La rivolta delle legioni – da Tacito, Annali, I, 34-44
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Tacito, storico e scrittore fra i maggiori di tutti i tempi, nacque forse a Roma nel 54 o 55 d.C. e morì fra il 120 e il 130. Incerto anche il prenome, Publio o Gaio. Le sue opere sono la Germania, l’Agricola, forse il Dialogo degli oratori, le Historiae e, immortale capolavoro, gli Annales. Nei sedici libri degli Annales (perduti i libri dal VII al X sull’impero di Caligola), con uno stile divenuto esemplare per la potenza espressiva e la tensione morale, Tacito narra la storia di Roma dalla morte di Augusto (14 d.C.) alla morte di Nerone (68 d.C.); racconta cioè il governo dei primi imperatori, Tiberio, (Caligola), Claudio e appunto Nerone. Dei quali ci lascia ritratti memorabili per la capacità di lettura dell’animo umano e la disincantata analisi politica delle vicende dell’impero. La traduzione è di Azelia Arici per l’UTET. Augusto muore e gli succede il figliastro Tiberio: le legioni di Germania si ribellano per ottenere dal nuovo principe un trattamento migliore. Le comanda Germanico, fra i primi della famiglia imperiale, duce popolare e benvoluto, che tuttavia è in grave difficoltà.
Conosciuta quindi la rivolta delle legioni, partito in fretta le incontrò fuori del campo; e tenevano gli occhi bassi quasi in atto di pentimento. Quando egli fu entrato nel recinto, si incominciarono a udire lamenti confusi; alcuni, afferratagli la mano come per baciarla, se ne introducevano in bocca le dita, perché egli toccasse le gengive sdentate; altri gli mostravano le membra curve per vecchiezza… Come arrivò a parlare della sedizione, domandando ove mai fosse la sottomissione militare, dove l’antico vanto della disciplina… tutti quanti si denudano, mostrando le cicatrici delle ferite e i segni delle bastonate; poi con grida confuse denunciano il mercato delle esenzioni, l’insufficienza delle paghe, il peso dei lavori, che specificano ad uno ad uno: costruir trincee, scavare fossati, ammassare foraggio, materiale da trasporto e legna da ardere, e tutte le altre fatiche richieste dalla necessità o dal non dover lasciare in ozio le truppe. Violento e più di tutti si alzava il clamore dei veterani, che numerando i loro trenta e più anni di servizio lo supplicavano di dar sollievo alla loro stanchezza: non li costringessero a durare nelle medesime fatiche sino alla morte, ma avesse un limite quel servizio così logorante; e il riposo, poi, non fosse la fame. Vi furono pure alcuni che reclamarono il pagamento del lascito di Augusto, con auspici di felicità per Germanico; e si dichiararono pronti a secondarlo se mai volesse il potere. A questo punto, quasi insozzato da un sospetto di colpa, egli rapido saltò giù dalla tribuna. Mentre si allontanava, gli puntarono contro le armi, minacciandolo se non fosse tornato indietro; egli, gridando che sarebbe morto piuttosto che venir meno alla fede giurata, si strappò la spada dal fianco, e alzatala se la sarebbe piantata nel petto, se quelli che lo circondavano non gli avessero trattenuto a forza la mano. I più lontani della folla, ammassati l’uno contro l’altro, e – cosa incredibile – anche taluni che s’erano spinti innanzi isolati, lo incoraggiavano a ferirsi; anzi, un soldato di nome Calusidio gli offerse la propria spada sguainata, dicendo:- E’ più aguzza -. Parve questo un oltraggio feroce e brutale anche agli infuriati; e vi fu una sosta, bastante a far sì che Germanico fosse tratto a salvamento nella sua tenda.
