Le cronache del nostro scontento. 2012: Arriva Monti con il Fiscal Compact
di Giorgio Gattei
1. Dal libro di Alan Friedman Ammazziamo il gattopardo (Rizzoli, Milano, 2014) s’è appreso come nel 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (in combine con “poteri forti” internazionali) abbia provveduto a sostituire Silvio Berlusconi con l’outsider Mario Monti (vedi la prima puntata di queste cronache: 2011. Il complotto di “re Giorgio”). E’ stato questo il suo capolavoro, sebbene al prezzo di qualche «forzatura costituzionale» (p. 59), ma lui l’ha fatto «per il bene del Paese», anche a rischio di passare come «il presidente della Repubblica più interventista che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia repubblicana, un presidente ancor più interventista e hands-on di Francesco Cossiga» (p. 273).
Come che sia, il 4 dicembre 2011 il nuovo premier Monti può presentarsi in Parlamento con il decreto Salva Italia, ossia con «una manovra da 30 miliardi che sarà ricordata dalla storia come la più pesante da quando Giuliano Amato nel 1992 aveva imposto il prelievo forzoso dalle tasche degli italiani» (p. 60). C’è l’introduzione dell’IMU anche sulla prima casa, l’Iva al 23% e poi quella «bomba della riforma delle pensioni» che farà piangere in pubblico la ministra Elsa Fornero. Ma è quanto basta perché coloro, che a metà 2011 prevedevano l’euro in caduta libera per colpa italiota (Colpire l’Italia per far sparire l’euro: i fondi lanciano l’offensiva finale, “La Repubblica”, d’ora in poi R., 12.7.2011), si ricredano perché «Roma torna sulla scena» e con il Commissario europeo Olli Rehn che assicura che «le priorità fissate da Monti sono quelle giuste. Siamo partner e lavoreremo insieme» (R., 26.11.2011). Da parte sua l’economista d’oltre-Atlantico Nouriel Roubini ha già fissato il “compito a casa” da fare: «ora che siete diventati credibili, tagliate il debito almeno del 25 per cento» (R., 30.11.2011). Ma Monti è sicuro di farcela perché l’Italia è ormai liberata dalla “ipoteca Berlusconi” e con lui nei prossimi anni (diciamo cinque?) «il PIL può crescere del 10%» in forza di una produttività che aumenterà anch’essa del 10% (R., 21.1.2012). E quindi si precipita a New York a piazzare il debito pubblico, ritornandone euforico: «Ho convinto Wall Street. Si possono fidare dei nostri Bot» (R., 11.2.2012).
Eppure, se l’Italia è stata “messa in riga”, non è però che per l’euro siano tutte rose e fiori se proprio all’inizio del 2012 gli stessi analisti finanziari ne paventano La morte lenta che la BCE non può fermare (R., 8.1.2012). Il rischio è la possibilità di fuga degli investitori dai titoli pubblici dell’eurozona ed è nuovamente una agenzia di rating, la Standard & Poor’s, a dare il via declassando in una giornata «mezza Eurolandia» (R., 14.1.2012). A mantenere la “tripla A” (ch’è la massima valutazione di rating) restano solo Germania, Olanda, Finlandia e Lussemburgo, mentre l’Italia precipita in serie B (sia pure BBB+). Ma già si minaccia di togliere la “tripla A” anche alla Germania se continuerà a finanziare i paesi “maiali” (PIGS = Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) acquistandone a man bassa i debiti pubblici (R.,15.1.2012).
Il fatto è che l’Unione Monetaria Europea è nata malamente avendo accozzato paesi strutturalmente creditori in quanto esportatori netti di merci, come la Germania, con paesi debitori che sono importatori netti di merci come, per l’appunto, i “maiali”. La differenza di valore delle merci scambiate si pareggia poi coi titoli pubblici dei paesi debitori, che i paesi creditori sottoscrivono allegramente sicuri di riavere indietro alla scadenza il denaro prestato e di guadagnare nel frattempo congrui interessi. Ma se alla lunga il rimborso del debito diventasse impossibile perché troppo ingente e i paesi “maiali” fossero costretti a proclamare il default, e cioè a dire “io non pago”? Nel 2011 con la Grecia ci si era andati vicino chiudendo in extremis con un prestito europeo di 134 miliardi di euro a fronte dell’impegno di Atene di ridurre del debito pubblico al 120,5% del PIL entro il 2020. Ma se questo succedesse altrove, ad esempio in Italia con un debito pubblico per quasi il 40% in mano ad investitori stranieri? Ad evitare che i creditori si trovassero minacciati nei loro sacrosanti rimborsi non sarebbe stato il caso d’imporre ai governi “maiali” una procedura di restituzione obbligatoria del debito che li impegnasse formalmente, essendo i debitori sempre colpevoli in lingua tedesca, dove la parola Schuld significa sia debito che colpa?
