I Romani vinti dalla ricchezza e dal potere – da Svetonio, Vite dei Cesari, libro IV, Caligola
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Di modesta famiglia equestre, Caio Svetonio Tranquillo è nato poco dopo il 70 d.C. forse a Ippona, per altri a Ostia. Intraprese la carriera forense dedicandosi nel contempo a studi eruditi. Allontanato da corte per intrighi di palazzo, si ritirò a vita privata e continuò i suoi studi. Morì intorno al 130. Scrisse altre opere oltre alle Vite dei Cesari, fra cui la più nota De viris illustribus, purtroppo perduta, ma che ebbe nel tempo molti estimatori e imitatori. Le Vite dei Cesari comprendono le biografie dei primi dodici imperatori romani, da Caio Giulio Cesare a Domiziano. Si differenziano tuttavia dalle opere degli storici precedenti e contemporanei proprio per l’esposizione aneddotica che accoglie, accanto a momenti esaltanti per la grandezza, nel bene e nel male dei personaggi narrati, episodi di pettegola quotidianità, che però le rendono biografie in toto ‘umane’. Ho scelto la vita di Caligola perché è il Cesare di cui si è purtroppo perduta la vita scrittane da Tacito. La traduzione con testo latino a fronte è di Felice Dessì per le edizioni BUR.
Annoto a commento mie impressioni epidermiche: la gente della Roma imperiale – plebe, ma non solo – nominalmente padrona del mondo, ma nei fatti priva di qualsiasi peso politico, pensava ormai solo ai giochi, che si rinnovavano e celebravano a ogni occasione sempre più fastosi e spettacolari: gladiatori, belve, corse di cocchi, fin battaglie navali – e poi teatro. Partecipavano da attori nobili e donne, che mai era avvenuto prima, sazi fino al disgusto di una vita a cui non sapevano più cosa chiedere. Una società corrotta dal profondo: la moltitudine mangiava per distribuzioni gratuite, mentre i nobili si disputavano cariche prive di potere reale e celebravano trionfi senza aver mai combattuto. L’apparenza della gloria avrebbe dovuto mascherare la precarietà del vivere accanto al principe tiranno.
Il quale iniziava sempre ingraziandosi tutti – ma per primi i pretoriani e le legioni – con donativi in denaro, cibo e, s’è detto, giochi senza fine, apparenza di umanità, giustizia, benevolenza per l’universale. Poi, saldo il potere, la musica cambiava. Questi Cesari parevano divenire tutti pazzi, fosse l’onnipotenza incontrastata, la consapevolezza di non poter fidarsi d’alcuno, la noia dell’aver tutto ancor prima di desiderarlo.
Caio Cesare, consegnato alla storia col soprannome di Caligola, fin dall’adolescenza non riuscì a reprimere la propria natura crudele e viziosa. Assisteva con immenso piacere alle torture e alle esecuzioni dei condannati, e di notte, truccandosi con una parrucca e un lungo mantello si dava agli stravizi e agli adulteri. Tiberio tollerava questa condotta, forse nella speranza che umanizzasse un poco il suo temperamento (…) Lo aveva scrutato fino in fondo, e parecchie volte aveva ripetuto ad alta voce: “Caio vive per la propria rovina e per quella di tutti gli altri: io sto allevando in lui una serpe per il popolo romano e un Fetonte per l’universo”.
(…) Fece avvelenare Tiberio, a quanto dicono, e diede ordine di togliergli l’anello mentre era ancora in agonia; ma poiché sembrava che Tiberio offrisse resistenza, gli fece buttare un cuscino sulla testa e lo strangolò anche con le proprie mani. Un liberto venne immediatamente crocifisso perché si era messo a urlare di fronte all’atrocità di quel delitto.
(…) Non permise mai che qualcuno fosse giustiziato se non con ferite piccole e numerose. Era ben nota la sua costante raccomandazione: “Colpisci in modo che senta di morire.”
Avendo mandato a morte una persona diversa da quella che era stata condannata disse: “Non importa, hanno meritato tutti e due la stessa pena”; e ripeteva spesso il verso di quella tragedia: “Mi odino purché mi temano!”
In quanto all’ordine equestre, lo diffamò continuamente, stimandolo devoto soltanto al teatro e all’arena. Furioso che la folla non favorisse i campioni a lui prediletti, esclamò: “Ah! se il popolo romano avesse una testa sola!”
Poiché un gruppo di cinque reziari tunicati si erano fatti sconfiggere senza combattere da altrettanti avversari, diede ordine di sgozzarli senza eccezione; ma siccome uno di loro, afferrato il tridente, si lanciò contri i vincitori e li uccise tutti, condannò in un editto questo massacro, come se si fosse trattato di una strage particolarmente crudele, e maledisse coloro che vi avevano assistito.
A Roma, durante un banchetto pubblico, avendo uno schiavo cercato di strappare da uno dei letti e di rubare una lamina d’argento, lo consegnò immediatamente al carnefice, con l’ordine di andare in giro attorno alle tavole, dopo avergli reciso le mani e avergliele appese al collo, assieme a un cartello in cui venisse spiegato il motivo della pena.
(…) Molti prodigi annunziarono la sua morte. A Olimpia la statua di Giove che egli aveva dato l’ordine di rimuovere dal suo piedistallo e trasferire a Roma, si mise improvvisamente a ridere così forte che gli operai fuggirono terrorizzati mentre le impalcature crollavano a terra.
Il Campidoglio di Capua fu colpito dal fulmine il giorno delle idi di marzo, e nello stesso giorno, a Roma, fu colpita la cappella di Apollo Palatino, guardiano dell’atrio. Molti dedussero che questi fattori indicavano, il primo un pericolo per l’imperatore, proveniente dalla sua guardia; il secondo, una morte memorabile, come quella già avvenuta alla stessa data.
La vigilia della sua morte, sognò di trovarsi in cielo vicino al trono di Giove, e che questi, con una sola spinta dell’alluce del piede destro, lo faceva precipitare sulla terra.
(…) Il nono giorno prima delle calende di febbraio, verso l’ora settima, era incerto se recarsi a pranzo, sentendosi lo stomaco ancora appesantito per quanto aveva mangiato il giorno precedente; alla fine si alzò, ma solo in seguito alle pressioni dei suoi amici. In una galleria che doveva attraversare, alcuni ragazzi di nobili famiglie che aveva fatto venire dall’Asia perché si esibissero sulla scena, stavano facendo le prove per lo spettacolo, si fermò a guardarli e incoraggiarli.
Da questo momento vi sono due versioni diverse: alcuni dicono che mentre stava parlando coi ragazzi, Cherea lo colpì gravemente alla nuca con un colpo di taglio della spada, esclamando: “Colpisci!”, e che quindi il tribuno Cornelio Sabino, l’altro congiurato, lo trafisse al petto. Secondo altri, invece, Sabino, dopo aver fatto allontanare la folla da alcuni centurioni al corrente della congiura, gli aveva chiesto, secondo l’uso militare, la parola d’ordine, e quando Caio aveva risposto: “Giove!”, Cherea, gridando: “Eccolo!” gli aveva fracassato la mascella mentre si voltava. Caduto a terra con le membra contratte, e mentre continuava a gridare: “Sono vivo!”, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti, la parola d’ordine per tutti era “Ancora!”. Qualcuno lo colpì anche alle pudende.
Visse ventinove anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi e otto giorni.