A Roma muore la libertà – da Tacito, Annali, I, 2-7; XV, 60-64
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Di Tacito ho scritto poche essenziali notizie sul numero precedente, presentando le pagine che descrivono la rivolta delle legioni di Germania alla morte dell’imperatore Augusto. La sua opera merita tuttavia ulteriori se pur insufficienti citazioni. Ormai si dice da tutti che la storia non é maestra di vita, perché non si ripete mai eguale. Ma soprattutto – penso – perché le generazioni dimenticano o non vogliano ricordare: altrimenti potremmo con Croce affermare che Tacito, descrivendo il rovinare di Roma repubblicana nel dispotismo dell’impero, pare rappresentare il nostro tempo. Si leggano a conferma le righe che seguono, tratte dall’inizio degli Annales, quando Augusto e poi Tiberio divengono padroni incontrastati dello Stato. Segue la descrizione della morte di Seneca, essendo imperatore Nerone, storica incarnazione della più efferata tirannide.
Dopoché, disfatti Bruto e Cassio, non vi furono più armi a tutela della comune libertà… e uccisosi Antonio, neppure al partito cesariano rimaneva altro capo che Augusto, questi… come si fu guadagnato i soldati con donativi, il popolo con le provvidenze annonarie, tutti quanti con la dolcezza del vivere in pace, prese ad innalzarsi a poco a poco, traendo a sé le funzioni del senato, dei magistrati e delle leggi; e nessuno gli si oppose, perché i più fieri erano caduti sul campo o a causa delle proscrizioni, e i rimanenti dei nobili venivano elevati in ricchezza e in onore tanto più, quanto più prontamente si disponevano a servire; e, favoriti dal nuovo ordinamento, preferivano la condizione attuale, ch’era tranquilla, alla precedente, piena di pericoli e di incertezze. Neppure le province si mostravano contrarie al nuovo stato di cose, dato che il governo del senato e del popolo era divenuto sospetto, per le contese tra i potenti e l’avidità dei governatori. Né sufficiente era la tutela delle leggi, sconvolte dalla violenza, dal broglio, infine dall’onnipotenza del denaro…All’interno tutto era tranquillo; i nomi delle magistrature erano rimasti i medesimi; i giovani erano nati dopo la battaglia di Azio, ed anche gli anziani, per la maggior parte, nel periodo delle guerre civili. Quanti sopravvivevano, ormai, di quelli che avevano visto la repubblica? Mutato dunque del tutto l’ordinamento politico, nulla rimaneva dell’antico e puro spirito repubblicano; tutti, rinunciando all’eguaglianza, aspettavano gli ordini del principe.
Augusto muore dopo un lungo impero. Gli succede il figliastro Tiberio e Tacito commenta con parole sempre attuali: a Roma frattanto consoli, senatori, cavalieri si precipitavano a farsi servi. Ciascuno, quanto più in alto grado, tanto più era sollecito alla finzione…
Passano Tiberio, Caligola, Claudio: al trono imperiale sale Nerone, che Tacito consegna alla storia come feroce tiranno. Fra gli altri innumerevoli delitti Nerone costringe il proprio antico maestro, il filosofo Seneca, a darsi la morte.
Seneca era ritornato quel giorno dalla Campania e si era trattenuto in un suo podere del suburbio a quattro miglia da Roma. Vi giunse il tribuno sul far della sera e circondò la casa con manipoli di soldati: poi trasmise gli ordini dell’imperatore a Seneca stesso, mentre cenava con la moglie Pompea Paolina e con due amici… Evitò tuttavia di udire e di vedere Seneca, e fece entrare in casa di lui un centurione, che gli annunziasse il destino supremo. Quegli, imperturbabile, chiede che gli si portino le tavolette del testamento: e poiché il centurione gliele ricusa, voltosi agli amici dichiara che, essendogli negato il mezzo di ricompensare i loro meriti, lasciava loro in eredità l’unica cosa rimastagli, ch’era però la più bella: l’immagine della propria vita… Pone quindi freno alle loro lacrime, ora col ragionamento, ora in tono più severo, e quasi a forza li richiama alla fermezza, chiedendo loro dove mai se ne fossero andati gli insegnamenti della saggezza, dove la norma per tanti anni meditata contro le incombenti avversità. Chi di loro non conosceva la ferocia di Nerone? e dopo l’uccisione della madre e del fratello, non gli restava altro se non aggiungervi l’assassinio di colui che gli era stato educatore e maestro.
Come ebbe detto tali cose e altre simili, rivolto a tutti i presenti, abbracciò la moglie, e inteneritosi alquanto, in contrasto con la forza d’animo fino allora dimostrata, la pregò e scongiurò che moderasse la sua angoscia e non vi si abbandonasse per sempre, ma cercasse degno conforto al rimpianto del marito ripensandone la vita virtuosamente trascorsa. Ma Paolina risponde che anche lei deve morire, e invoca la mano del carnefice. Allora Seneca, non volendole precludere la gloria e spinto nel tempo stesso dall’amore a non lasciare esposta agli insulti la donna che unicamente amava, disse: – Io ti avevo additato le consolazioni della vita, ma tu preferisci il vanto della morte, né io metterò ostacolo a che tu dia un tale esempio. In questo così crudele trapasso sia pari tra noi la fermezza, ma di più chiara lode risplenda la fine tua.- Dopo ciò si tagliano d’un colpo le vene del braccio. Seneca, perché il suo corpo di vecchio, indebolito dal poco sostentamento, non consentiva il rapido defluire del sangue, si fa aprire anche le vene delle gambe e delle ginocchia; prostrato dalle atroci sofferenze, per non togliere coraggio alla moglie col proprio patire e per non perdersi d’animo egli stesso al vedere le sofferenze di lei, la persuase a ritirarsi in un’altra camera. E non venendogli meno l’eloquenza neppure in quell’estremo momento, chiamò a sé gli scrivani e dettò loro pensieri che mi astengo dal rivestire d’altra forma, perché si sono divulgati con le sue stesse parole.
Ma Nerone, che non nutriva odio particolare contro Paolina e non desiderava accrescere il malcontento contro la propria ferocia, comanda che le si impedisca di morire. Servi e liberti, per esortazione dei soldati, le chiudono le vene ed arrestano il sangue: se ella ne avesse coscienza o no, è incerto. Qualcuno infatti (incline com’è la gente alle interpretazioni meno buone) pensò ch’ella avesse sollecitato la gloria di morire insieme col marito fintantoché credette Nerone implacabile: ma che poi, essendole apparsa una migliore speranza, fu vinta dalle lusinghe della vita. A questa aggiunse però pochi anni, encomiabile per fedeltà al ricordo del marito, e tanto pallida in volto e nelle membra, da rivelare già avesse esalato molta parte del suo soffio vitale.
Seneca intanto, poiché l’attesa si prolungava e la morte era lenta a venire, pregò Stazio Anneo, della cui lunga amicizia e della cui arte medica aveva fatto esperimento, di versargli il veleno preparato da tempo, quello stesso con cui si estinguevano in Atene i condannati per sentenza popolare. Gli fu recato, ma lo bevve inutilmente; ché aveva gli arti già freddi e precluso il corpo all’azione del veleno. Da ultimo si fece mettere in una vasca di acqua calda, e spruzzandone i servi più vicini disse ancora ch’egli offriva quella libagione a Giove liberatore. Messo infine in un bagno a vapore, fu soffocato dal caldo, e venne cremato senza alcuna cerimonia funebre. Così aveva disposto per testamento quando, ancora ricchissimo e al colmo della potenza, pur già pensava alla sua fine.