti bambini avete?” Quando voleva usare il colmo della distinzione passava alla quarta domanda: “Quanti figli avete?”
Per le dame di Corte, il colmo del favore era quello di essere invitate al circolo dell’imperatrice. Al tempo dell’incendio scoppiato in casa del principe Schwarzenberg, egli volle ricompensare in questa maniera qualche dama che aveva mostrato della generosità in quel grande pericolo, rivelatosi improvvisamente in mezzo ai piaceri di un ballo. Il circolo cominciò alle otto a Saint-Cloud, ed era composto, oltre che dall’imperatore e dall’imperatrice, da sette dame e dai signori di Ségur, di Montesquiou e di Beauharnais. Le sette dame, in una stanza assai piccola, in solenni abiti di corte, erano allineate contro il muro; l’imperatore vicino a un tavolino consultava delle carte. Dopo un quarto d’ora di profondo silenzio egli si alzò e disse: “Sono stanco di lavorare, fate entrare Costaz; vedrò i progetti dei palazzi.”
Il barone Costaz, il più tronfio degli uomini, entra con i progetti sotto il braccio. L’imperatore si fa illustrare le spese da farsi l’anno successivo a Fontainebleau, che voleva finire in cinque anni. Legge il progetto interrompendosi per fare delle osservazioni a Costaz. I calcoli fatti da costui per interrare uno stagno non gli paiono giusti. Ecco che si mette a fare dei calcoli sul margine del rapporto; dimenticando di mettere della sabbia sulle cifre, le cancella e fa degli sgorbi. S’imbroglia: il signor Costaz gli ricorda le somme a memoria. Durante tutto questo tempo, due o tre volte si rivolge verso l’imperatrice: “Ebbene, queste signore non dicono niente!” Allora si mormorano due o tre parole a voce bassissima sui talenti universali di Sua Maestà, e il più profondo silenzio ricomincia. Tre quarti d’ora passano, l’imperatore si volta di nuovo: “Ma queste signore non dicono proprio nulla! amica mia, chiedete una tombola.” Si suona, la tombola arriva; l’imperatore continua a far calcoli. Si è fatto dare un foglio di carta bianca e ha ricominciato tutti i calcoli. Di tanto in tanto si lascia trascinare dal suo ardore, s’imbroglia, si arrabbia. In questi momenti difficili uno degli uomini che estrae i numeri dal sacchetto abbassa ancor più la voce. La sua voce non è più che un movimento delle labbra. A stento le signore che lo circondano possono indovinare i numeri che egli annuncia. Finalmente suonano le dieci; la triste tombola è interrotta e la serata finisce. In altri tempi si sarebbe venuti a Parigi a dire che si ritornava da Saint-Cloud. Ciò non basta più al giorno d’oggi; è ben difficile creare una Corte.
L’imperatore ebbe una fortuna singolare: la sua buona stella gli fece incontrare un personaggio unico per poter stare alla testa di una Corte. Era questi il conte di Narbonne, doppiamente figlio di Luigi XV. Egli voleva farlo cavaliere d’onore dell’imperatrice Maria Luisa. Questa principessa ebbe il coraggio sbalorditivo di opporgli resistenza: “Non ho nessun motivo per lamentarmi del cavaliere d’onore attuale, il conte di Beauharnais.” “Ma è così stupido!” “È una riflessione questa che Vostra Maestà poteva fare benissimo prima di nominarlo. Ma una volta che egli è stato messo al mio servizio, non è conveniente che ne sia messo fuori senza motivo e, soprattutto, che ne sia messo fuori senza che sia io a deciderlo.”
