La Fornarina di Raffaello, Giulio Romano e quei loro “modi” licenziosi
di Giorgio Gattei
In occasione delle mostre mantovane dedicate all’artista Giulio Romano pubblico qui la Premessa a Giulio Romano e Pietro Aretino, I Modi, Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, Bologna, 2019.
1. I Modi di Pietro Aretino con annesse incisioni di Marcantonio Raimondi su disegni di Giulio Romano sono stati giudicati, da persona autorevole, «il più concupito esemplare d’arte erotica del mondo occidentale, ma ben poche persone hanno avuto occasione di vederli» (Lynne Lawner). E questo per due buoni motivi: concupiti per la rinomanza degli artisti coinvolti, ma sconosciuti ai più perché quello straordinario prodotto artistico (un libretto d’incisioni oscene con in calce dei sonetti lussuriosi) era da secoli scomparso alle viste. Dalle celebri Vite dei pittori illustri del Vasari si era saputo della sua esistenza («fece poi dopo queste cose Giulio Romano in venti fogli intagliare da Marcantonio in quanti diversi modi, attitudini e positure giacciono i disonesti uomini con le donne, e, che fu peggio, a ciascun modo fece messer Pietro Aretino un disonestissimo sonetto, in tanto che io non so qual fosse, o più brutto lo spettacolo dei disegni di Giulio all’occhio, o le parole dell’Aretino agl’orecchi»), ma poi se n’erano perse le tracce.
La faccenda era andata così: nel 1524 il giovane artista Giulio Pippi, meglio noto come Giulio Romano, impegnato nelle Stanze Vaticane al completamento delle pitture rimaste interrotte per la morte improvvisa di Raffaello di cui era allievo, in preda ad estro erotico (aveva 25 anni) si era provato a disegnare sedici (e non venti) posizioni del rapporti sessuali tra uomini e donne. Ora può anche darsi che questo kamasutra per immagini fosse riservato al godimento privato, ma l’amico incisore Marcantonio Raimondi riversò i disegni su altrettante lastre di rame tirandone una edizione a stampa (di quante copie non si sa) che presero a circolare per Roma anche dove non avrebbero dovuto. Ovviamente il papa di allora, Clemente VII, se ne adontò ed il povero Raimondi finì in prigione, mentre Giulio Romano scampò solo perché nel frattempo se ne era andato a lavorare a Mantova presso i Gonzaga. Tutte le copie stampate sarebbero andate distrutte.
Pietro Bonci, detto l’Aretino, anch’egli allora a Roma, usò della considerazione che aveva presso Sua Santità per far liberare Raimondi ed insieme ad altri, come il cardinale Ippolito de’ Medici e Baccio Bandinelli, ci riuscì. Ma poi, venutagli «volontà di veder le figure» (evidentemente almeno le lastre erano sopravvissute), fu «tocco da lo spirto che mosse Giulio Romano a disegnarle» e così, scriveva a Battista Zatti nel dicembre 1537 (ma forse la data esatta è 1527), «ci sciorinai sopra i sonetti che ci si veggono a i piedi. La cui lussuriosa memoria vi intitulo con pace de gli ipocriti, disparandomi del giudizio ladro e della consuetudine porca che proibisce a gli occhi quel che più gli diletta. Che male è il veder montare un uomo adosso a una donna? Adunque le bestie debbono essere più libere di noi?».
Ora non è sicuro che a Roma si facesse una tiratura a stampa delle figure dei Modi di Raimondi con i sonetti dell’Aretino in calce, ma è certo che, se non proprio a ragione dei sonetti ma anche a cagione dei sonetti, nel 1525 l’Aretino venne pugnalato a morte. Però si salvò e riparò a Venezia con i sonetti ed almeno una copia delle incisioni. Se poi erano rimaste le lastre originali presso la bottega romana di Raimondi, certamente potrebbero non essere scampate al gran sacco del 1527 che vide quella bottega, tra le altre, devastata e Raimondi, catturato dalle truppe imperiali, costretto a pagare un forte riscatto (il suo assistente Marco Dente ne rimase ucciso).
A Venezia comunque una edizione illustrata dei sonetti deve sicuramente essere stata fatta, essendoci testimonianza dell’Aretino che ne spediva esemplari ai propri corrispondenti, come al nobile genovese Cesare Fregoso omaggiato nel novembre 1527 del «libro de sonetti e de le figure lussuriose che io per contraccambio le mando». Però da allora in poi questa edizione combinata scomparve, tanto da potersi dubitare perfino della sua esistenza. I sonetti, più facilmente ricopiabili, hanno continuato ad essere riprodotti (una primissima edizione riporta come luogo e data: «in Vinegia 1556», ma forse si tratta di una ristampa del XVIII secolo); delle incisioni sopravvivono al British Museum appena nove frammenti ritagliati in modo tale che rimanessero soltanto particolari innocenti di volti, busti e braccia. È vero che a Parigi c’è un esemplare della prima incisione, ma non è sicuro che sia l’originale di Raimondi, potendo trattarsi di un falso prodotto dal conte Jean-Frédéric-Maximilien de Waldeck che a metà dell’Ottocento eseguì venti disegni a penna ed acquerello dei Modi (ma non erano sedici?) sulla base delle stampe originali che avrebbe ritrovato e quindi copiato in un convento francescano di Città del Messico (sic!).
