Alcune “leggi economiche universali” di Karl Marx
di Roberto Sidoli, Massimo Leoni e Daniele Burgio
Caro Moro [pseudonimo di famiglia di Marx a cagione dei suoi tratti somatici],
esiste una sorta di “giallo” teorico nel marxismo che avrebbe potuto attirare l’attenzione anche di Edgar Allan Poe: il mistero delle cosiddette leggi economiche universali (d’ora in poi LEU) scomparse o smarrite. Nell’AntiDühring, proprio all’inizio della sezione dedicata all’economia politica, il tuo grande amico Engels ha scritto che se questa scienza, di natura prettamente storica, deve necessariamente partire dall’analisi delle «leggi particolari di ogni singola fase di sviluppo della produzione e dello scambio», avrebbe però anche potuto «stabilire le poche leggi assolutamente generali valide per la produzione e lo scambio in genere». Quindi per Engels c’erano pure “leggi economiche universali”, sebbene egli non abbia quasi più fatto cenno a quali fossero. Ma scherzava e ci voleva prendere in giro? Niente affatto perché, sempre nell’AntiDühring e proprio poche righe prima, egli ne aveva indicata almeno una quando ha sottolineato che, sebbene produzione e scambio siano due funzioni diverse, non sono però equivalenti dato che si può dare «la produzione senza lo scambio, non invece lo scambio – che proprio per sua essenza è scambio di prodotti – senza la produzione». Insomma, la produzione sarebbe pratica economica universale, mentre lo scambio, storicamente determinato, non lo è!
Il “mistero”, caro Moro, sta nel fatto che, anche se il processo di analisi teorica sull’economia vanta ormai circa ventiquattro secoli di storia (se partiamo da Aristotele con la sua distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e tra produzione per l’uso e produzione per il guadagno), la messe di risultati finora conseguita è assai ridotta rispetto alla individuazione di queste leggi economiche che sarebbero valide in tutte le epoche storiche – e ciò nonostante che tu nel Capitale le abbia espresse in gran parte e a volte in forma assai chiara. Però i tuoi seguaci, più o meno degni, di regola si sono dimenticati di estrapolarle, smarrendole e facendo pertanto svanire un “continente” di ricerca teorico dotato di grande rilevanza anche pratica. Qui di seguito ci proveremo a colmare tale madornale lacuna.
1. Per leggi economiche universali intendiamo quei nessi regolari e ripetuti di dipendenza tra fenomeni produttivi diversi, posti in un rapporto di causa ed effetto tra una forza motrice e le sue conseguenze generali e uniformi che si manifestano (sia pure assumendo via via forme diverse) in tutte le formazioni economiche-sociali del passato, del presente e, perchè no?, anche del futuro. Partendo dal comunismo primitivo delle società paleolitiche, dall’Homo habilis di circa 2.300.000 anni fa con la sua creazione dei primi utensili quale espressione della tecnologia umana, per poi seguitare col modo di produzione asiatico, coi rapporti sociali di produzione schiavistici, con la formazione economico feudale, col sistema di produzione capitalistico nelle sue diverse fasi di sviluppo (manifatturiero, industriale e imperialistico-finanziario) fino al socialismo quale prima (ed immatura) “anticamera” del successivo addavenì del comunismo contrassegnato dalla regola gioiosa dell’“a ciascuno secondo i suoi bisogni”, come hai illustrato nella Critica al programma del partito operaio tedesco (o “Programma di Gotha”).
Più in specifico, caro Moro, se l’economia è la pratica sociale umana che ha per oggetto i multiformi rapporti tra gli uomini di produzione, scambio, distribuzione e consumo mediati da beni e servizi indispensabili per la loro riproduzione, allora per legge economica universale va inteso il nesso costante di omogeneità e regolarità tra due fenomeni/processi diversi, all’interno del campo produttivo umano, che s’impongono come costantemente presenti. Va però subito aggiunto, onde evitare inutili fraintendimenti, che queste LEU valgono solo e finché ci sarà un processo di riproduzione umano perché, a differenza delle leggi della natura, esse si presentano concretamente attraverso l’attività sociale dell’uomo che, se non può annullarle, può però conoscerle per utilizzarle al meglio della soddisfazione dei propri bisogni sia individuali che collettivi e sia materiali che culturali.
Va inoltre aggiunto che, siccome le LEU si manifestano diversamente nelle formazioni economico-sociali che si sono succedute nel tempo, esse possono incontrare controtendenze particolari, come la LEU (che poi discuteremo) della indispensabilità del lavoro umano per il processo di riproduzione sociale che non si applica ovviamente, all’interno delle società di classe, alle minoranze privilegiate di persone che si sono impadronite delle condizioni della produzione e si appropriano di beni di consumo, così da poter vivere senza partecipare in alcun modo, nemmeno indiretto, al processo di produzione. Il marxismo ha di regola confuso le manifestazioni concrete assunte di volta in volta da ciascuna LEU all’interno delle diverse formazioni economico-sociali con l’inesistenza (presunta) di nessi costanti ed universali tra fenomeni economici diversi. Ma è un abbaglio comunque rimediabile, caro Moro, se il marxismo, nonostante tutto quello che si dice, è ancora (come ha notato una volta Jean-Paul Sartre) nella sua fase di giovinezza teorica.
