L’amor cortese è “amare di lontano”, ma lontano da che? (2/3)
di Giorgio Gattei, per San Valentino
(Questa inchiesta sull’amor cortese mi si è così allungata che le puntate saranno tre. E questa è la seconda)
1. Nella prima puntata di questa inchiesta sulla natura dell’amor “cortese”, fiorito presso le corti della Francia occitanica del XII secolo, s’è mostrato come, contrariamente all’interpretazione che va per la maggiore e che lo considera la proiezione sentimentale della eresia catara contraria alla sessualità per odio alla continuazione della specie, come Denis de Rougemont in L’amore e l’Occidente (1939), siamo piuttosto alle prese con un rapporto amoroso niente affatto “angelicato”, bensì decisamente carnale: qui ci sono due amanti adulterini (la cortezia richiede rigorosamente l’adulterio, non potendo esserci amore in un matrimonio in cui il marito era scelto dalle famiglie di origine ed il rapporto sessuale era un dovere al quale la moglie non poteva sottrarsi) che liberamente decidono di dedicarsi al «piacere della parte bassa» del corpo, «perché lì totalmente si compie amore, al quale principalmente tendono gli amanti, e senza compimento si crede di non aver nulla se non preludi d’amore», come teorizzava esplicitamente il suo maggior testo d’istruzione che è stato il Dell’amore scritto successivamente al 1174 da Andrea, cappellano di Maria contessa di Champagne. Di conseguenza i due amanti, invece di soffrire le pene di una passione repressa l’uno di fronte all’altra, come nel mito cavalleresco di Tristano e Isotta non a caso privilegiato da de Rougemont, praticavano quei migliori «diletti della carne» che darà generosamente Ginevra, moglie di re Artù, sovrano di Camelot, al suo amante Lancillotto del Lago:
e la regina stende/ le braccia verso di lui e l’abbraccia,/ lo serra stretta vicino al suo petto/ e lo attira accanto a sé nel suo letto/ e gli fa la più bella accoglienza/ che mai gli possa fare/ perché le viene da Amore e dal cuore (Chrétien de Troyes).
Eppure non c’è dubbio che la caratteristica particolare di quel rapporto amoroso fosse quello di essere “cortese”! Ma in che senso se l’amante alla fine padroneggiava l’intero corpo dell’amata la quale non desiderava che congiungersi a lui, come risulta chiaro dalla lettura del “corpo” (è proprio il caso di dire) delle poesie dei trovatori provenzali (un insieme di oltre 2500 composizioni liriche, non tutte ovviamente d’argomento “cortese”) recitate ed anche cantate, perché spesso accompagnate da spartiti musicali, presso quelle corti feudali? Per capirci qualcosa bisogna considerare il contesto sociale “di corte” in cui si è diffusa quella relazione amorosa, che era asimmetrica in quanto poneva l’amante in un rapporto di vassallaggio rispetto all’amata, che solitamente era una dama di alto lignaggio. E che non fosse soltanto letteratura ce lo garantisce lo storico Johan Huizinga nelle poche pagine del suo grandioso Autunno del Medio Evo (1928) che ne descrivono la “primavera” (che è il periodo che a noi interessa) in cui «la classe dominante di tutta un’epoca ha tratto la sua conoscenza della vita e la sua erudizione da una sorta di ars amandi. In nessun’altra epoca l’ideale della cultura mondana è stato amalgamato a tal punto con quello dell’amore, come in quella che va dal secolo XII al XV». Ma leggiamo ancora:
soltanto nell’amor cortese dei trovatori il desiderio non appagato è diventato il tema centrale. Con ciò si creò una forma dell’idea erotica che era capace di accogliere in sé una quantità di contenuti etici, senza per ciò mai rinunciare completamente al nesso coll’amore naturale per la donna. Il nobile culto della donna che non pretendeva di essere esaudito era scaturito dall’amore sensuale stesso.
Si noti lo strano abbinamento di un “desiderio inappagato” con “l’amore naturale per la donna”, di cui si tratterà di comprendere l’accostamento paradossale. E’ ovvio che si sarebbe trattato di un costume soltanto di élite (bastando alla plebe i severi precetti della Chiesa), ma esso comunque era praticato «non nella letteratura, ma nella vita: il motivo del cavaliere e della sua amata c’era già nei rapporti della vita reale» quando i trovatori presero a cantarlo in poesia.
