Il preambolo della Grande Guerra Cino-Americana
di Polpo
IL MONDO SI MUOVE
Mentre il Belpaese proseguiva la sua corsa verso un futuro radioso sotto l’illuminata guida dei dirigenti del PD, in contrade lontane si stavano addensando nubi destinate a far sentire i loro effetti anche a distanza, sia di tempo che di spazio.
Era da poco cominciato il 2017 e nell’Asia Nord-orientale, già da alcuni anni, si dipanava una costruttiva dialettica. Epicentro dell’edificante confronto era il felice paese della Corea del Nord. Il capace presidente attuale, Kim Jong-un, era, per puro caso, il nipotino del “presidente eterno”, Kim Il-sung. Grazie a tale abile dinastia, la Corea del Nord era riuscita ad occupare un ruolo centrale nel panorama politico internazionale. Grandi conquiste scientifiche e umanitarie, come la bomba atomica e i missili per colpire i propri vicini, erano state raggiunte. I nordcoreani erano poi famosi un po’ in tutta l’Asia per l’invidiabile silhouette che li contraddistingueva, frutto di una sana dieta voluta dal regime e realizzata con cura dal ministro dell’agricoltura, Non Man-gi. Essendo un prospero Paese comunista, aveva anche una legislazione sul lavoro molto avanzata ed estremamente semplice, costruita su una unica grande linea guida: “zitto e lavora”. Chi non era d’accordo poteva recarsi, di propria spontanea volontà, in appositi campi di rieducazione dove qualificati formatori aiutavano i disadattati a reinserirsi nella società, preferibilmente in adeguate casse da morto.
L’invidia per il raggiungimento di così importanti risultati faceva sì che la Corea del Nord avesse pochi amici. Tra questi spiccava la Cina, che considerava il vicino una sorta di prototipo per studiare la realizzazione di sempre nuove e più avanzate conquiste comuniste. Meno affezionati al regime nordcoreano apparivano altri Stati limitrofi, in particolare la Corea del Sud e il Giappone. Non aiutavano ad addolcire il clima le reiterate minacce di bombardamento nucleare che il regime di Kim Jong-un indirizzava periodicamente a queste due nazioni e anche al loro alleato principale, gli Stati Uniti d’America.
In tale corroborante contesto avvenne l’incidente che tutti temevano. Uno dei figli del presidente Kim Jong-un, Ki Lo-sa, si era recato, in incognito, a Vladivostok per svagarsi un po’ con gli amici. Erano solo dei ragazzi che non sapevano come comportarsi in un mondo diverso dal loro. Avevano conosciuto alcune ragazze russe, dotate di uno stimolante approccio ludico alle questioni sessuali e alla fine della serata, quando le amiche avevano chiesto il pagamento dei servigi prestati, i nordcoreani, probabilmente non comprendendo il senso della richiesta, le avevano un pochino pestate, ma in tutta buona fede. Era così che si regolavano in patria e pensavano fosse buona educazione fare altrettanto all’estero. Le ragazze, però, erano economicamente legate a degli amici che raggiunsero Ki Lo-sa e soci al ristorante e spiegarono loro, usando il linguaggio dei gesti, che le usanze locali erano diverse. Il figlio del presidente comprese benissimo il senso del messaggio dei russi, come, in seguito, ebbe a segnalare il suo ortopedico. Sono cose che succedono e nessuno ne avrebbe fatto un dramma, se non fosse stato per il ristorante dove avvenne l’incontro: un imperialistico McDonald’s.
Era evidente a tutti, o… insomma… avrebbe dovuto esserlo, che si trattava di un vile complotto ordito dagli americani per attaccare le fulgide conquiste comuniste del popolo nordcoreano. Per questo, il governo di Pyongyang non poteva esimersi dal reagire a difesa della propria sacrosanta rivoluzione.
LA REAZIONE POPOLARE
Il referto ortopedico del figlio convinse definitivamente Kim Jong-un che la patria era in pericolo, mentre la conferma del tentativo di invasione da parte delle forze imperialiste arrivò sotto forma di richiesta di rimborso dei danni, spedita dal gestore (russo) del McDonald’s di Vladivostok.
