Sulla “follia babilonese” di John Maynard Keynes, ovvero: la verità, vi prego, sulla moneta. Cronache marXZiane n. 14
di Giorgio Gattei
Dicono alcuni che la moneta è merce
e alcuni che invece è pagherò
alcuni che manda avanti il mondo
e alcuni che è una assurdità
e quando ho domandato al mio vicino
che aveva tutta l’aria di sapere,
sua moglie si è seccata e ha detto che
non era il caso, no.
(ad imitazione di Wystan Hugh Auden)
1. Se Federico Nietzsche ha voluto insegnarci che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», la sua affermazione è sia vera che falsa: falsa perché i fatti ci sono, eccome, e ci arrivano addosso alle volte inaspettati, ma pure vera perché noi ci muoviamo dentro i fatti secondo l’interpretazione che ne diamo comportandoci di conseguenza. E valga il caso clamoroso della scomparsa fisica, all’apice del suo potere, di Romolo, il primo re di Roma, che per storici come Tito Livio o Plutarco fu dovuta ad un omicidio ad opera dei senatori che ne avrebbero smembrato il corpo portandosene ciascuno un pezzo fuori dal Senato «nascondendolo sotto la toga», mentre il popolino credette ad una sua ascesa al cielo, ne fece una divinità aggiuntiva col nome di Quirino e gli dedicò uno sette colli cittadini, per l’appunto il Quirinale.
Altrettanto sull’origine della moneta si confrontano due interpretazioni, che oggi è però più snob chiamare “narrazioni (R. Shiller, Economia e narrazioni. Come le storie diventano virali e guidano i grandi eventi economici, 2020) perché, più che spiegare, raccontano, che sono tra loro in radicale contrasto, come aveva ben compreso fin dal 1917 Joseph A. Schumpeter scrivendo che «vi sono soltanto due teorie della moneta degne di questo nome: la teoria della moneta come merce e la teoria della moneta come certificato di credito che non sono compatibili già in base al loro nucleo, benché in moltissimi casi esse conducano agli stessi risultati». Ma vediamole partitamente.
2. La prima narrazione, che è poi quella che va ancora per la maggiore, ci dice che la moneta è nata per decisione spontanea degli “scambisti democratici” decisi a superare la difficoltà, insita nel baratto, di trovare ogni volta un acquirente della merce che si vende che possegga proprio la merce che s’intende comperare. Così fu scelta come intermediaria generale degli scambi la merce più adatta a tutti per qualità merceologiche di trasporto, divisibilità e conservazione nel tempo che funzionasse da “merce universale”, ossia a moneta, e a vincere alla fine furono i metalli preziosi, ossia l’argento e l’oro, facendo trapassare la logica dello scambio dal baratto di Merce A contro Merce B alla forma più complessa e funzionale dello “scambio monetario”:
Merce A – Moneta – Merce B
Poi la moneta venne pure coniata nel metallo prescelto per evitare lo scomodo di dovere ogni volta verificarne la quantità e la purezza del materiale e tutto questo ci è stato raccontato da Aristotele, per Dante Alighieri «il maestro di color che sanno», nel suo trattato sulla Politica: analogamente a quanto detto nella Poetica a proposito dell’innovazione di Sofocle di introdurre «tre attori» nella tragedia (Eschilo si era fermato a due), sul palcoscenico del mercato la moneta era entrata come il “terzo attore” necessario alla rappresentazione commerciale: «si ricorse all’uso della moneta quando si convenne di dare e di accettare un qualcosa che, essendo merce esso stesso, possedesse il vantaggio di essere facilmente permutato per le necessità della vita, dapprima definito semplicemente nella sua dimensione e nel suo peso e poi con l’impressione di un segno che potesse dispensare dalla effettuazione della misurazione e che servisse da marchio indicante l’ammontare del valore» (Aristotele doveva avere davanti agli occhi la meraviglia di quella dracma ateniese coniata in argento a partire dal 449 a.C. che è stata chiamata “la civetta” per l’immagine che recava sul retro). Nei secoli successivi questa narrazione è stata invariabilmente ripetuta da Adam Smith fino ad Alfred Marshall. sebbene non sia mai stata trovata la prova storica della esistenza di quella fantomatica “terra del baratto” da cui si sarebbe originata la moneta-merce (cfr. D. Graeber. Debito. I primi 5000 anni, 2012).