Ma come era possibile tanta tolleranza sociale nei confronti di ciò che restava comunque un adulterio sia pur “cortese”? Nella lettura “sociologica” che ne ha dato Erich Köhler (Sociologia della ʿfin’amorʾ, 1976) si rinvia per spiegarla ad un occasionale rilassamento del vincolo feudale che avrebbe consentito, nelle corti francesi del XII secolo, alle nobildonne sposate di emergere quali destinatarie privilegiate del “servizio” dei loro amanti. La situazione era questa: presso quelle corti convivevano anche giovani cavalieri cosiddetti “senza terra” perché ancora in attesa di una investitura, che speravano di acquisire grazie ad una qualche occasione favorevole. Ora, nel microcosmo sociale di corte la moglie del signore, generalmente più giovane del marito, finiva per costituire un polo d’attrazione, anche sessuale, per questi paubres cavaliers che, se riuscivano ad entrare nelle sue grazie, potevano aspirare ad elevarsi al di sopra della propria condizione economica anche a prescindere dalla nobiltà di nascita. Ma perché sarebbe stata accettata una simile intrusione adulterina nell’ordinamento gerarchico della corte? Perché con essa si poteva mantenere basso il livello di tensione erotica interna al matrimonio, abbinandovi una situazione amorosa in cui la dama poteva godere di una soddisfazione sentimentale inesistente nella condizione coniugale, mentre l’innamorato al suo “servizio” doveva restare comunque entri i limiti di una buona condotta per il vincolo di vassallaggio. Per questo, a detta di Köhler, attorno alla struttura psichica dell’amor “cortese” si era potuto costituire «un potente sforzo d’integrazione che, partendo dalle esigenze di armonia della corte, ha creato forme di vita e ideali validi per tutta la nobiltà». Ma l’altro, il signore e marito, perché avrebbe sopportato tanto adulterio? Semplicemente per il fatto che lui il più delle volte a corte non c’era!
Quando s’interpreta l’amor “cortese” si dimentica troppo spesso che il XII secolo è stato attraversato dal grande fenomeno delle Crociate, sia verso la Terrasanta che in Spagna dove era cominciata la Reconquista. La propaganda ecclesiastica era allora tanto efficace (a parteciparvi ci si guadagnava la vita eterna!) che numerosi signori feudali “fecero l’impresa”, come il “primo dei trovatori” Guglielmo d’Aquitania che andò crociato in Terrasanta nel 1101 ed in Spagna nel 1117, il re di Francia Luigi XI, marito della nipote Eleonora, che partì per il Santo Sepolcro nel 1147 oppure Riccardo Cuor di Leone, il figlio avuto da Eleonora dopo le seconde nozze con Enrico Plantageneto (poi re d’Inghilterra), che guidò la terza crociata del 1189-92. Al loro seguito si trascinarono innumerevoli signori feudali che abbandonarono le proprie corti per lunghi periodi di tempo, lasciandone alle spose la guida politica e amministrativa. Fu così che quelle dame non furono mai tanto importanti come in quel particolare frangente storico: col marito lontano e a capo degli affari di palazzo, potevano decidere liberamente della propria vita anche sessuale, se non intendevano relegarsi in una condizione di “vedovanza bianca” in attesa del ritorno del Crociato. Giovani e potenti come si trovavano, esse potevano prendersi per amanti al proprio servizio le personalità più degne della corte, quelle che più le stuzzicavano per la galanteria dei modi che adottavano in un approccio amoroso che era sentimentale, ma pur anche carnale. Ma, per l’appunto, come era possibile conciliare il sesso con la cortezia?
2. Nel kamasutra dell’amor “cortese” non c’era dubbio che gli amanti praticassero tra loro tutto «ciò che in camera si puote» (come ha verseggiato Dante nella Divina Commedia), a meno del divieto assoluto di un ultimo atto sessuale, ch’era poi l’unico che rendeva quell’amore “cortese”. Solo così, come istruiva la sua dama Andrea nel Dell’amore , il testo canonico di educazione alla cortezia, si poteva conseguire quella dimensione d’“amore puro” (la fin’amors) che
con tutta la forza deve abbracciare chi nell’amore mette tutto il suo desiderio. Questo amore cresce sempre senza fine e si sa che nessuno si pentì mai di praticare i suoi atti; e quanto più se ne ha, tanto più se ne vuole avere. Questo amore si sa che ha tanta forza che da lui discende principio di gentilezza e non deriva nessuna offesa e in lui Dio vede piccola offesa. Da tale amore né vergine corrotta né vedova né maritata può sentire inganno o patire perdita di reputazione. Questo amore io amo, lo seguo e sempre adoro e non smetto mai di chiederlo a voi.