E’ stata questa la ragion finanziaria che ha indotto «l’asse Merkel-Sarkozy» sul finire del 2011 a programmare l’imposizione di «un trattato europeo più duro» (R., 6.12.2011) perché dotato di un meccanismo di “disciplinamento fiscale” basato sul doppio vincolo che i singoli governi non facessero più disavanzi (è la regola d’oro del “bilancio sempre in pareggio”), mentre il debito pubblico accumulato avrebbe dovuto essere ridotto in un congruo numero di anni fino alla percentuale canonica (perchém iscritta fin dal Trattato di Maastricht del 1992) del 60% del PIL. E’ stato questo l’accordo di Fiscal Compact imposto all’eurozona nel corso dell’anno “di disgrazia” 2012, giusto l’ammonimento della cancelleria tedesca Angela Merkel (ad approvazione avvenuta) che «dobbiamo trattenere il fiato per almeno cinque anni, tanto tempo al minimo ci servirà per uscire dalla crisi economica in cui attualmente si dibatte l’eurozona, un periodo nel corso del quale occorrerà portare avanti le dure, spesso dolorose, riforme di strutture e le severe politiche di risanamento dei conti pubblici» (R., 4.11.2012). Che poi non si dica che non siamo stati avvertiti…
2. Il Fiscal Compact non è stato altro che la ricaduta pratica della cosiddetta “teoria” della austerità espansionistica che però teoria non è affatto, essendo piuttosto un risultato statistico peraltro discutibile (ma al giorno d’oggi gli economisti, invece di “pensare in astratto”, preferiscono ricavare i loro teoremi direttamente dalla evidenza empirica – e la chiamano econometria). Secondo questa pretesa teoria, a ridurre l’incidenza del debito pubblico sul PIL la produzione del reddito non ne soffrirebbe affatto e addirittura ne guadagnerebbe, contrariamente a quanto sostenuto dagli economisti di tradizione keynesiana. La prova stava nei dati statistici meticolosamente raccolti nello studio Crescita in un tempo di debito da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e pubblicato dal National Bureau of Economic Research nel 2010. Sulle 2317 osservazioni relative a 20 paesi nel corso di duecento anni (però soltanto per gli Stati Unitisi si partiva dal 1790, con gli altri paesi si iniziava dalla metà se non dalla fine dell’Ottocento) era risultato che a un debito pubblico superiore al 90% del PIL si associava un saggio di crescita medio del reddito dell’1,7%, che però saliva al 3,4% quando il debito era inferiore al 90%. Per l’Italia i dati erano ancora più sorprendenti: crescita dello 0,7% per un D/PIL > 90%, dell’1,9% con D/PIL tra 90-60% e del 4,9% al di sotto del 60%. Insomma i fatti storici documentavano. come ne concludevano gli autori della ricerca, che «le alte percentuali del debito sul PIL (90% e più) sono associate a risultati di crescita notevolmente più bassi», essendo il 90% il discrimine della «intolleranza debitoria» che non avrebbe mai dovuto essere superato e, se lo fosse stato, urgentemente riguadagnato.