Nonostante la concessione del congedo dopo vent’anni di servizio e la distribuzione di denaro la rivolta continua fra le legioni. I fedeli a Germanico lo implorano: Se pure egli aveva in dispregio la salvezza propria, perché teneva fra quei furibondi, violatori di ogni diritto, il figlioletto e la sposa incinta? Quelli almeno restituisse salvi all’avo e allo Stato. Egli indugiò a lungo… Da ultimo, baciato con molte lacrime il grembo di lei ed il comune figliolo, la indusse a partire. La schiera miserevole delle donne si avviava: la sposa del comandante fuggiasca, col bambino fra le braccia; all’intorno, piangenti, le mogli degli amici, condotte insieme con lei; né erano men tristi coloro che rimanevano.
Tale visione, non di uno splendido imperatore nel proprio campo, ma quasi di una città vinta, e i gemiti e i pianti delle donne colpiscono l’orecchio e l’attenzione dei soldati, che si avvicinano usciti dalle tende… Donne di grande nascita e non un centurione, non un soldato a proteggerle; nulla di quanto si addice alla moglie di un capo, nulla del séguito; si avviavano verso il paese dei Treviri, fidando nella lealtà di una gente straniera. Di qui un senso di vergogna e di compassione verso Agrippina… il bambino le era nato nell’accampamento, era cresciuto in mezzo alle tende dei legionari, e con parola soldatesca lo chiamavano Caligola, perché spesso, a concigliargli la simpatia della massa, gli si faceva portare la calzatura del soldato. Ma nulla valse ad ammansirli quanto la gelosia verso i Treviri; pregano, si parano dinanzi alla partente; ritorni indietro, rimanga con loro; altri cercano di fermare Agrippina, i più ritornano da Germanico. E questi, sconvolto com’era dal dolore e dallo sdegno, alla folla che si stringeva intorno parlò in questo modo:
– Né la consorte né il figlio mi sono più cari del padre e dello Stato; ma quello sarà difeso dalla sua stessa maestà, l’impero romano dagli altri suoi eserciti. Mia moglie e i miei figli, che volentieri sacrificherei in cambio della gloria vostra, li mando ora lontano da uomini dissennati, perché il delitto che ci sovrasta, qualunque esso sia, soltanto col mio sangue si paghi… Che cosa non avete osato in questi giorni?… Dovrei chiamare soldati voi, che avete stretto d’assedio, con armi e trincee, il figlio del vostro imperatore?… Questa notizia recherò a mio padre… che le sue reclute e i suoi veterani non s’accontentano del congedo e dei donativi; che soltanto qui si ammazzano i centurioni, si cacciano i tribuni, s’imprigionano i legati, si contaminano col sangue il campo e le acque dei fiumi… Ma perché allora, o amici sconsigliati, il primo giorno dell’assemblea mi avete strappato l’arma che mi preparavo a conficcarmi nel petto? Meglio e con più viva amicizia agiva colui che mi offriva la sua spada. Almeno sarei morto senza sapere il mio esercito colpevole di tante infamie…
A queste parole i soldati risposero imploranti; e riconoscendo giusti i suoi rimproveri, lo pregavano di punire i colpevoli, di perdonare ai fuorviati e di guidarli contro il nemico: si richiamasse indietro la sua consorte, ritornasse il bimbo che era cresciuto in mezzo alle legioni, e non fosse consegnato ai Galli in ostaggio. Germanico dichiarò impossibile il ritorno di Agrippina, perché ormai era prossima al parto e l’inverno era imminente: sarebbe venuto il figlioletto; per il resto toccava ai soldati provvedere. Con animo cambiato essi si mettono in moto, e trascinano tutti i più facinorosi, incatenati, dinanzi al luogotenente della prima legione, il quale li fece processare e punire ad uno ad uno in questo modo. Stavano schierate le legioni, a mo’ di assemblea, con le spade in pugno: il reo, fatto salire sopra un rialzo, veniva presentato da un tribuno: se la voce generale lo dichiarava colpevole, era buttato giù e trucidato. E godevano delle uccisioni i soldati, come se per mezzo di quelle assolvessero sé stessi; né Germanico li tratteneva, dato che essi agivano senza alcun ordine da parte sua e quindi su loro medesimi ricadeva la crudeltà e l’odiosità del procedimento…