3. Ma se la moneta è nata dal mercato, che cosa mai erano state quelle tavolette d’argilla incise a caratteri cuneiformi che avevano circolato per migliaia d’anni tra il Tigri e l’Eufrate e di cui abbiamo narrato nelle Cronache precedenti? Non erano forse anch’esse moneta, sia pure di tutt’altra origine? Però per accorgersene c’è stato bisogno che si riscoprissero, a partire dal XIX secolo, le civiltà sumera e babilonese, che si ritrovassero quelle numerosissime tavolette (centinaia di migliaia!) e che le si decifrassero (il che ci ha permesso anche di leggere, nel cosiddetto “racconto di Gilgamesh”, una versione del Diluvio precedente alla narrazione della Bibbia). Ma prevalentemente esse avevano natura contabile e amministrativa, nonché di contratti del tipo delle note di pagamento “io ti devo” che, invece di collegare sul mercato un venditore a un compratore, regolavano i conti di un debitore con il suo creditore. Esse erano, infatti, la documentazione storica ritrovata che in quei lontanissimi tempi e in quei luoghi era già all’opera una “economia finanziaria” complessa (cfr. O. Bulgarelli, Moneta ed economia nell’antica Mesopotamia III-I Millennio a.C., 2009) dove quelle tavolette giocavano il ruolo di “moneta prima della moneta” oppure, per dirla con il bel titolo di un libro dello stesso Bulgarelli, di Denaro alle origini delle origini (2001). Ma come era sorto il tutto? In quegli antichi tempi d’agricoltura c’era pur sempre bisogno da colmare, per le sussistenze, la distanza temporale della semina dal raccolto, il che si faceva accantonandone per precauzione delle scorte dal periodo precedente, ma se queste si erano esaurite troppo in fretta non si poteva far altro che richiederle in prestito a chi ne avesse ancora disponibilità, come il Tempio che raccoglieva le offerte in natura dei fedeli oppure il Palazzo che si faceva pagare in natura le tasse dai contribuenti. A testimonianza del prestito concesso venivano prodotte quelle tavolette scritte che, dopo il loro rimborso alla scadenza, erano restituite ai debitori che tuttavia, invece di distruggerle, potevano cederle a loro volta sul mercato a chi accettasse uno scambio di merci “a pagamento differito”, essendo più che garantite per il saldo alla scadenza dalla autorevolezza della istituzione che le aveva emesse. Si è così potuto riconoscere, come scritto da M. Hudson in Palatial credit: origins of money and interest (2018) ,che «l’origine dei debiti monetari e dei mezzi di pagamento è stata fondata sulle pratiche contabili dei templi e dei palazzi sumeri dal 3000 a.C. allo scopo di governare una primitiva economia agricola che richiedeva anche commercio estero per ottenere metalli, pietre preziose e altri materiali non disponibili in loco. Queste istituzioni impiegavano anche manodopera mantenuta con i raccolti prodotti sulle terre del Tempio o del Palazzo oppure, al di fuori di esse, da parte di coltivatori che pagavano in natura offerte e tributi… Il grano era preso come unità di conto per calcolare i valori di scambio delle merci tra loro e col tempo di lavoro, con una allocazione delle risorse che coinvolgeva l’agricoltura e le attività artigianali, così come i mezzi di pagamento. E tutto questo succedeva in Mesopotamia fin dal terzo Millennio a.C.».
Dopo la decifrazione, quelle tavolette di debito sono state anche fatte oggetto di considerazione teorica, dando il via ad un filone di studi che partiva dal presupposto che quel tipo di moneta, invece di nascere sul mercato, aveva trovato origine nella iniziativa di prestito di una autorità sovrana che ne aveva certificato l’ammontare per iscritto su quelle tavolette che erano in grado di estinguere il debito all’interno del proprio spazio di competenza (per dirla con una immagine colorita, era un po’ come alla maniera dei gettoni emessi da un guardaroba per il deposito dei cappotti che vanno restituiti a chiunque si presenti con quei contrassegni). Come ha osservato ancora Graeber, è stato così che la moneta «non solo rende possibile il debito, ma fa la sua comparsa esattamente nello stesso momento», essendo peraltro l’espressione di «una forma di sovranità che non può essere compresa se non con riferimento ad una autorità», quali erano allora il Tempio o il Palazzo. Su questa narrazione di “altra nascita” si sono mossi nel XX secolo diversi studiosi, al punto che oggi è possibile farne una ideale galleria in cui, a far da spartiacque magistrale, spicca la figura di John Maynard Keynes, al punto di potersi parlare di un “prima” e di un “dopo” di lui (cfr. L. Randall Wray (From the State theory of money to modern money theory: an alternative to economic ortodoxy, 2014).