Nello stesso anno 2010 anche Alberto Alesina aveva presentato ai ministri finanziari europei riuniti a Madrid la sintesi di alcune sue precedenti ricerche statistiche sugli Aggiustamenti fiscali: lezioni dalla storia recente. In questo caso erano i dati di 21 paesi dell’OECD dal 1997 al 2007 a far emergere il principio che «riduzioni anche pesanti dei deficit di bilancio sono state accompagnate o immediatamente seguite da una crescita economica sostenuta», e questo anche «nel brevissimo periodo». Di conseguenza i creditori dei “debiti sovrani” potevano a giusta ragione richiedere indietro i soldi prestati spingendo le economie dei paesi debitori verso una maggiore crescita a causa dello scatenamento degli “spiriti animali” dell’imprenditoria privata non più frenata dal fardello del debito pubblico. Ma i loro governi avrebbero condiviso? Una ulteriore evidenza econometrica offerta da Alesina rassicurava: i governi che riducono i disavanzi, infatti, «non ci rimettono drasticamente né sistematicamente in termini di popolarità e nemmeno rischiano di perdere le elezioni successive». Insomma, siccome la storia precedente dimostrava che gli “aggiustamenti fiscali” non erano «necessariamente costosi né in termini di perdita di output né di voti», perché non introdurli al più presto e dappertutto in Europa?
Fu così che l’allora presidente della BCE Jean Claude Trichet annunciò à tout le monde, in una intervista a “Libération” dell’8 luglio 2010, ch’era «un errore pensare che l’austerità fiscale sia di danno alla crescita e ai posti di lavoro», mentre il potente ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble se ne uscì sinteticamente confermando che «i piani di austerità NON creano recessione» (R., 11.3.2012). Era fatta, e ad istruire il nostro governo aveva peraltro provveduto Nouriel Roubini quando gli aveva assegnato il compito di «portare il debito pubblico al 90% del PIL dall’attuale 120% e per raggiungere l’obiettivo serve una riduzione da quei 2000 miliardi in essere a 1500» (R., 30.12.2011). Mancava soltanto l’approvazione della procedura di rientro, così che da allota in poi potesse risuonare l’inesorabile ritornello: “ma ce lo chiede l’Europa!”.
3. Elaborato la “teoria” da parte degli econometrici, gli si è dato corpo con quell’accordo di “consolidamento fiscale europeo” che ha preso il nome di Fiscal compact. Però fin da subito la Gran Bretagna si sfila perché lo considera «un Trattato contro i nostri interessi» (R., 10.12.2011), poi ci sono 12 primi ministri, a guida Monti, che provano ad implorare che gli si affianchino anche misure per la crescita (Growth compact), «altrimenti rigori e sacrifici chiesti fin qui varranno poco» (R., 21.2.2012). Ma gli va male perché Francia e Germania fanno muro e a marzo 2012 si va alla firma di un trattato assolutamente d’importanza storica con il quale i parlamenti europei rinunciano «in larga misura alla sovranità che hanno esercitato per secoli sui bilanci nazionali: avranno ancora un certo margine per decidere come raccogliere le entrate e come distribuire le spese, ma non avranno più veramente voce in capitolo sui saldi di bilancio» (R., 3.3.2012). All’ultimo minuto anche la Repubblica Ceca defeziona non accettando di farsi mettere sotto tanta tutela, ma tutti gli altri, come ubbidienti soldatini, dicono di sì. Certamente nell’accordo è previsto un certo grado di flessibilità perché le decisioni della Commissione europea (che è un organo nominato e non eletto) devono essere approvate dal Consiglio europeo, ma siccome per le eventuali correzioni ci vuole la maggioranza qualificata, le decisioni della Commissione risultano, di fatto, blindate. E se ne vanta il suo presidente, José Manuel Barroso, convinto di aver così «reso l’euro irreversibile» (R., 3.3.2012).
In Italia l’approvazione del Fiscal Compact avviene in una successione di momenti, ma sempre di corsa (quando poi si dice che ci vuole del tempo tempo per fare le leggi…). Già il 20 aprile 2012 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano può firmare la legge costituzionale che modifica l’art. 91 della Carta del 1948 imponendo la regola del pareggio di bilancio e limitando il ricorso al disavanzo solo «al verificarsi di eventi eccezionali». Va però detto che il disegno di legge era stato presentato a settembre 2011 dal Ministro delle Finanze del precedente governo Berlusconi, Giulio Tremonti, ma con Monti le approvazioni parlamentari vanno via spedite se si pensa che una legge costituzionale richiede quattro votazioni e una “pausa di riflessione” di tre mesi tra la seconda e la terza. Ma c’è più bisogno di rifletterci sopra? Il pareggio di bilancio, che dovrebbe entrare in vigore dal 2014, è votato a larghissima maggioranza (si astengono solo Lega Nord e Italia dei Valori), superando anche i due terzi dei parlamentari in entrambe le Camere così da impedire l’eventuale ricorso ad un referendum confermativo da parte dei cittadini.