Ma in che cosa poteva consistere questa “purezza d’amore”? Siamo qui al nodo della cortezia che, come cantato da Jaufre Rudel, doveva essere un amore di lontano (amor de lonh). Ma lontano da che? Non certo dall’amata che, ormai sedotta, stava saldamente stretta nelle braccia dell’amante, al quale aveva concesso la piena disponibilità del proprio corpo. Allora da che? E qui va detto che Andrea non pecca certamente di reticenza quando prescrive all’amante, impegnato nei «gioiosi e dolci piaceri carnali», di
arrivare fino al bacio della bocca, all’abbraccio e al contatto verecondo dell’amante nuda, ma senza raggiungere l’estremo piacere, che non è lecito a chi vuol l’amore puro.
Facciamo a capirci: il limite erotico estremo che l’amante “cortese” non doveva superare era quindi la penetrazione in vagina che andava esclusa (tutto il resto invece essendo permesso) per non «dare fastidio all’amata», essendo questo “fastidio” il rischio di una gravidanza indesiderata tanto nociva alla dama, per l’imbastardimento della discendenza feudale legittima, da poter mettere in pericolo a quel tempo la sua stessa vita. Così durante l’incontro amoroso l’amante, pur impegnato a dare il maggior godimento alla sua dama, non doveva spingersi fino al coito, a cui pure la ricerca del proprio piacere l’avrebbe condotto, perché troppo grande sarebbe stato il danno personale se mai lei ne fosse rimasta incinta. Per questo Andrea consigliava nell’abbraccio amoroso l’unico rimedio contraccettivo che era assolutamente sicuro a quel tempo: quello di evitare di «concludere nell’estremo atto di Venere»!
In caso contrario si sarebbe precipitati in quello che Andrea chiamava l’«amore misto», che era pur esso «vero amore, degno di lode e principio d’ogni bene, come si dice, anche se da lui vengono pericoli molto gravi» perché «finisce presto e dura poco e spesso ci si pente d’averlo fatto: per lui si danneggia il prossimo e si offende il Re del cielo». Ed era per questo che si doveva giudicare (ma si noti la difficoltà di dover solo accennare a ciò che non poteva essere detto)
stolto e poco avveduto l’amante che nel compimento d’amore… oltrepassa la misura (!) o non pensa al pudore (!) dell’amata e non rispetta il suo senso di vergogna (!)… e non si chiamerà più amante ma traditore chi pensa unicamente al proprio piacere trascurando l’interesse (!) della sua amata.
“Misura”, “pudore”, “vergogna”, “interesse” della dama: tutte approssimazioni per far intendere all’amante che la cortezia d’amore poteva essere garanzia per l’amata solo nel caso di un adulterio asimmetrico in cui dame sessualmente sovrane si sarebbero concesse agli innamorati al loro servizio a condizione che costoro fossero capaci di mantenere nell’amplesso il pieno controllo di sé, senza “sopraffarle” con il congiungimento carnale conclusivo. Era questa la straordinaria proposta amorosa che il cappellano di corte Andrea avanzava nel suo Dell’amore e alla quale la dama non poteva che rispondere, rassicurata e ammirata:
voi pronunciate parole mai conosciute né sentite prima, quasi incredibili. E mi meraviglio che si possa avere tanta continenza carnale da riuscire a frenare l’impeto del piacere e contrastare l’impulso del corpo, dal momento che tutti si meravigliano se qualcuno messo nel fuoco non brucia. Se però qualcuno crede, come dite, nella purezza d’amore e nella continenza carnale, lodo e approvo il suo proponimento e lo considero degno di molti onori.