4. Keynes, dunque. Nel 1923 aveva pubblicato un Trattato sulla riforma monetaria (prontamente tradotto in italiano da Piero Sraffa – come il mondo è piccolo!)) in cui aveva discusso d’inflazione (quando i prezzi aumentano) e di deflazione (quando i prezzi calano) arrivando alla conclusione che, se entrambi erano mali da evitare perché la prima è «ingiusta» e la seconda «inopportuna», «la deflazione è forse la peggiore poiché in un mondo povero è più grave creare disoccupazione che deludere il rentier». Ma se la causa di quei su e giù dei prezzi stava nella quantità di moneta che sul mercato poteva esser troppa oppure troppo poca, lui della moneta che sapeva? Che cos’era mai e, soprattutto, come vi si era infilata all’origine? Approfittando dell’interesse suscitato dagli scavi recenti della città sumera di Ur che stavano restituendo innumerevoli tavolette di debito, Keynes si era buttato a studiarle con una tal «frenesia» da far supporre che intendesse scriverci sopra un libro, mentre confidava nel 1924 a Lydia Lopokova, che poi sarà sua moglie, di esservi «assorbito fino alla follia» (e lei in risposta: «è un tesoro del tuo spirito intellettuale e io ti amo tanto in questa tua passione») (cfr. R. Skidelsky, John Maynard Keynes. L’economista come salvatore 1920-1937, 1992). Ne aveva anche buttato giù degli appunti con relativo indice dei capitoli che però sono rimasti inediti fino al 1982, quando si sono potuti leggere nel XXVIII volume delle sue Opere e Corrispondenza, perché lui li aveva poi abbandonati non sembrandogli opportuno pubblicare qualcosa «in una materia sulla quale la mia conoscenza è così incerta», come aveva scritto ad un corrispondente nel 1926 (cfr. G. Ingham, Babylonian madness: on the historical and sociological origins of money, 2000).
Quando finalmente quegli appunti sono stati resi pubblici, che cosa se ne è appreso? Che per Keynes la moneta aveva avuto una “origine di banca”, così che «le prime banche furono i santuari e i primi banchieri furono i sacerdoti», come ha sintetizzato Augusto Graziani illustrando le Nuove interpretazioni dell’analisi monetaria di Keynes (1991) provocate dalla loro pubblicazione. Ed invero come sta scritto nel capitolo sulle “Origini della moneta, «l’introduzione di una moneta, nei cui termini prestiti e contratti con un elemento temporale possono essere espressi è ciò che ha realmente cambiato la condizione economica di una società primitiva, ed in questo senso la moneta già esisteva a Babilonia in una forma altamente sviluppata… molti anni prima del tempo di Solone», che era stato il primo riformatore monetario ateniese, mentre la tanto decantata coniazione della prima moneta metallica ad opera di Creso re di Lidia nel quinto secolo a. C. doveva essere considerata una «invenzione veramente insignificante», un gesto di «vanità, patriottismo, pubblicità».
