La carestia costringe a mangiare uomini – Il Vesuvio – da Procopio, La guerra gotica
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Procopio, storico greco dell’età di Giustiniano imperatore, nacque a Cesarea di Palestina tra il 490 e il 507 d.C. Fu consigliere segreto del generale bizantino Belisario e con lui partecipò alle guerre d’Oriente, d’Africa e d’Italia, guerre di cui narrò gli accadimenti negli otto libri della sua Storia delle guerre. I due brani che riportiamo di seguito sono tratti dai libri quinto, sesto e settimo che raccontano la campagna contro i Goti e la riconquista romana dell’Italia. Pagine ricche non solo di preziose informazioni legate alle vicende militari, ma anche di interessanti notizie etnogeografiche al modo di Erodoto, suo riferimento culturale assieme a Tucidide. Fra gli altri scritti, particolarmente originali Carte segrete, che denunciano le miserie morali della corte bizantina. Morì nel decennio 560-570.
La traduzione dal greco è di Domenico Comparetti per le edizioni Garzanti i grandi libri, II edizione, Milano 2007, La guerra gotica, pp. 240-42 e pp. 169-70 e p. 656.
L’anno avanzava verso l’estate, e già il grano cresceva spontaneo, non in tal quantità però come prima, ma assai minore; poiché non essendo stato internato nei solchi con l’aratro, né con mano di uomo, ma rimasto alla superficie, la terra non poté fecondarne che una piccola parte. Né essendovi alcuno che lo mietesse, passata la maturità, ricadde giù e niente poi più ne nacque. La stessa cosa avvenne pure nell’Emilia; per lo che la gente di quei paesi, lasciate le loro case, recaronsi nel Piceno pensando che quella regione, sendo marittima, non dovesse essere totalmente afflitta da carestia. Né men visitati dalla fame per la stessa ragione furono i Toscani; dei quali quanti abitavano i monti, macinando ghiande di quercia come grano, ne facevano pane, che mangiavano. Ne avveniva naturalmente che i più fossero colti da malattie d’ogni sorta, solo alcuni uscendone salvi. Nel Piceno dicesi che non meno di cinquantamila contadini romani morissero di fame, ed anche ben molti di più, al di là del golfo Ionio.
Quale aspetto avessero ed in quel modo morissero, sendone stato io stesso spettatore, vengo ora a dire. Tutti divenivano emaciati e pallidi, e la carne loro, mancando di alimento, secondo l’antico adagio, consumava se stessa, e la bile, prendendo predominio sulle forze del corpo, dava a questo un colore giallastro. Col progredire del male ogni umore veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva come aderisse alle ossa, ed il colore fosco cambiatosi in nero li faceva parere come torce abbrustolite. Nel viso erano come stupefatti e come orribilmente stralunati nello sguardo. Quali di essi morivano per inedia, quali per eccesso di cibo, poiché, essendo in loro spento tutto il calor naturale delle interiora, se mai alcuno li nutrisse a sazietà e non a poco per volta, come si fa dei bambini appena nati, tanto più presto venivano a morte.
Taluni furono che sotto la violenza della fame mangiaronsi l’un l’altro; e dicesi pure che due donne in certa campagna al di là di Rimini mangiassero diciassette uomini; poiché sendo esse solo superstiti in quel villaggio, coloro che di là viaggiavano andavano a stare nella casa da loro abitata, ed esse, uccisili mentre dormivano, se ne cibavano. Dicono poi che il decimottavo ospite, svegliatosi quando queste donne stavano per trafiggerlo, balzato loro addosso, ne risapesse tutta la storia, ed ambedue le uccidesse. Così dicesi andasse tal cosa.
Ben molti travagliati dal bisogno della fame, se mai in qualche erba si incontrassero, avidamente vi si gettavano sopra e, appuntate le ginocchia, cercavano di estrarle dalla terra, ma non riuscendo, poiché esausta ogni loro forza, cadean morti su quell’erba e sulle proprie mani. Né v’era alcuno che li seppellisse, poiché a dare sepoltura niuno pensava; non erano però toccati da alcuno uccello dei molti che sogliono pascersi di cadaveri, non essendovi nulla per questi, poiché come ho già detto, tutte le carni la fame stessa aveva già consumato. E della fame tanto sia detto.
(…) In quel tempo il Vesuvio prese a mugghiare, senza però entrare in eruzione, quantunque tutto facesse credere che ciò farebbe, perloché le genti del paese vennero in gran timore. Questo monte è distante da Napoli settanta stadi e situato a settentrione di essa; è molto arduo; nella parte inferiore coperto di vegetazione tutt’intorno; di sopra è dirupato assai e mal praticabile. Sulla vetta del Vesuvio, quasi nel mezzo, vedasi una spelonca profonda da parere che si estenda fino alle radici del monte; là dentro chi ardisca sporgere il capo, può vedere del fuoco, e di tempo in tempo una fiamma si svolge, senza dar molestia alcuna alle genti del paese. Ma dopo che il monte ha emesso un rumore simile ad un muggito, per lo più suol poco appresso scagliar fuori gran quantità di cenere, che se per mala ventura alcun viandante ne fosse colto, non va possibilità alcuna che rimanga vivo; se poi venga a cadere sulle case, cadono anch’esse travolte dalla massa delle ceneri; quando avviene che le spiri contro un forte vento, sollevasi quella a grande altezza a perdita di vista, e trasportata là dove la spinge il vento, vien poi a cadere sulla terra a grandissima distanza.
Dicesi che una volta andasse a cadere a Bisanzio, con tale spavento di quella gente che da quel tempo in poi furonvi istituite annue preghiere per placare l’ira divina, e che anche in altro tempo ne venisse a cadere a Tripoli in Africa. Dicesi pure che tal muggito prima avvenisse ogni cento o più anni, e più tardi si producesse anche più frequentemente. V’ha chi afferma che quando il Vesuvio abbia eruttato di queste ceneri, quella regione non possa a meno di essere molto ferace. L’aria su quel monte è quanto mai sottile e buona per la salute; ed invero i medici da tempo antico mandan colà i malati di tisi. (…)
Quante volta accada che questo monte, come già dissi, erutti ceneri, la fiamma, schiantando anche sassi dalle viscere del Vesuvio, li scaglia verso la vetta quali piccoli, quali assai grandi, e di là li sparge d’ogni dove; ed anche un torrente di fuoco scorre ivi dalla vetta fino alla radice del monte e più in là ancora; cose tutte queste che avvengono anche nell’Etna. E quel torrente di fuoco, rompendo il terreno, forma alte rive da ambo le parti. La fiamma che corre dapprima sul torrente, lo assomiglia ad un corso di acqua accesa; spenta poiché essa sia, il torrente tosto arresta il suo corso, né più oltre procede, e quel che rimane di quel fuoco, pare come un fango cinereo.
E tanto sia detto del Vesuvio.