Scorrendo la nota spese, che ammontava a ben 256 dollari, equivalenti a tre anni di lavoro per un operaio abitante nel paradiso popolare, i vertici nordcoreani compresero all’istante di trovarsi di fronte ad uno spregevole ricatto: la decadente nazione capitalistica voleva estorcere con la forza e l’inganno la ricchezza faticosamente accumulata grazie al lavoro dei proletari asiatici! Non c’era più tempo da perdere. Il presidente, dopo aver consultato i suoi avi in una seduta spiritica di stretta osservanza marxista, diede disposizioni affinché, allertato l’esercito popolare, si armassero i missili atomici per colpire una qualche città imperialista. Il 28 luglio 2017 si riunì il consiglio di guerra della Repubblica Popolare Nord Coreana.
– Dobbiamo radere al suolo Manchester o Liverpool! – affermò perentoriamente la guida del popolo.
– Ma sono in Inghilterra, non negli Stati Uniti! – chiosò l’ex ambasciatore a Pechino, attirandosi lo sguardo di riprovazione di tutti i partecipanti all’incontro.
– Non si mette in discussione l’indicazione del presidente nel corso di un attacco imperialistico contro la patria comunista! – lo corresse il generale Ti Spa-ro.
– Ma… io volevo solo dire … – furono le ultime parole dell’ex diplomatico che venne trascinato fuori dalla riunione da un gruppo di soldati del popolo, prontamente intervenuti in difesa del presidente.
– Immettiamo nei nostri supercalcolatori i dati per il lancio. – Dopo lo spiacevole incidente, il presidente riprese in mano le redini della situazione.
– Certo, presidente! – il generale Ti Spa-ro si predispose a dare seguito all’indicazione della guida del popolo.
– Tenente! – gridò, rivolgendosi al suo attendente – Comunichi alle sale di calcolo le coordinate di Manchester per il lancio del missile popolare! –
– Le… nostre sale di calcolo popolare…, generale? Quelle? – volle precisare il giovane ufficiale.
– Ma certo! Quelle dove abbiamo installato i supercalcolatori frutto dell’ingegnosità del popolo educato secondo i precetti marxisti-leninisti! – chiosò il presidente.
– Vado! – concluse il tenente dopo uno sguardo di intesa con il generale.
– I nemici del popolo hanno ormai le ore contate! – asserì il presidente, non senza un lieve sorriso di compiacimento.
– Ma dobbiamo segnalare qualcosa a Pechino? – chiese il ministro degli esteri Vim en-to.
– No. Gli amici cinesi ci faranno le congratulazioni dopo che avremo distrutto il nemico comune. Facciamogli una sorpresa. – soppesò bene le parole la guida del popolo.
Il tenente, una volta uscito dal gabinetto di guerra, aveva però un dubbio da risolvere: dove diavolo era mai Manchester? Lo chiese al caporale che guidava la bicicletta con cui si stavano recando alle sale di calcolo. Il caporale si offrì di sentire il cognato che, avendo lavorato come marinaio per un paio di anni, conosceva il mondo. In realtà, il cognato del caporale aveva fatto il pescatore e non si era mai spinto oltre una dozzina di miglia dalla costa nordcoreana; però, non volendo deluderli, diede loro le coordinate di un’isola posta ad una decina di miglia a nord del confine con la Russia: gli sembrava un posto sufficientemente lontano da essere all’estero. Con questa preziosa indicazione, i due militari raggiunsero le sale (due) di calcolo popolare. Come spiega bene la locuzione, le sale erano piene di persone in grado di eseguire calcoli. Cinquanta “individui calcolatori” in ogni stanza, dotati di carta (riciclata) e matita, svolgevano efficacemente, nel giro di mezza giornata, il lavoro che un capitalistico computer avrebbe effettuato in pochi minuti. Ma i numeri quantificati dai calcolatori popolari erano più corretti da un punto di vista ideologico e poi, vista la sobria dieta seguita dagli specialisti in aritmetica marxista, il costo di gestione risultava largamente inferiore.