L’imperatore non ebbe lo spirito di dire al conte di Narbonne: “Ecco cinque milioni all’anno e un potere assoluto nel ministero delle frivolezze. Fatemi una Corte piacevole.” La sola presenza di quest’uomo affascinante sarebbe stata sufficiente. L’imperatore avrebbe dovuto almeno farsi preparare delle risposte spiritose da lui. Il ministro della polizia non aspettava che una parola da portare alle stelle. Ben lungi da ciò, l’imperatore sembrava essersi proposto lo scopo di formare la propria Corte con le persone più noiose del mondo. Il principe di Neuchâtel, grande scudiero, era uno zero in società, ove egli portava quasi sempre il suo umore intrattabile. Il signor di Ségur sarebbe stato anche spiritoso, ma non si poteva certo dire altrettanto dei signori di Montesquiou, di Beauharnais, di Turenne e nemmeno del povero Duroc, il quale, stando a quel che si diceva, in privato dava del tu all’imperatore. Niente di più insipido della turba di scudieri e di ciambellani. Di costoro non se ne vedevano mai più di una dozzina nell’anticamera del palazzo, ed erano sempre le medesime figure; non c’era niente, in una parola, che riuscisse a rompere la noia della Corte. Non mi meraviglierei che l’imperatore, totalmente estraneo allo spirito frivolo, si sia sentito lontano dalle persone di questa mentalità, così indispensabili in una Corte, se si vuole che essa rivaleggi con la città. Tutti gli uomini della Corte di Saint-Cloud erano le persone più oneste del mondo. Non c’era nessuna perfidia in questa Corte divorata dall’ambizione; vi era solo molta noia, ma essa era estenuante. L’imperatore non era mai altro che un uomo di genio. Non era nella sua natura potersi divertire. Uno spettacolo o l’annoiava, oppure gli piaceva con una passione tale che parteciparvi e gioirne diveniva per lui il più assorbente dei lavori. Folle di piacere dopo aver sentito Crescentini cantare Romeo e Giulietta e l’aria Ombra adorata, aspetta, non uscì dalla sua infatuazione se non quando gli ebbe inviata la corona di ferro. La stessa cosa, talvolta, quando Talma recitava Corneille, quando leggeva Ossian, e quando faceva suonare qualche vecchia contraddanza alle serate della principessa Paolina o della regina Ortensia, ove egli si metteva a ballare di tutto cuore. Mai però il sangue freddo necessario per essere spiritoso; in una parola Napoleone non poteva essere Luigi XV.
Poiché le arti avevano fatto immensi progressi durante la Rivoluzione e dopo la caduta della falsa raffinatezza, e poiché l’imperatore aveva molto gusto e voleva che la gente si mangiasse tutto il denaro ch’egli distribuiva in stipendi e gratificazioni, le feste che si davano alle Tuileries e a Saint-Cloud erano affascinanti. Vi mancava soltanto la gente spiritosa. Non era possibile essere disinvolti e abbandonarsi, tutti erano troppo divorati dall’ambizione, dal timore o dalla speranza di successo. Sotto Luigi XV la carriera di un uomo era fatta in partenza, erano necessari fatti straordinari perché qualcosa potesse impedirla. La graziosa duchessa di Bassano dà dei balli che diventano molto di moda. I primi due sono belli, il terzo divino. L’imperatore la trova a Saint-Cloud, le dice che non è conveniente a un ministro dare balli in frac, e infine la fa piangere. Si vede da ciò che presso i grandi personaggi della Corte, la società poteva durare solo fintanto che essa si mantenesse in uno stato perpetuo di ritenutezza, sciattezza e riserbo. Gli avversari più grandi erano messi sempre in presenza l’uno dell’altro. Non vi era nessuna società particolare. La bassezza dei cortigiani non si rivelava più con motti di spirito, come ai tempi di Luigi XV.
Il conte Laplace, cancelliere del Senato, fa una scenata alla moglie, perché non si veste abbastanza lussuosamente quando va dall’imperatrice. La povera donna, assai civetta, compra un abito meraviglioso, così meraviglioso che attira lo sguardo dell’imperatore, il quale, appena entrato, viene dritto dritto verso di lei e davanti a duecento persone le dice: “Come vi siete vestita, signora Laplace! Ma voi siete vecchia, lasciate alle giovinette questi fronzoli, che non si addicono più a donne della vostra età!” Disgraziatamente la signora Laplace, conosciuta per le sue pretese, si trova in quel momento difficile in cui soltanto una donna graziosa potrebbe non essere più giovane. La povera donna torna a casa disperata. I senatori suoi amici, senza ricordarle le parole crudeli, si affrettano a trovar torti nel padrone, quando ella ne parla, tanto la cosa è stata scandalosa. Ecco che arriva il signor Laplace, che le dice: “Ma che idea, signora, indossare un vestito da giovinetta! Voi non volete assolutamente invecchiare… ma non siete più giovane.. l’imperatore ha ragione.” Per otto giorni di seguito non si parlò altro che di queste parole da cortigiano, e bisogna ammettere che esse non furono certo gentili e non fecero onore né al padrone né al servo.