Il fatto è che Keynes era alle prese con un oggetto economico sfuggente quale è la moneta perché intesa a svolgere più funzioni differenti: è moneta di realizzo (perché le merci prodotte devono poi essere vendute), è moneta di scorta per conservarne il valore nel tempo (si dice allora che la moneta ristagna “in forma liquida” in attesa di “solidificarsi” in qualche impiego produttivo) ed è moneta d’avvio per il bisogno di averne una disponibilità per acquistare i mezzi necessari ad avviare qualsiasi impresa economica. Se però in quest’ultimo caso la moneta non la si possedesse, allora la si poteva richiedere come moneta di credito alle banche che raccolgono i risparmi dei depositanti per cederli ai loro clienti. Era pur vero, come ha ricordato ancora Graziani, che nella più celebre Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936) per riflesso della congiuntura del tempo in cui le “scorte liquide” la facevano da padrone, le banche erano «presenti soltanto dietro le quinte», portando così ai successivi travisamenti dottrinari denunciati da Nicholas Kaldor nel Flagello del monetarismo (1982). Tuttavia nel precedente Trattato della moneta (1930), pubblicato alla fine della stagione di “follia babilonese”, le banche c’erano, eccome: «affinché i produttori possano e vogliano produrre, … devono poter ottenere la disponibilità di un ammontare adeguato di moneta…, (così che) il primo anello della sequenza causale è il comportamento del sistema bancario». Ma questo gli pareva logicamente evidente: pur non avendo alcuna considerazione del Capitale di Marx (che considerava alla stessa stregua del Corano, così che il «qualunque sia il suo valore sociologico, il suo valore dal punto di vista economico è zero»), Keynes ai suoi studenti ne insegnava la formula della “circolazione capitalistica”:
Moneta – Merce – Più Moneta
che inverte la direzione dello scambio monetario partendo dal denaro per arrivare al maggior denaro (profitto) guadagnato. E così spiegava a lezione: «una pregnante osservazione di Karl Marx ha messo in luce che la natura della produzione nel mondo reale non è, come gli economisti sembrano spesso supporre, un caso del tipo M-D-M, cioè inteso a scambiare una merce (o un lavoro) contro denaro al fine di ottenere un’altra merce (o lavoro). Questa può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma non è quella del mondo degli affari che dal denaro si separa in cambio di una merce (o di un lavoro) al fine di ottenere più denaro secondo un processo del tipo D-M-D’».
Era questa la consapevolezza della natura della moneta d’avvio che poteva essere innescata dalla moneta di credito bancaria che aveva raggiunto nella sua scorribanda babilonese, così che quegli appunti, sebbene non pubblicati, non dovevano passare invano se adesso ci fanno comprendere appieno il significato di quel primo capitolo del Trattato sulla moneta, che ne riprendeva addirittura delle parti, che altrimenti sembrerebbe estraneo all’argomento del libro dedicato a ricercare la causa di quella Grande Crisi economica cominciata nel 1929 (e da lui imputata ad una insufficienza degli investimenti rispetto al risparmio disponibili all’opposto della interpretazione corrente che la imputava ai troppi investimenti). Proprio quel primo capitolo serviva infatti a ricordarci che gli investimenti e i risparmi non sono cose, ma si presentano sempre sotto forma di moneta, dove però la moneta andava intesa come una moneta-di-conto che costituiva quel «concetto primario di una teoria della moneta… che viene in esistenza insieme ai debiti, che sono dei contratti a pagamento differito, e dei listini di prezzi che sono offerte di contratti per vendita od acquisto» (traduzione mia).
Giocando sul bisticcio si potrebbe dire che la moneta-di-conto è proprio ciò che conta essendo il soggetto dei contratti e delle obbligazioni, mentre è cosa differente la moneta materiale che circola negli scambi, ovvero (per dirla con le sue parole) «la moneta-di-conto è la descrizione o il titolo mentre la moneta è la cosa che risponde a quella descrizione» e che deriva «il suo carattere dalla sua relazione con la moneta-di-conto, dato che i debiti e i prezzi devono essere espressi prima nei termini di questa». Certamente se alla moneta-di-conto corrispondesse sempre la medesima moneta circolante la differenza non avrebbe significato, ma può pur presentarsi il caso (l’esempio è di Keynes) che «un contratto da pagarsi tra dieci anni pari al peso in oro del peso del re d’Inghilterra non sia la stessa cosa di un contratto da pagarsi nel peso dell’individuo che ora è re Giorgio, e con lo Stato che dichiara, quando viene il tempo, chi è il re d’Inghilterra».