Ecco quindi svelato il significato di quell’“amore di lontano” (amor de lonh) celebrato da Jaufre Rudel, il trovatore amante e forse amato dalla regina Eleonora d’Aquitania, dove la “lontananza” non era affatto geografica perché lei stava altrove (come solitamente s’interpreta), ma per la distanza che doveva essere mantenuta nell’abbraccio “cortese” rispetto ad una conclusione “al maschile”, come peraltro si intuisce a leggere con malizia la sua poesia più programmatica:
Mi apparirà la gioia quando le chiederò/ per l’amor di Dio l’ospitalità di lontano;/ e, se a lei piace, albergherò/ vicino a lei benché io sia di lontano./ Allora sarà bella la conversazione/ quando l’amante lontano sarà tanto vicino/ che con arte cortese potrà godere di diletto/… Dio, che fece tutto quanto va e viene/ e creò questo amore di lontano,/ mi dia la facoltà, perché ne ho il coraggio,/ di vedere questo amore di lontano/ veramente, in tale intimità/ che la camera e il giardino mi sembrino sempre una reggia (Jaufre Rudel.)
3. Ma ci sono ben altre testimonianze, sia pure soltanto indirette, che nella Francia meridionale nel XII secolo qualcosa di simile ad un adulterio sessualmente riservato sia stato messo alla prova e con piena soddisfazione di entrambe le parti. Esse stanno nei testi della poesia provenzale. che qui si leggono dal libro I trovatori (1989) di Costanzo di Girolamo che ne contiene una intelligente antologia sia in lingua originale che in traduzione in italiano, sia pure con la necessaria riserva (come detto in apertura del volume) che
sarebbe un errore immaginare che tutto quello che i trovatori e i loro biografi raccontano sia vero, o meglio che vada preso alla lettera: ma sarebbe anche un errore credere che tutto sia falso e che la loro poesia si riduca ad una esercitazione intellettualistica.
Ordunque a leggere quei testi poetici sembra proprio che a quel tempo madonne e trovatori si siano dati al piacere dell’adulterio, seguendo la buona regola della cortezia, a partire da un desiderio dichiaratamente carnale che veniva evocato senza infingimenti e che poi si concretizzava in notti d’abbracci appassionati alla faccia del “geloso” (il gilos, com’era allora chiamato il marito).
Né calenda di maggio/ né foglia di faggio/ né canto d’uccello/ né fior di gladiolo/ c’è che mi piaccia,/ nobile e gaia signora,/ finché uno svelto/ messaggero io riceva/ dalla vostra bella/ persona che mi riferisca/ di un nuovo piacere/ sicché amor mi attiri/ e giaccia con voi/ e mi spinga/ verso voi,/ dama sincera,/ e cada/ ferito/ il geloso/ prima che mi ritiri/… Come sarebbe perduta/ e come potrà essermi restituita/ una dama se non/ l’ho avuta?/ Infatti non si può essere amanti/ solo con il pensiero/… eppure non vi ho mai tenuta nuda,/ né vinta in altro modo (Raimbaut de Vaqueiras).
Certamente
mi offrirebbe un gentile soccorso/ se una volta, in una notte scura,/ lei mi facesse entrare là dove si spoglia (Peire Rogier).
Sarà per me un grande onore, signora,/ se mi concedete/ il privilegio d’abbracciarvi/ nuda sotto la coperta/ perché voi valete cento volte le migliori (e non esagero!);/ e solo al pensarlo il mio cuore gioisce/ più che se fossi un imperatore (Raimbaut d’Aurenga).
Ben fui gradito/ e le mie parole accolte/ perché non fui stupido nello scegliere/ il giorno che io e la mia dama ci baciammo/e lei mi fece scudo con il suo bel mantello color indaco/ in modo che non lo vedessero i falsi maldicenti con le lingue biforcute/… Dio misericordioso/… voglia che insieme io e la mia signora giacciamo/ nella camera in cui entrambi ci scambiammo/ delle belle promesse, da cui attendo una gioia così grande/ di scoprire, baciando e ridendo, il suo bel corpo/ e di ammirarlo contro la luce della lampada (Arnaut Daniel).
E quando finalmente la gentil dama acconsentiva, allora:
Tanto mi sembra snella, rotonda e liscia/ sotto la camicia di tela sottile,/ quando la vedo,/ che in fede mia non invidio affatto/ né conte né re,/ perché assai meglio realizzo i miei desideri/ quando la tengo nuda/ sotto un tendaggio ricamato (Bernart Marti).
