Tutto l’onore di un “economista defunto” 2/2
di Giorgio Gattei
Nella prima puntata di questo “omaggio” ai 150 anni di pubblicazione del primo volume del Capitale. Critica della economia politica (e il sottotitolo è tutto un programma!), si è visto come Karl Marx nella sua grande opera abbia voluto estendere il metodo della critica (invenzione intellettuale che si era giocata tra Kant e Hegel) alla political economy di Adam Smith e David Ricardo, Ed egli ne ha riconosciuto l’oggetto nel capitale, ossia in quella maniera del produrre, storicamente determinata, definita dallo “scambio speciale” del denaro con la forza-lavoro come merce: «quel che dà il carattere all’epoca capitalistica è il fatto che la forza-lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma di una merce che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume la forma del lavoro salariato» (Il capitale, I, Roma, 1964, p. 203). Resta allora da dire quale sia il soggetto della critica e quale la contraddizione che finisce per opporre questo soggetto al suo oggetto.
Il soggetto della critica.
Non condivido affatto l’idea comune, a cui sembra indulgere anche Diego Fusaro in Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (Bompiani, Milano, 2009), che nel Marx “maturo” si conservi ancora quell’elemento normativo che, oltre a quello conoscitivo, era stato proprio del “giovane” Marx. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e anche per diverso tempo dopo, non c’è dubbio che Marx sia stato un moralista infuriato contro le ingiustizie del mondo e solo quando ha preso a scrivere la critica dell’economia politica è riuscito a far cadere le invocazioni al “dover essere”, dato che il compito della critica (lo ricorda lo stesso Fusaro) non è tanto quello di «insegnare al mondo come deve andare», ma di «insegnare come va il mondo» (p. 105). Eppure non c’è dubbio che il Capitale trasudi di una aspettativa di superamento del mondo attuale che non si spiega. O meglio si spiega solo riconoscendo che la critica dice però anche dove deve andare a finire il mondo se il suo soggetto non dimentica il compito storico che gli è stato affidato, essendo la “critica” del presente pure “necessità di futuro”. Si tratta però di individuare quel soggetto con esattezza.
Si è detto che è consuetudine estrapolare al Marx “maturo” la risposta che egli ha dato in gioventù quando, da “sinistro-hegeliano” qual era, riconduceva il rapporto capitalistico alla contrapposizione dei borghesi (capitalisti) ai proletari, traduzione aggiornata di quella “lotta per il riconoscimento” tra servi e signori descritta nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, con i proletari a giocare adesso il ruolo del «lato cattivo che produce il movimento che fa la storia determinando la lotta» (come detto nella Miseria della filosofia). Infatti per il giovane Marx soltanto il proletariato poteva arrivare a possedere sia la forza di massa che la «coscienza enorme» (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1857, d’ora in poi: Grundrisse, Firenze, 1970, II, p. 84) necessarie ad eseguire quella sentenza di morte del capitale emessa dal “tribunale della storia” (a tradurre alla lettera la frase pronunciata in un comizio del 1856 che «la storia è il giudice e il proletariato il suo boia») a riscatto di tutti i secoli di sfruttamento passati. E non c’è dubbio che questa visione giovanile si trascini fin nelle pagine del Capitale se nel poscritto alla seconda edizione del primo libro si può leggere ancora che, se «tale critica rappresenta una classe in generale, può rappresentare solo la classe la cui funzione storica è il rovesciamento del modo capitalistico di produzione e, a conclusione, l’abolizione delle classi: cioè il proletariato». Per questo Fusaro può ben sintetizzare che «la prospettiva marxiana si basa sull’idea che esista un soggetto storico-filosofico (lo Spirito di Hegel diventa il Proletariato di Marx) che “fa la storia” e che, tramite il suo agire consapevole, le permette di avanzare in vista dell’obiettivo finale… Marx è convinto che il servo (il Proletariato) rappresenti la verità del processo, oltre che il suo reale Soggetto rivoluzionario» (p. 99).