Una volta spiegato al capo-calcolatore lo scopo delle elaborazioni da effettuare, le due stanze da calcolo entrarono in piena attività. Non era permesso scambiare informazioni tra le sale e finché non si fossero avuti due risultati uguali conseguiti indipendentemente non si avrebbe avuto la certezza dell’esattezza delle soluzioni trovate. Tale procedura era uno dei maggiori frutti della scienza della pianificazione centralizzata socialista.
Tuttavia, un po’ la tensione per l’eccezionalità della situazione, un po’ la fretta di respingere l’attacco imperialista fecero sì che i due sottocapi delle due sale di calcolo si incontrassero clandestinamente nei bagni per confrontare le soluzioni trovate. I due vettori di numeri prodotti non erano poi troppo diversi, cosicché non fu difficile, con qualche aggiustamento, fornire al capo-calcolatore due soluzioni identiche. Era passata appena una decina di ore da quando la guida del popolo aveva emanato l’ordine di attacco.
Kim Jong-un, per la verità, stava scalpitando già da tempo. Si era ritenuto opportuno evitargli tediose spiegazioni sul funzionamento delle sale di calcolo, sarebbero state indegne di una guida del popolo. Il generale Ti Spa-ro cominciava a disperare di riuscire ad intrattenere ulteriormente il presidente quando, con perfetta tempestività, il tenente ritornò trionfante:
– Abbiamo il missile pronto con le coordinate per il lancio!
– Presidente, siamo pronti! – dichiarò Ti Spa-ro con una certa solennità.
– Bene, compagno generale! Dov’è il bottone da premere per il lancio? – volle informarsi la guida del popolo, la cui educazione balistica era stata faticosamente costruita sulla visione di una dozzina di film di James Bond. Seguì un imbarazzato silenzio, in cui sguardi disperati si incrociavano tra i presenti nella sala del consiglio di guerra. A quel punto, con un’intuizione geniale, il tenente indicò l’interruttore della luce:
– Compagno presidente, l’abbiamo camuffato là, sulla parete. Se il lancio andrà a buon fine si accenderà la luce posta in alto sul soffitto! – il tenente raccolse con soddisfazione, tra sospiri di sollievo generale, il cenno di approvazione del suo comandante. Ora, solo una lampadina fulminata avrebbe fatto la differenza tra un encomio e la morte per diserzione. La lampadina si accese.
– Abbiamo ripulito il mondo dagli sporchi imperialisti! – sentenziò la guida del popolo.
Dopo un collettivo educato battimano, il tenente uscì dalla stanza con una scusa e dispose che il caporale si recasse in bicicletta a dare l’ordine effettivo per il lancio del missile. Il tenente venne immediatamente promosso colonnello per meriti sul campo.
LA COLLERA POPOLARE
Il missile socialista si alzò sicuro dalla sua rampa di lancio. Dopo una decina di minuti in cui girovagò un po’ qua e un po’ là per l’atmosfera (forse un sofisticato espediente per evitare di essere intercettato dagli antimissili imperialisti) si diresse con una certa decisione verso Meridione. Cadde, fragorosamente, poco a Sud del confine tra le due Coree, devastando una fabbrica di proprietà sudcoreana dove però lavoravano maestranze nordcoreane. Non vi fu alcuna esplosione nucleare, ma sul terreno si sparse materiale radioattivo. Si contarono una cinquantina di morti, per lo più operai, piccoli danni collaterali della battaglia per la grande causa della rivoluzione proletaria.
La reazione scatenata da Kim Jong-un era stata così ben congegnata che, per un paio di giorni, fu impossibile capire cosa era successo. Si pensò ad un incidente aereo, allo scoppio di una caldaia, forse ad un terremoto. Si sospettò perfino di un tentativo giapponese di liberarsi delle scorie nucleari di Fukushima. Insomma, l’attacco fu un successo da ascrivere, ancora una volta, all’imperitura dottrina marxista-leninista.
Nelle principali capitali mondiali ci si consultava per avere una visione chiara della situazione. Anche a Pechino, il 2 di luglio, si riunì una ristretta cerchia di alti dirigenti del Partito Comunista Cinese.
