Del cinema americano e del piacere a tutti. Critica al film “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” e suggerimenti per visioni alternative
di Fabrizio Simoncini
Da un po’ di tempo ho notato molti critici cinematografici pestare le proprie tastiere, – cellulare o tablet poco importa – con il rimando di un ticchettio che sembra evocare chi la sappia molto lunga, per incensare il film “Three billboards outside Ebbing, Missouri” (Tre manifesti a Ebbing, Missouri). Tutti a elogiare con dovizia di aggettivi la bontà del nuovo prodotto a stelle e strisce.
Poi quasi per caso, perché oggi sulla rete il caso o meglio il suo anagramma caos la fa da padrone, leggo una recensione abbozzata di Sabina Guzzanti su questa opera cinematografica di Martin McDonagh. E mi colpisce subito perché, la grande attrice satirica, riesce a cogliere, in modo essenziale e risvegliandole, le sensazioni che all’uscita della visione avevo provato: un film molto ben fatto ma inutile e, oserei dire nella sua costruzione, quasi surreale. Surreale nel senso di essere totalmente fuori da ogni cognizione, o meglio rappresentazione, seria e corretta della realtà, a cui sembra il film invece voler restare decisamente aggrappato. In verità avendolo visto al Festival del Cinema di Venezia me ne ero presto dimenticato, perché subito catapultato in un’altra sala a degustare nuove porzioni di storie in digitale.
E così quando in questi giorni ho cominciato a leggere recensioni da capolavoro sul film, ora in uscita nelle sale cinematografiche, mi è tornato alla mente il senso di inefficace vanità che quell’esercizio di stile mi aveva provocato a settembre. Sono in effetti film costruiti e stilizzati in modo così esemplare pulito equilibrato, e con una recitazione superlativa (gli americani in questo sono insuperabili: basta confrontare un loro prodotto medio per esempio con uno italiano per comprendere l’abisso che li separa), da restare interdetti a tal punto che viene spontaneo convincersi della bontà del film stesso. É la stessa sensazione che si può provare nel trovarsi a cena, con una donna o uomo dappoco ma bellissimi: talmente perfetti nelle linee del viso e così ben vestiti di un’eleganza quasi regale, al termine della quale il vuoto della persona che ti sta di fronte non ti fa capire se sia stata una serata meritevole di ricordo oppure un’inutile farsa al lume di candela. E cominciano a essere molti i lungometraggi d’oltreoceano a venire confezionati con questo canovaccio impeccabile, in modo, come suggerisce la Guzzanti, da piacere a tutti. Ma sappiamo anche che piacere a tutti è impossibile, e quando lo si cerca di fare è perché in primis non piaci a te stesso.
Il vero maestro di questa sottile perfidia narrativa ritengo sia il regista Tom Ford, vero pittore rinascimentale nella preparazione, dal punto di vista delle immagini, del contesto descrittivo, dei colori, delle suggestioni. Per capirlo a fondo basta riguardarsi i suoi due pezzi forti: “A single Man” e “Animali notturni” entrambi portati a Venezia rispettivamente nel 2009 e nel 2016. Questa inappuntabile espressività, che tracima in ciò che è la sua genesi effettiva cioè la finzione (pare tutto autenticamente e incredibilmente non credibile), a mio avviso dipende dall’incapacità di raccontare storie vere o almeno che abbiano la parvenza dell’attendibilità. La società americana è ormai talmente sventrata dalla perfezione tecnologica e dall’invasività della rete che si pone nei confronti dell’esistenza in una dimensione quasi astratta. In sostanza credo che quando l’individuo viene stabilmente connesso alla rete e sussunto in modo pieno dal “conatus” del capitale (la cui più spettacolare attrattiva è la tecnica con la sua altissima capacità spaesante e seducente concretezza al contempo, concetti peraltro di heideggeriana memoria) abbia bisogno di quadri perfetti, ma tragicamente vuoti, per restare aggrappato alla propria essenza che ora si sostanzia solo in apparenza e desistenza. Un circolo vizioso del fintamente complesso associato al perfetto che abbaglia, ma che in realtà si arriccia intorno al niente.
Per chi invece voglia ancora godere di storie dal sapore biologico, mi sento di consigliare un film, anch’esso proiettato in anteprima a Venezia, veramente interessante sul piano storico e molto coinvolgente umanamente quale “L’insulto”. Ambientato nel Libano, nella città di Beirut, oggi. Da un episodio apparentemente futile, la rottura di un tubo di una terrazza per lo scolo dell’acqua, si scatena un odio e una guerra giudiziaria fra Yasser, profugo palestinese nonché meticoloso capocantiere, e Toni meccanico militante della destra cristiana. S’innesca così una spirale di violenza verbale e fisica che travolge l’intero paese mettendo a nudo i nervi scoperti che la storia drammatica dei due popoli riserva alle vite private di uomini ancora legati a stretto giro a quelle tragiche vicende.
Sempre presentato al Festival lagunare, con in sala Michael Caine (voce narrante del documentario in pieno stile londinese) e con dieci minuti di applausi mentre scorrevano i titoli di coda (accompagnati da “My generation” degli Who sparato in modo suggestivo a tutto volume), è per l’appunto l’ammaliante racconto documentale dal titolo “My Generation” di David Batty. Un resoconto travolgente che mostra senza fronzoli, e con immagini di repertorio splendide, la forza contestatrice e dunque sovvertitrice di una generazione, ribelle quasi per natura, che attraverso l’innovazione nella musica e nell’arte ha “involontariamente” cambiato il mondo e innescato quella rivoluzione nei costumi e nel pensiero che va sotto il nome di ’68.
Dunque non fatevi fuorviare dai soliti piatti ben presentati in salsa agro-americana ma che poi ti lasciano fame di autentica sostanza. Scegliete nuovi stilemi artistici, lontani dalla cultura hollywoodiana che ormai sa solo snocciolare ricette così perfette: fastidiosamente sovraccariche di crudeltà e passione per piacere indistintamente a tutti. Il fine non è solo incassare al botteghino: come sua maestà il profitto, del resto, gentilmente richiede, ma creare una bolla ovattata sintesi a cavallo fra realtà e finzione, utile a non disturbare i grandi manovratori di cervelli e forza lavoro.
Faccio seguire, dopo averla citata, la breve recensione di Sabina Guzzanti sul film in questione tratta dalla sua pagina di facebook.
THREE BILLBOARDS
“Bellissimo film, originale la storia, battute brillanti, attori creativi, un po’ Cohen un po’ Tarantino. Godibile, ben fatto. Ce ne sono tanti di film così più o meno riusciti.
Film perfetti di cui non ti resta molto. Non ti cambiano. Non ti insegnano niente di nuovo sull’amore, non ti spingono nemmeno a vestirti in un modo diverso a cambiare smorfie. Non i film di successo per lo meno.
Qual è l’ultimo film che vi ha trasformato almeno un pochino?
Perché le serie tv invece sono spesso più incisive? E’ una questione di durata?
Allora Black Mirror che dura un’ora?
Riflettiamoci.
E’ un fatto che ha a che fare più con la libertà che altro. Nelle serie ce n’è di più.
L’obbligo di stupire viene tradotto dal marketing come licenza.
Non è solo l’impigrimento degli spettatori che preferiscono il divano al calvario di cercare parcheggio. E’ il genere cinematografico che è diventato un esercizio di stile sulle diecimila regoluzze per piacere a tutti.”