Nel concreto, questa individuazione del “soggetto della critica” nel proletariato ha dato la stura a più di un secolo d’agitazione politica, con l’unica variante di chiamare «classe operaia» quei portatori dell’interesse generale impegnati, giusta una delle Tesi su Feuerbach, nella «prassi che rovescia» (umwalzende Praxis, e quindi non nella “prassi rovesciata”, come invece si preferisce tradurre in italiano da Giovanni Gentile in poi). Però qualcosa deve essere andato storto se, al termine del Novecento, questa “prassi che rovescia” ha finito per favorire i capitalisti piuttosto che i proletari. E dire che tutto sembrava andare per il verso giusto con la progressiva estensione della condizione di forza-lavoro a porzioni sempre più vaste di umanità e con la costituzione consapevole della “classe in sé” in partiti politici organizzati (“classe per sé”). Eppure, a dispetto delle attese, sul finire del “secolo breve” quei «proletari di tutto il mondo» si sono frantumati in una moltitudine di segmenti sociali irriducibili ad unità, mentre la coscienza di classe è stata sostituita dalle false coscienze della “industria culturale” (per dirla con Adorno) e degli “apparati ideologici di Stato” (per dirla con Althusser). E così la prospettiva di un superamento del mondo presente per iniziativa di un “soggetto proletario” sociologicamente compatto e ideologicamente orientato è venuta a mancare, quasi che i capitalisti, non avendo più antagonisti, dovessero essere, come il diamante, per sempre.
Eppure non c’è dubbio che un bisogno di superamento resta necessario di fronte a un mondo che «lascia insoddisfatti o, dove esso appare soddisfatto di sé, è volgare» (Grundrisse, II, p. 113). Ma se soltanto intellettuali prezzolati possono pensare che di storia non ce ne sia più quando invece di storia il XXI secolo ha già mostrato di averne in pancia così tanta, ci si può accontentare di attendere un angelus novus che dovrebbe un giorno “far cantare gli indomani”, come dicono i francesi? Non lo credo, ma non ne ho nemmeno bisogno perché il soggetto di quella “prassi che rovescia”, ben differente dalla classe proletaria consapevole o meno che sia, è pur presente nel presente (ci si perdoni il bisticcio) e lavora, come fa sempre la “vecchia talpa” della storia, con tutto il metodo e la pazienza che ci vuole. Si tratta soltanto di ridefinire il soggetto.
Si torni dunque a quel rapporto di sottomissione capitalistica a cui la merce forza-lavoro è costretta dal denaro. Nei modi di produzione precedenti al capitale la “sottomissione al lavoro” era palese e diretta; nel modo di produzione capitalistico essa è invece mediata dal “libero contratto” con cui il salariato si assoggetta spontaneamente alle condizioni oggettive di produzione, le quali –ecco qui il nodo! – «si ergono di fronte all’operaio come persone autonome» (Il Capitale: Libro primo, capitolo VI inedito, d’ora in poi: Capitolo sesto, Firenze, 1969, p. 50). Si tratta di quel feticismo del capitale che traduce il concetto di “alienazione” degli scritti giovanili ed ingigantisce il “feticismo della merce” del primo capitolo del primo libro. Infatti col capitale non basta che il soggetto umano sia separato dal proprio lavoro e dal proprio prodotto che non gli appartengono più, bisogna che quel prodotto e quel lavoro gli si contrappongano come soggetti essi stessi; non basta più che il lavoratore perda la consapevolezza che il mondo in cui abita è conseguenza del proprio operare, occorre che quel mondo, da lui prodotto, gli si rovesci addosso per produrlo «a propria immagine e somiglianza» (Manifesto del partito comunista, Roma, 1991, p. 10). Come nello scambio di merci il carattere feticistico trasforma il tavolo «in una cosa sensibilmente sovrasensibile che non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare» (Il capitale, I, p. 103), altrettanto fa il capitale che di fronte ai suoi produttori (capitalisti o salariati che siano) si mette “a testa in giù” presentandosi, come dice Fusaro, come «un meccanismo di grandiosa e spontanea complessità, dotato di una logica autonoma e del tutto indifferente alla volontà dei propri artefici, ma a tal punto ingovernabile da risultare ostile e senza senso, enigmatico e autoreferenziale» (p. 266).
E’ questa una immagine del capitale, grandiosa e terribile insieme, che s’impone alla mente di Marx fin dai tempi dell’Ideologia tedesca (1846) quando descrive «questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli», ponendosi di fronte davanti ai soggetti «come una potenza estranea posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che, al contrario, segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire». E’ una visione che non sarà mai più dismessa e che ritorna nei Grundrisse e, sia pure carsicamente, che nel Capitale, come quando si dice nel terzo libro che il capitale «si manifesta sempre più come una potenza sociale, di cui il capitalista è l’agente,… ma come una potenza sociale estranea, indipendente che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale» (Il capitale, III, Roma, 1965, p. 318). Una tale potenza oggettiva estranea agli umani, traduce Fusaro, pur «nata dal loro agire, si è resa autonoma ed è giunta a dominarli impersonalmente, assumendo i tratti opachi di un impianto anonimo e autoreferenziale rispetto al quale gli uomini sono attori, maschere sociali costrette a recitare la parte che viene loro imposta dalla produzione autonomizzatasi: gli uni sono obbligati a vendersi per non morire per inedia, gli altri a valorizzare il capitale per non precipitare nella situazione dei primi. Come Marx sottolinea a più riprese, nell’epoca del capitale non vi sono più, propriamente, persone che dominano su altre persone e che in forza di tale dominio godono della libertà scaturente dal tempo sottratto all’attività lavorativa: vi è, piuttosto, un rapporto indipendente dagli individui che di essi si serve, contrapponendoli come sfruttatori e sfruttati, per l’autovalorizzazione illimitata del capitale, (essendo) il vero soggetto, che usa gli uomini per autovalorizzarsi, il capitale stesso, dominio della “cosa” sull’uomo, come Marx aveva qualificato il modo di produzione capitalistico nei Grundrisse» (pp. 268-269).