– Che diavolo è successo in Corea? – chiese il presidente Xi Jinping al capo dell’intelligence militare Ti Spi Oh.
– Dalle mie informazioni, sembra che i nordcoreani abbiano perso il controllo di un loro missile nel corso di un’esercitazione. –
– Quegli idioti! – commentò fraternamente Li Keqiang, il primo ministro.
– Ma non potevano abbatterlo prima che cadesse sulle fabbriche sudcoreane? – si chiese Xi.
– Quelli non sono capaci neanche di mangiare il riso col cucchiaio! – replicò Li.
– Per forza, non hanno il riso. – volle precisare Ti.
– Eh, già! – commentò sconsolato Xi.
– Chiamiamoli e facciamoci raccontare come hanno causato questo guaio. – propose Li.
– Chiama tu. – suggerì Xi.
– No, tu che sei il presidente. – rispose Li. Entrambi, a quel punto, si volsero verso Ti.
– Ho capito, chiamo io il compagno presidente Kim! – concluse il capo dei servizi di spionaggio cinese. Dopo una buona mezz’ora di vani tentativi, si riuscì a mettere in contatto con la guida del popolo nordcoreano. La linea telefonica era disturbata e fu messo il viva voce affinché tutti i presenti potessero ascoltare la conversazione con il fedele alleato.
– Compagno Kim! – esordì Ti – Sono Ti, chiamo da Pechino.
– Compagno Ti. Un’alba radiosa accoglie i nostri saluti!
– Beh,… sì… – esitò il cinese, un po’ perplesso visto che erano le tre del pomeriggio.
– Comunque, – continuò Ti – l’incidente non ci aiuta molto.
– Quale incidente? – chiese la guida del popolo nordcoreano.
– Ma… il missile sulle fabbriche… Non sei al corrente?
– Il missile? Ma certo! Lo abbiamo lanciato noi per fermare l’invasione americana.
– Quale invasione?
– Credo si siano messi d’accordo con i russi!
– Ma che minchia sta dicendo quello scriteriato! – interloquì Li, affezionatosi ad alcune eleganti espressioni apprese in un suo recente viaggio nell’Europa del Sud.
– Non sento… – segnalò il nordcoreano – Comunque li abbiamo respinti.
– Chi? – volle approfondire Ti.
– Gli imperialisti! – proruppe con una certa soddisfazione Kim.
– Ma io quello lo ammazzo! – commentò sommessamente Li – Voglio una dozzina di missili atomici sul cranio di quell’imbecille! Adesso chiamo il comandante dell’artiglieria missilistica Ti Bek Co e… – nel frattempo aveva estratto l’iPhone.
– No! Fermo, aspetta! – si precipitarono su di lui sia Xi che Ti e iniziò una amichevole colluttazione. Sentendo provenire dalla cornetta grida, ciocchi e qualche schianto, Kim, non senza un certo orgoglio, concluse:
– Grazie compagni, accetto con orgoglio i vostri complimenti. Il popolo nordcoreano marcerà insieme ai fratelli cinesi per estendere le conquiste del comunismo a tutto il mondo. Vi saluto a pugno chiuso!
– Io di pugni te ne do almeno una dozzina, dritti negli occhi! – gridò Li, mentre rotolava insieme ai due compagni che, con una certa fatica, erano riusciti a strappargli di mano il cellulare.
– Li! Calmati. Dobbiamo riflettere sul da farsi. – lo richiamò severo il presidente Xi.
– Riflettere? Quel cretino sta organizzando il più grande raduno di forze armate americane dopo la seconda guerra mondiale proprio ai nostri confini. Io chiamo Ti Bek Co! – disse, cercando di riprendersi il suo cellulare, comunque saldamente nelle mani di Xi.
– Li ha ragione. Come usciamo da questa situazione? – si chiese Ti.
– Invadiamo noi la Corea del Nord prima che lo facciano gli americani! – suggerì Xi.
– Sono d’accordo con il compagno presidente! – dichiarò Ti.
– Uhm,… sì. Però quando prendiamo Kim Jong-un voglio che sia consegnato al nostro capo della polizia, Lo Spez Zho. D’accordo? – fu la linea politica suggerita da Li.