Non inganna in bellezza/ e non è un’illusione/ il suo gioioso,/ giovane, gentile corpo amoroso;/ anzi diventa più bella se la spogli/ e più la desidereresti/ quanti più indumenti le togliessi;/ perché il suo seno fa sembrare giorno la notte/ e se più in giù tu guardassi,/ tutto il mondo risplenderebbe (Bertran de Born).
Ma nemmeno le dame si tiravano indietro, a dar retta alle trobairitz (le trovatrici), straordinarie poetesse che hanno dato voce in versi alla loro joy d’amor perché quando «verremo presto alla prova, io mi metterò alla vostra mercé» (Azalais de Porcairagues). La più nota delle trovatrici è stata Beatriz, contessa di Dia, che ha cantato a meraviglia il suo desiderio d’adulterio “cortese”:
Vorrei stringere nudo, una sera, il mio cavaliere/ tra le mie braccia/ e che lui si sentisse felice/ solo che io gli facessi da cuscino/… Bell’amico, gentile e valoroso,/ quando vi avrò in mio potere?/ Potessi giacere con voi una sera/ e darvi un bacio d’amore!/ Sappiate che avrei grande desiderio/ di avervi in luogo di marito/ a condizione che mi promettiate/ di fare tutto quello che vorrei (Beatriz de Dia).
Nella loro estrema libertà d’amore queste dame potevano anche permettersi di cambiare amante (il matrimonio era invece indissolubile), come doveva amaramente provare sulla sua pelle Bernart de Ventadorn, quando non fu più corrisposto da Eleonora d’Aquitania:
se la mia dama vuole un altro amante/ io non glielo vieto/… (ma) devo averne certo una ricompensa/ perché perdono un torto così grande./ I suoi begli occhi traditori/ che mi guardavano così dolcemente/ commettono un grave errore/ se allo stesso modo guardano altrove/… ma, Signora, amate pubblicamente/ un altro e amate me di nascosto,/ in modo che io ne abbia tutto il vantaggio/ e lui le belle parole (Bernart de Ventadorn).
Comunque Bernart se ne lamenterà anche in una poesia sull’allodola che gioiosa sbatte le ali al primo raggio del sole che per la sua bellezza viene regolarmente riportata nelle antologie, sebbene non vi si tratti né di allodola né di raggio. Infatti, la storia esterna della poesia, come raccontato nella Vida del trovatore (che leggo in R. Pinto, Lancillotto e le donne, in Parola di donna. Giornate internazionali di studio dedicate a Francesca da Rimini, Editrice Romagna Arte e Storia, Rimini, 2010) è ben diversa, essendo “allodoletta” (lauzeta) il soprannome di Eleonora e Ray (Raggio) il nome del suo nuovo amante. Accadde allora così: che
un giorno il cavaliere andò a visitare la duchessa ed entrò nella sua stanza. La donna, quando lo vide, si tolse il mantello, lo avvolse intorno al collo di lui e si lasciò cadere sul letto. Bernart vide tutto perché una damigella della donna gli mostrò la scena di nascosto. Per questa ragione scrisse la canzone Quand veil la lauzeta mover.
E allora leggiamola a questa luce, ma non traducendo impropriamente la parola del poeta rai (raggio) con “sole”, come fa invece Di Girolamo:
Quando vedo l’allodoletta muovere/ per la gioia le sue ali contro il raggio/ e svenire e lasciarsi cadere/ per la dolcezza che sente nel cuore/ ah! così grande è l’invidia che provo/ di chiunque io veda gioire/ che mi meraviglio che in quel momento/ il cuore non mi si sciolga dal desiderio./ Ahimè! tanto credevo di sapere/ dell’amore e tanto poco ne so/ perché non posso trattenermi dall’amare/ colei da cui non avrò mai ricompensa./ Mi ha privato del mio cuore, di me,/ di se stessa e di tutto il mondo;/ e quando mi ha privato di sé non mi ha lasciato/ che desiderio e cuore bramoso…/ In questo si rivela veramente donna/ la mia signora, e io glielo rimprovero/ perché non vuole ciò che si deve volere/ e fa ciò che le si vieta… A lei non piace/ che io la ami e non glielo dirò mai più./ Così mi allontano da lei e rinuncio;/ lei mi ha ucciso e io le rispondo come morto,/ e me ne vado, perché non mi trattiene,/ infelice, in esilio, non so dove (Bernart de Ventadorn).
(Continua)