Insomma nulla più si sapeva della edizione combinata dei sonetti con le figure finché nel 1971 un esemplare acquistato nel 1928 da Walter Toscanini, il figlio del direttore d’orchestra, è stato venduto sul mercato antiquario ad un collezionista che ne ha consentito la pubblicazione (I Modi nell’opera di Giulio Romano, Marcantonio Raimondi, Pietro Aretino e Jean-Frédéric-Maximilien de Waldeck, a cura di Lynne Lawner, Longanesi, Milano, 1984). È una edizione xilografata non integra (perché mancante del frontespizio e di un foglio così che incisioni e sonetti sono ridotti a quattordici), molto probabilmente stampata a Venezia dove la xilografia era di moda e l’editoria godeva della massima libertà. E siccome a Venezia si era rifugiato l’Aretino, non è improbabile che sia stato proprio lui il committente di questa edizione illustrata così miracolosamente riemersa dalla notte dei secoli. Gli esperti ne datano la stampa al 1527: mentre Roma andava a sacco, a Venezia si dilettavano gli occhi con i Modi.
2. Attorno ai Modi circola però anche una leggenda. Nel Dialogo sulla pittura di Ludovico Dolce, pubblicato a Venezia nel 1557, si era insinuato il sospetto (ma per confutarlo) che ad ispirare le illustrazioni fosse stato direttamente Raffaello Sanzio che le avrebbe «e tutte o parte disegnate», senza tuttavia mai pensare di spargerle «per le piazze né per le chiese» come doveva invece fare Marcantonio Raimondi «che per trarne utile l’intagliò». È una diceria che non ha trovato alcuna conferma, ma alla quale recentissimamente si è voluto aggiungere la bella invenzione letteraria (in un romanzo peraltro modesto) del ritrovamento di un documento cinquecentesco che svelerebbe il vero retroscena del fattaccio.
Sì, all’origine dei Modi ci sarebbe stato proprio Raffaello, ma soltanto per i due disegni mancanti nelle incisioni xilografate del 1527 e nei quali Raffaello non avrebbe affatto lavorato di fantasia, ma avrebbe ritratto dal vero la sua amante Margherita Luti, detta la Fornarina, impegnata in una copula con l’allievo Giulio Romano che poi vi avrebbe aggiunto «a memoria» altre quattordici illustrazioni. Ma lasciamo dire all’invenzione letteraria (Valentina Olivastri, Prohibita imago, Mondadori, Milano, 2009, pp. 264-266):
«su un panno verde smeraldo, in una stanza d’un palagio romano costruito dall’eccelso Bramante e dal mirabile Raffaello, acquisito per l’ismisurata somma di tremila ducati, la donna del sommo pintore aveva concesso ogni sfogo a’ suoi più reconditi piaceri con un altro uomo. Giulio e Margherita, il suo allievo più diletto e la figlia di un fornaio, s’eran abbandonati a’ loro istinti, mentre Raffaello dava vita a’ lor gesti e ai loro infiammati eccitamenti, dimodoché, nonostante la solidità de’ corpi, le loro figure divenivan leggiere e quasi trasmutate dalla sua licenziosa immaginazione… Mentre i due amanti carnalmente si congiugeano, Raffaello aveva ritratto Margherita col capo reclinato all’indietro come stesse lentamente scivolando in un sogno, coi suoi tondi seni attraversati da un nastro e le spalle illuminate da un raggio di sole. Ammorzando luci e ombre, fuse i lor corpi e le loro anime che quasi si potean toccar con mano, ch’arte avea natura vinto. E parea che Raffaello tratti li avesse dalla viva argilla, palpando le loro avvinte membra ed ogni lor muscolo tremante pel desiderio».
Come si sa, nel 1520 ad appena 37 anni d’età Raffaello morì (si disse anche per stravizi venerei), dopodiché:
«trascorsi non eran quattro mesi dalla morte sua che Margherita, col cuore carco di colpa, si fè murata in un convento mentre a Giulio toccò in sorte diventar guardiano e possessore dei due più maravigliosissimi disegni di lussuria che fosser mai stati fatti».
Quattro anni dopo, Giulio avrebbe aggiunto altri quattordici Modi ai due di Raffaello
«sì ch’ognun scovrisse non sol lui esser di Raffaello il putativo erede ma pur anco di Margherita l’inestinguibil passione. E fu così che notte e dì affaticò la sua arte creando quattordici disegni d‘atti e modi amorosi mai per l’addietro visti. E con industria ripescò nella memoria ogni menoma parte del corpo di Margherita, ogni più piccola movenza delle sue natiche, tese e piene di gioventù, e come al tocco delle sue dita ogni muscolo tra le sue cosce vibrasse qual corda di leuto».
A dar retta alla fantasia romanzesca, insomma, di tutte quelle immagini dei Modi successivamente trasformate in incisioni da Raimondi, commentate dall’Aretino ed infine stampate a Venezia nel 1527 il destino avrebbe voluto che proprio le due che sarebbero state opera del «divino» Raffaello venissero strappate e si perdessero per sempre. Sarebbero quindi soltanto le quattordici immagini licenziose (coi sonetti allegati) fatte da Giulio Romano a memoria degli amplessi con la Fornarina che qui si sono potute riprodurre. Ma comunque di quei Modi (e della Fornarina?) egli si ricordò anche in seguito, come ad esempio quando ebbe l’incarico a Mantova di affrescare le sale di Palazzo Te, il “buen retiro” suburbano di Federico II Gonzaga. E alla sua (?) Fornarina non volle dedicare un ritratto, concorrente con quello più che celebre di Raffaello ma con lei in una posa più birichina?
Raffaello Sanzio, La Fornarina (1518-19),
Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma.
Giulio Romano, Dama allo specchio (La Fornarina) (1520),
Museo Pusˇkin delle Belle Arti, Mosca.