– Promesso! – concluse Xi.
LA MISSIONE DI PACE
Nel giro di 24 ore, l’esercito di liberazione popolare cinese fu pronto per attaccare la Corea del Nord. I vertici del partito comunista si chiesero se, prima di dare il via libera ai carri armati, fosse il caso di avvisare gli americani. Dopo un paio di ore di accesa discussione, si decise di non farlo. In fin dei conti, la Corea del Nord era uno Stato comunista e quindi, in un certo senso, si trattava di una questione interna tra compagni. E poi, si ragionò, gli americani non potranno che gioire dall’eliminazione di un regime che da sempre andava creando grattacapi alla comunità internazionale.
La mattina del 3 agosto 2017 le truppe cinesi varcarono il confine e cominciarono la marcia di avvicinamento verso la capitale, Pyongyang. Non appena si diffuse la notizia dell’invasione cinese, si riunì il consiglio di guerra popolare della Corea del Nord.
– Ma sono proprio cinesi o americani travestiti quelli che ci attaccano dal Nord? – rifletté ad alta voce Kim Jong-un.
– Cinesi. – confermò il generale Ti Spa-ro.
– Ma è un vero attacco o una parata militare che ha sbagliato strada? –
– E’ un vero attacco, presidente! –
– Come osano! Li annienteremo. Preparate un missile! – dispose la guida del popolo.
– Vado a dare disposizioni alle sale di calcolo? – chiese l’ex tenente ormai promosso a colonnello.
– Certo! – replicò Kim.
– No. – intervenne Ti Spa-ro – I nostri missili non servono contro i bersagli in movimento! –
– Ma i missili popolari colpiscono automaticamente i nemici del popolo! – replicò il presidente, lasciando interdetti i militari che, notoriamente, sono dotati di una modesta fantasia.
– Sì, però i cinesi sono camuffati da amici e i missili non li riconoscerebbero. – chiosò, non senza una certa creatività, il generale.
– Allora, che facciamo? – domandò con spiccato senso pratico la guida del popolo.
– Trattiamo! – propose il generale.
In quel momento, arrivò la telefonata del ministro degli interni, Thor Tu-ro che riferiva di grandi feste improvvisate dalla popolazione all’arrivo delle truppe inviate da Pechino. Thor comunicava anche che, secondo voci ancora non confermate, l’esercito nordcoreano sembrava fraternizzare con i soldati cinesi, formando dei battaglioni misti. Insomma, l’invasione si stava rivelando una grande festa di popolo.
Le parole del ministro dell’interno lasciarono interdetti sul momento i partecipanti all’incontro. Scese il silenzio sulla riunione. Il primo a riprendersi fu l’ex tenente:
– Beh, in fin dei conti, i cinesi sono nostri alleati. Forse sono venuti qui per aiutarci contro gli imperialisti americani!
– Ma certo, come abbiamo fatto a non pensarci prima! – prese la palla al balzo Ti Spa-ro.
– Ma… la patria socialista… – cominciò a dire la guida del popolo.
– Andiamo a festeggiare l’arrivo dei compagni cinesi? – propose l’ex tenente.
– Sì! Andiamo a celebrare un’altra vittoria del movimento comunista internazionale! – sancì il generale. E a quel punto tutti abbandonarono disordinatamente la sala del consiglio di guerra lasciando solo il presidente Kim Jong-un.
L’invasione della Corea del Nord non fu una passeggiata per l’esercito cinese. Il principale imprevisto fu la scarsa dotazione di razioni alimentari. Non che gli approvvigionamenti per le truppe fossero stati calcolati male. È che i nordcoreani, forse presi dai festeggiamenti, approfittarono abbondantemente del cibo e delle cucine da campo dell’esercito di Pechino. Dopo due giorni le riserve erano finite e fu necessario organizzare un apposito servizio di logistica per rifornire di alimenti i militari sia cinesi che nordcoreani, nonché la popolazione civile.