Ne conseguivano tre risultati sconvolgenti: che «la moneta-di-conto è logicamente anteriore a qualsiasi altra forma di moneta»; che «il carattere di moneta è assegnato dalla moneta-di-conto e non dalla sua forma naturale» che può essere fatta su qualsiasi materiale (i metalli, la carta, il bit elettronico oppure, all’origine, l’argilla): ed infine che per farla nascere c’è bisogno di un potere sovrano, come allora erano il Tempio o il Palazzo e oggi la Banca o lo Stato, e questo potere sovrano entra in gioco due volte: «dapprima come l’autorità legale che impone il pagamento della cosa che corrisponde al nome o alla descrizione nel contratto, ma che poi entra doppiamente in gioco quando, in aggiunta, reclama il diritto di determinare e dichiarare quale cosa corrisponda al nome, e di variare la sua dichiarazione di volta in volta – vale a dire quando reclama il diritto di rivedere il vocabolario. Questo diritto è reclamato da tutti gli stati moderni e così è stato da almeno quattromila anni» ed è per questo che, con buona pace di Aristotele e Creso, «l’età della moneta è succeduta all’era del baratto non appena gli uomini hanno adottato una moneta-di-conto, mentre l’età della moneta di Stato è raggiunta quando lo Stato reclama il diritto di dichiarare quale cosa corrisponde come moneta alla moneta-di-conto e quando reclama il diritto non soltanto di imporre il vocabolario, ma anche di riscrivere il vocabolario».
5. Insomma, abbiamo due diverse narrazioni sulla origine della moneta: per libera volontà degli scambisti sul mercato che sceglierebbero la migliore (Aristotele) oppure per decisione d’autorità di un prestatore che misura l’ammontare del suo credito in una unità di conto astratta e poi lo certifica su di una cosa materiale (la moneta corrente) che gli corrisponde (Keynes). Si potrebbe anche dire che l’opposizione sta tra una Cosa (la merce) che si conquista sul mercato il Nome di moneta e il Nome (la moneta di conto) che decide d’autorità la Cosa che lo riflette. Forse non sapremo mai cosa sia successo in quel lontanissimo passato, però è certo che la moneta dev’essere sorta dalle parti del prestito, salvo poi prendere a circolare autonomamente tra le merci trascinandosi dietro tutta l’inquietudine del mistero e del sacro (la fiducia che il valore di quella moneta resti sempre lo stesso). Ne fa fede Dante Alighieri nel XXIV canto del Paradiso: «Assai ben è trascorsa/ d’esta moneta già la lega e il peso./ Ma dimmi tu se l’hai nella tua borsa./ Ond’io: Sì l’ho/ così lucente e tonda/ che nel suo conio nulla mi s’inforsa (mi fa dubbio)».
Jorge Luis Borges nell’Aleph (1952) racconta di quella volta che ricevette come resto lo Zahir, la moneta comune da venti centesimi corrente a Buenos Aires, che lo riempì d’inquietudine: «lo guardai un istante e pensai che non esiste moneta che non sia simbolo delle monete che senza fine risplendono nella storia e nella favola», dall’obolo per Caronte ai trenta denari di Giuda, dall’oncia d’oro inchiodata da Achab all’albero maestro della sua nave alla caccia di Moby Dick, ma pure (posso aggiungere?) agli zecchini seppelliti da Pinocchio nel Campo dei miracoli, ed «il pensiero che ogni moneta permetta tali illustri parentele mi parve di grande, benché inesplicabile, importanza». Ma Borges pensò anche che «nulla è meno materiale del denaro, giacché qualsiasi moneta (una moneta da venti centesimi, ad esempio) è, a rigore un repertorio di futuri possibili. Il denaro è un ente astratto, ripetei, è tempo futuro. Può essere un pomeriggio in campagna, può essere musica di Brahms, può essere carte geografiche, può essere gioco di scacchi, può essere caffè, può essere le parole di Epitteto che insegnano il disprezzo dell’oro… M’addormentai dopo un tenace cavillare, ma sognai d’essere le monete custodite da un grifone». E come finisce il racconto di Borges? Alla sua solita maniera, fulminante: «quando tutti gli uomini della terra penseranno, giorno e notte, allo Zahir, quale sarà il sogno e quale la realtà, la terra o lo Zahir?… Forse finirò per logorare lo Zahir a forza di pensarlo e ripensarlo; forse dietro la moneta è Dio».