Con quella legge viene modificato pure l’art. 119 della Costituzione con l’aggiunta dell’obbligo della «osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento della Unione Europea». E’ così che si “costituzionalizza” la successiva approvazione del Fiscal Compact che avviene il 23 luglio, a parlamento prossimo ad andare in ferie. Con esso s’impone a tutte le parti contraenti (art. 3) che il loro bilancio pubblico si chiuda «in pareggio o in avanzo», a meno delle solite «circostanze eccezionali». Fa spicco, rispetto al nostro nuovo dettato costituzionale, che si consideri pure il caso di un avanzo di bilancio che, qualora si presentasse, non richiederebbe alcun provvedimento di aggiustamento fiscale (ad esempio di fare più spese o elevare meno tasse). Ma si può supporre che l’aggiunta sia d’iniziativa tedesca, il cui bilancio pubblico, dopo essere precipitato in un disavanzo di 108.904 miliardi di euro nel 2010, era ormai prossimo ad andare in avanzo (ci arriverà nel 2014), con la Germania che non avrebbe avuto nessuna intenzione di farselo “scippare” per uno stupido obbligo al pareggio dei conti. Saranno invece gli Stati in disavanzo a provvedere con urgenza a «correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito» con meno spese e più tasse, e anche mediante «manovre automatiche di correzione» come le c.d. “clausole di salvaguardia”, secondo le indicazioni di rientro “suggerite” dalla Commissione europea.
Naturalmente, non essendoci più possibilità di disavanzo, il debito pubblico non crescerà. Ma per quello già in essere? Dovrà essere ridotto, come imposto dall’art. 4, perché «quando il rapporto del debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60%,.. tale parte contraente opererà una riduzione a un ritmo medio di 1/20 all’anno». Generosamente si dà il tempo di un ventennio per rientrare nel parametro del 60%, ma per l’Italia, in cifre, cosa vuol dire? Siccome nel 2012 il debito pubblico nazionale sfiorava il 120% del PIL (in termini assoluti all’incirca 2000 miliardi di euro), lo si dovrebbe dimezzare nell’arco di 20 anni a colpi di 50 miliardi di “debito restituito” all’anno (R., 3.7.2012). Secondo però una simulazione più attenta per tener conto dell’andamento del tasso d’interesse sul debito che comunque residua, della crescita reale del PIL e dell’inflazione a venire, dai 50 miliardi di euro iniziali si salirebbe ad un avanzo primario (la differenza delle entrate sulle uscite statali al netto degli interessi da pagare) di 134 miliardi nel 2035, quando il rapporto D/PIl calerebbe finalmente al 60% di Maastricht (G. Gattei e T. Iero, L’insostenibile rimborso del debito, www.economiaepolitica.it, 10.3.2014). Ma che importano i sacrifici di domani? Al momento ciò che conta è soltanto vincolare l’Italia al rispetto dei disavanzi che saranno fissati dalla Unione Europea, a cui si provvede con la legge 24 dicembre 2012 (buon Natale!) che fa divieto a governo e parlamento di «stabilire saldi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea»!