A Pechino erano tutti contenti: un’altra grana era stata rimossa dal luminoso cammino del proletariato asiatico. Unica pecca, che indispose non poco Li Keqiang: non fu possibile ritrovare la guida del popolo, Kim Jong-un. Voci incontrollate lo segnalavano in una località sciistica svizzera, dalle parti di Davos, intento ad approfondire la conoscenza del decadente capitalismo. Per combatterlo con più vigore, prima o poi.
E GLI AMERICANI?
I convulsi avvenimenti dell’Asia Orientale avevano sorpreso la diplomazia mondiale. Occorreva reagire. Il governo degli Stati Uniti si convocò ad invasione cinese ormai compiuta. Era il 7 di agosto.
– Certo che, senza la Corea del Nord, il mondo è molto più noioso. – esordì il presidente Trump.
– Ma era proprio un missile quello caduto sulle fabbriche vicine al confine tra le due Coree? – chiese il ministro della difesa James Mattis.
– E chi lo sa? – fu il prezioso contributo di Mike Pompeo, il direttore della Cia.
– A me hanno detto che fosse un camion di cui il figlio di Kim Jong-un aveva perso il controllo. – spiegò il ministro degli esteri, Rex Tillerson.
– Ah. – rifletté acutamente il presidente.
– Che peccato che i cinesi ci abbiano preceduto. Potevamo mandare i marines a fare un giro in Corea. – esclamò Mattis.
– Ma non abbiamo già un’altra guerra in corso? – volle informarsi Trump.
– Mi pare di sì. – interloquì il ministro della difesa – ma non ricordo più dove…
– In Afganistan! – si fece trovare preparato il ministro degli esteri.
– Ancora? – chiese il presidente.
– Sì, ma scade tra qualche mese. – precisò Tillerson.
– Ma, allora … – lasciò aperta una possibilità Mattis.
– Eh, no. Ormai Kim Jong-un lo hanno fatto fuori i cinesi. – spiegò Tillerson.
– Però, che maleducati a Pechino. Neanche una telefonata per avvertirci. – replicò Mattis.
– Sì, però adesso sono nei guai. Con l’appetito che hanno i nordcoreani… li voglio proprio vedere come faranno a trovare il cibo per tutti quegli affamati. – Tillerson sapeva come andavano le cose.
– Ragazzi, ma non ci stiamo forse dimenticando che, in fin dei conti, i cinesi hanno invaso uno Stato sovrano? – fece presente Pompeo.
– Quale? – chiese con evidente curiosità Trump.
– Beh… la Corea del Nord, signor presidente.
– Ah, era indipendente?
– Sì… insomma… Almeno un pochino. – replicò risoluto Tillerson.
– Però i nordcoreani non ci ha chiesto aiuto. – puntualizzò il presidente.
– Dov’è finito Kim Jong-un? – chiese pragmaticamente Tillerson.
– Cure termali, in Svizzera. – rispose informatissimo il direttore della Cia.
– Sentiamo se ha bisogno di aiuto. – insistette il presidente.
– Per le inalazioni? – domandò Mattis.
– Ma no!…. Per riprendere il controllo del suo Stato. Non ci ricordiamo il Kuwait? – spiegò con calma Tillerson.
– Giusto!… Sì, facciamo così. A noi non piacciono le invasioni degli Stati altrui. Quelle le possiamo fare solo noi. O no? – concluse autorevolmente Trump raccogliendo il consenso unanime dei partecipanti all’incontro.
Comunque le trattative a Davos per ottenere una richiesta di aiuto esplicito da parte di Kim Jong-un furono piuttosto laboriose. Alla fine, la guida del popolo nordcoreano acconsentì ad appellarsi agli Stati Uniti contro l’invasione cinese solo a condizione di poter continuare a fare il presidente della Corea del Nord dal suo chalet in Svizzera. Sembrava, tutto sommato, una proposta più che ragionevole e pertanto venne accolta.
Fu così che l’11 agosto 2017 il popolo della Corea del Nord, per bocca del suo amato leader Kim Jong-un, richiese l’intervento degli americani per respingere l’invasione cinese della patria Ancora una volta, come ormai era abitudine da un secolo, gli Stati Uniti si preparavano a difendere la democrazia (questa volta popolare) nel mondo. E la Grande Guerra Cino-Americana poteva, finalmente, prendere il via.