A queste condizioni quale può mai essere il soggetto della critica se non proprio e soltanto il capitale stesso, questo «signore ad un tempo barbaro e grandioso» (Lavoro salariato e capitale, Roma, 1970, p. 72) che, essendo l’unico ad essere «posto in condizioni di libertà» (Grundrisse, II, p. 333), è l’unico a costituire «il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l’inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana» (Capitolo sesto, p. 21)? E siccome «passare attraverso questa forma contraddittoria è necessario» (idem, p. 21), il suo superamento non può essere affatto il risultato di un altro dal capitale, che è impossibile a ritrovarsi nella totalità conclusa del presente, bensì di un altro del capitale, così che il capitale risulti il soggetto di quella “prassi” che lo rovescia in quanto oggetto.
La contraddizione della critica.
Si sa che la critica, che per costituzione è dialettica, deve includere «nella comprensione positiva dello stato di cose esistente simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto» (Il capitale, I, p, 45). Però non è che al di là della affermazione di principio si sia poi andati molto oltre a “comprenderne la negazione”. Lo stesso Fusaro si muove a fatica quando si riduce all’affermazione generica che «la più grande delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico» sta nel «creare progresso e sviluppo e, nello stesso tempo, il negarlo ad una parte dell’umanità» (p. 285) che, se può riempire i cuori, non illumina di certo la ragione. Varianti più particolari sono state di volta in volta prodotte dai pensatori marxisti che si affidano alla sovrapproduzione delle merci rispetto ad una domanda insufficiente (le cosiddette “crisi di realizzo”) oppure al “capitale costante” che, appesantendo il saggio del profitto, ne causa la caduta tendenziale, od anche alle “macchine” che sostituiscono lavoro, o infine (e siamo di nuovo alla generalità indeterminata) alle “forze produttive” che prima o poi si rivoltano ai rapporti di produzione esistenti. Fusaro aggiunge, ma solo in nota, a proposito del general intellect che «il predominio della scienza e il mantenimento della legge del valore creano tra loro una contraddizione insostenibile per il capitale» (p. 287) – e ci siamo quasi, sebbene non ancora in maniera sufficiente.
Bisognerebbe dire, più in specifico, che nella sua forma più generale la contraddizione del capitale si pone tra la sua valorizzazione in quanto soggetto ed il suo essere valore come oggetto, tra il fatto di essere, contemporaneamente, un “flusso” di valorizzazione ed un “fondo” di valore. E si dovrebbe argomentare così.
Per conseguire la sua massima valorizzazione (“flusso”) il capitale, in quanto “soggetto”, non può che affidarsi all’aumento della produttività del lavoro da cui conseguono «tutti i progressi della civiltà dunque, o in altre parole ogni incremento delle forze produttive sociali, if you want, delle forze produttive del lavoro stesso quali risultano dalla scienza, dalle scoperte, dalla divisione e combinazione del lavoro, dal miglioramento dei mezzi di comunicazione, dalla creazione del mercato mondiale, dalle macchine (che) non fanno altro che ingigantire il dominio sul lavoro e incrementano soltanto la produttività del capitale» (Grundrisse, I, p. 295). E’ la «sottomissione reale del lavoro al capitale» discussa nel Capitolo sesto mediante la quale «questo incremento della forza produttiva del lavoro socializzato… e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – al processo di produzione immediato si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale» (Capitolo sesto, p. 57). E questo è un fatto.