4. Chiuso nella gabbia del disciplinamento fiscale europeo, che secondo la “lezione” degli econometrici assicurerebbe sia crescita che consenso, il governo Monti può così andare a governare. E’ additato dal ministro delle finanze tedesco Schäuble come «un faro di speranza non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera» (R., 11.3.2012). Eppure, alla fine dell’anno quel governo è più che “bollito”, tanto che si arriva a definirlo come «un governo maledetto» di cui liberarsi al più presto (www.economiaepolitica.it, 6.11.2012). Citando Monti, che nel presentare la legge di Stabilità per il 2013 aveva dichiarato che «oggi possiamo cominciare a vedere e toccare con mano che la disciplina di bilancio paga, la disciplina di bilancio conviene», si sospetta che qualcosa abbia fatto cilecca nella “austerità espansionistica” se, introdotta l’austerità (sei manovre di bilancio dal luglio 2011 all’ottobre 2012, perché a dare il via era stato Berlusconi nell’illusione, a fare così, di salvare la poltrona), l’espansione non era affatto seguita. Lo dimostravano impietosamente i dati statistici. A ottobre la Banca d’Italia era costretta a rinviare la ripresa «nel 2013» (R., 17.10.2012), poi la Confindustria la spostava «solo nel 2014» (R., 12.12.2012) dando il PIL in contrazione del 2,1% per un calo dei consumi del 3,2%, degli investimenti fissi dell’8,2% e, nonostante le esportazioni a crescere (+ 0,6), delle importazioni del 7,4%. Certamente il disavanzo statale era stato ridotto al 2,3% del PIL, ma come mai il rapporto Debito pubblico/PIL era aumentato dal 120,7% del 2011 al 125,9%, sfondando il tetto dei 2000 miliardi (R., 14.11.2012)? Ma è chiaro, spiegherà Romano Prodi ad Alan Friedman: «il governo Monti ha tagliato un po’, abbastanza, il numeratore, cioè la spesa, ma calando il denominatore, cioè il Prodotto nazionale lordo… L’austerità da sola uccide il paese» (p. 72).
A dicembre 2012 era giunta l’ora di sacrificare il fallimentare Monti (di cui si dirà, ma pare leggenda metropolitana, che avesse detto: «Eravamo sull’orlo del baratro. Abbiamo fatto un passo avanti!»). Silvio Berlusconi, che medita la vendetta per la cacciata dell’anno prima, gli comunica che toglierà la fiducia al Governo una volta approvata la legge di stabilità. E fatta la legge, Monti non può che dimettersi il 21.12.2012, ma «non per colpa della profezia dei Maya, prova a scherzare il premier dimissionario» (p. 74). Però adesso che fare di lui? Gli si presenta una uscita alla grande: sostituire al Quirinale il suo sponsor Giorgio Napolitano, il cui settennato scade nel 2013. E invece no! Abbacinato dalle dimostrazioni econometriche che i governi che praticano l’austerità poi vincono le elezioni, si fa prendere dalla «febbre politica… di partecipare alle prossime elezioni con l’obiettivo di succedere a se stesso come primo ministro». Carlo De Benedetti lo sconsiglia caldamente: «“Guarda, sbagli. Perché tu hai il tappeto rosso per andare al Quirinale, il tappeto rosso, tutto pronto”. E lui mi ha detto: “Io penso di essere più utile al paese come presidente del Consiglio”. Dico: “Guarda., tu non sarai primo ministro” E lui: “Ma io mi sono fatto misurare e ho un’area di consenso del 30%”. Dico io: “Ma guarda che l’area di consenso non c’entra niente con i voti, sia chiaro che l’area di consenso è una cosa molto…”. E lui: “Sì, ma non sarà il 30, sarà il 20”. “Guarda, va bene se arrivi al 10”, ho detto io» (pp. 73-74).
Così Monti “sale” (non “scende”, come aveva fatto Berlusconi) in politica il 25 dicembre 2012 con la lista “Scelta civica con Monti per l’Italia” in alleanza «con Casini, un ex democristiano non tanto ex», e Fini, «un ex Msi e poi ex An e poi ex Pdl e ora capo dei quattro gatti di Fli». Sarebbe questo il nuovo che avanza? Come che sia, «saltare a letto con Fini e Casini è forse l’errore fatale della sua carriera politica appena nata» (p. 77) perché quando poi si va a votare il 24-25 febbraio 2013 il popolo italiano, «troppo frastornato, confuso, spaventato e arrabbiato con la classe politica, con la casta e pure con Monti», realizza «il più grande pasticcio che si potesse immaginare»: alla Camera la coalizione PD (Bersani) prende il 29.55%, quella PdL (Berlusconi) tocca il 29.18%, mentre il neonato Movimento5Stelle (Grillo) conquista il 25.55%. E “Scelta civica”? Arriva al 10,56% dei voti ed è subito per lei sciolta civica.