Un altro fatto è però che il capitale è anche un “fondo” di valore, ossia un “oggetto” da misurare secondo il proprio criterio. E il capitale «intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato», sicché quello stesse forze produttive del lavoro, che per il capitale sono «solo mezzi per produrre sulla sua base limitata, in realtà sono le condizioni per far saltare in aria questa base» (Grundrisse, II, p. 402). Ma come ciò succederà? Per comprenderlo, almeno intuitivamente, può servire del caso-estremo prsentato da Adam Smith nel capolavoro che ha fondato l’economia politica come scienza, ossia l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). Si prenda una produzione “a solo lavoro”, giusta l’ipotesi smithiana che «nelle manifatture la natura non agisce affatto ed è l’uomo che fa tutto» (La ricchezza delle nazioni, Roma, 1995, p. 329; nel caso di una produzione “a macchine e lavoro” servono certamente altre mediazioni, come la categoria del “prodotto netto” al posto di quella del “prodotto lordo” che ha insegnato Piero Sraffa, ma lo svolgimento del ragionamento resta lo stesso). Ora in una produzione “a solo lavoro” la quantità delle merci prodotte Q sarà pari a un multiplo h di quel lavoro L, dove quel multiplo non è che l’espressione della produttività del lavoro:
Q = hL da cui h = Q/L
Ma quanto sarà il valore v di quelle merci così prodotte? Per Smith non c’era dubbio che esso sarà determinato dalla quantità dell’unico fattore produttivo impiegato, ossia dal lavoro stesso, essendo «il lavoro il primo prezzo, l’originaria moneta d’acquisto con cui si pagano tutte le cose» (idem, p. 83), e quindi:
Qv = L da cui v = L/Q
dove v è la misura del valore-lavoro che si presenta immediatamente come l’inverso della produttività del lavoro, cosicché se quest’ultima cresce, l’altro non può che calare. Smith arriva ad cogliere questa contraddizione, ma senza renderla esplicita. Lo fa invece Marx proclamando a piena voce che «è legge generale della produzione di merci che la produttività del lavoro e la sua creazione di valore stanno in rapporto inverso» (Il capitale, II, p. 154). E allora, a questo punto, non ci resta che trarne le dovute conseguenze.
E’ soprattutto nei Grundrisse (peraltro rimasti inediti fino alla metà del XX secolo) che lo svolgimento logico si dipana coerentemente: posto che «l’aumento della produttività del lavoro è la tendenza necessaria del capitale» (II, 391), ne deve seguire una progressiva divaricazione rispetto alla misura in termini del valore-lavoro svincolandosi progressivamente la “forza del produrre” dal «tempo di lavoro immediato che costa quella produzione, che dipende invece dallo stato generale della scienza e del progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione» (II, 400). Sta in questo la croce del capitale perché se «da un lato esso evoca tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa; dall’altro intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato» (II, 402). Insomma, e si ribadisce, «nella stessa misura in cui il tempo di lavoro – la mera quantità di lavoro – è posto dal capitale come unico elemento determinante, il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio determinante della produzione, della creazione di valori d’uso, e vengono ridotti sia quantitativamente ad un proporzione esigua, sia qualitativamente a momento certamente indispensabile, ma subalterno, rispetto al lavoro scientifico generale, all’applicazione tecnologica delle scienze naturali da un lato, alla produttività generale derivante dall’articolazione sociale della produzione complessiva dall’altro» (II, 394-395). E l’idea ricompare, almeno una volta, anche nel Capitale quando nel terzo libro si dice che «la contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive indipendentemente dal valore (e dal plusvalore) in esso contenuto,… ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente», così che «per la sua intrinseca natura essa tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore» (Il capitale. III, p. 302).
Ma con quale superamento si concluderà questa contraddizione? Col capitale, stretto tra la tendenza alla propria valorizzazione ed al suo essere comunque un quantum di valore, che «lavora alla propria dissoluzione come forma dominante della produzione» (II, 395) perché se mai la tendenza all’aumento della produttività del lavoro dovesse proseguire, l’effetto ultimo sarà che il “flusso” di valorizzazione finirà per negare il “fondo” di valore, avendo il primo una tendenza all’infinito ed il secondo un limite a zero. Giunti a quel momento, non sarà più «né il lavoro immediato eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale… a presentarsi come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza», così che il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso» (II, 401).
E’ questo il destino ultimo di quell’oggetto/soggetto denominato capitale che sta già iscritto nella cifra del presente e verso cui lo spinge la valorizzazione incessante del proprio valore. E sarà così che la contraddizione della critica dell’economia politica approderà alla realizzazione del proprio compito storico Per parafrasare una delle affermazioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus (1921) di Ludwig Wittgenstein, quel giorno nel mondo «non vi sarà alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore». E, affinché sia così, non possiamo che augurare: cento ancora di questi anni, Capitale!