Ora le “leggi economiche universali” che intendiamo discutere sono quattro, e cioè:
– la legge della erogazione (gratuita e costante) di valori d’uso da parte della natura, il che consente agli esseri umani di disporre delle condizioni materiali necessarie per riprodursi sul piano sociobiologico grazie anche a valori d’uso «non ottenuti mediante il lavoro: aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti, ecc.», come hai scritto nel primo paragrafo del primo capitolo del primo libro del Capitale;
– la legge della indispensabilità del lavoro umano, concausa e fattore determinante per il processo di riproduzione materiale dei beni di consumo e dei mezzi di produzione che risulta necessario in tutte le formazioni economico-sociali della storia passata e presente (e anche futura?) della nostra specie, con la relativa «distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite» (come hai spiegato nella celebre lettera a Kugelmann del 1868) a seconda che si producano mezzi di produzione oppure beni di consumo;
– la legge della trasformazione (necessaria e costante) di una parte del lavoro vivo in mezzi di produzione, con la conseguente suddivisione del prodotto sociale complessivo in beni di consumo e strumenti produttivi sempre più complessi che sono presenti fin dalla più remota età del genere umano;
– la legge della supremazia (costante e necessaria) della produzione sul consumo non potendosi dare consumo senza la preventiva produzione di ben sia di consumo che di produzione. Naturalmente ci sarà un effetto di retroazione del consumo sulla produzione ed è per questo che la successione produzione-consumo si presenta come un processo circolare dove però la produzione resta il prius, con il relativo corollario dell’aumento della soddisfazione dei bisogni materiali e culturali umani in conseguenza dell’incremento del livello qualitativo del produrre e delle conoscenze tecnico-scientifiche che vi vengono applicate.
Ma ora consideriamole partitamente.
2. La prima LEU riguarda il rapporto dialettico, allo stesso tempo costante e necessario, che si riproduce tra la specie umana, fin dai suoi albori, e la Natura la quale eroga continuamente, anche se in modo inconsapevole, quantità gigantesche di valori d’uso, di ricchezze materiali che gli esseri umani possono utilizzare in forme assai variabili tramite il proprio lavoro sociale, ma pure consumare direttamente, come nel caso dell’aria che respiriamo. E tu, caro Moro, hai avuto perfettamente ragione di precisare nella Critica del Programma di Gotha che
il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questo consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che a sua volta è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana… Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, in quanto l’uomo è fin dal principio in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e la tratta come cosa che gli appartiene.
La natura risulta pertanto la “madre” della ricchezza, così come il lavoro (che è del resto a sua volta espressione di una forza naturale) ne rappresenta il “padre”, ma la naturaè la “matrice” da cui fuoriescono i valori d’uso, i quali però assumono rilevanza economica soltanto in quanto si collegano dialetticamente alla prassi lavorativa umana. Se la nostra specie, per un malaugurato accidente, sparisse interamente dalla faccia della terra, la natura continuerebbe certamente a riprodursi, ma senza più produrre dei valori d’uso per quel “caro estinto” che saremmo diventati noi. D’altro canto, fin dai Manoscritti economici-filosofici del 1844, caro Moro, non hai scritto che «l’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile»?
Non a caso la terra e l’acqua sono state correttamente considerate, nel quinto capitolo del primo libro del Capitale, quali «oggetti generali del lavoro umano», come il «pesce, che viene preso e separato dal suo elemento vitale, l’acqua, il legname che viene abbattuto nella foresta vergine, il minerale strappato dalla sua vena», che forniscono un valore d’uso enorme e gratuito a disposizione della (sempre onerosa e costosa) prassi produttiva. Ma i più infaticabili “produttori diretti” del mondo esterno sono le innumerevoli piante verdi che compiono il processo di trasformazione biologica dell’energia sulla superficie terrestre, da un lato assorbendo la luce (proveniente quasi sempre dal sole) e convertendola in energia chimica potenziale, dall’altro traendo da composti inorganici e semplici (come l’anidride carbonica e l’acqua) le sostanze organiche essenziali, a partire dai glucidi, per i “mattoni” e i composti basilari della materia vivente, sia vegetale che animale. E’ la fotosintesi clorofilliana attraverso la quale le piante garantiscono l’autoriproduzione continua del primo livello essenziale per la vita nel nostro pianeta compiendo un “lavoro” immane, costante e decisivo. E che dire dei combustibili fossili derivati dalla trasformazione della sostanza organica spinta sotto terra nel corso di lontane ere geologiche (a sua volta accumulo di energia solare da parte delle piante attraverso il sopracitato processo di fotosintesi clorofilliana), come il carbone, il gas naturale e il petrolio? E la selce e le pietre utilizzate fin da 2.300.000 anni fa dall’Homo habilis, oppure l’uranio e le preziose “terre rare” (gallio, coltan, ecc.) che permettono di costruire i cellulari e i sistemi satellitari dell’età contemporanea?
Insomma, anche nella futura società comunista, caratterizzata dalla regola distributiva dell’“a ciascuno secondo i suoi bisogni”, si continuerà ad utilizzare la condizione-base della catena alimentare fornita dalla fotosintesi clorofilliana, e cioè la germogliazione spontanea dei cereali e dei prodotti alimentari, la produzione di latte e uova da parte degli animali domesticati (salvo in caso di vittoria futura delle tesi vegane!) e tutti gli altri doni gratuitamente forniti per il diretto consumo fisiologico umano, come l’aria o il vento. Ed anche se in un futuro estremamente remoto tutta la nostra specie dovesse trasferirsi integralmente su di un altro pianeta, nella nuova “casa stellare” non opererebbe a nostro favore il processo di erogazione costante e gratuito di valori d’uso da parte della nuova stella di riferimento (sia luce che energia) e del nuovo pianeta occupato (terra, acqua, materia prime, e quant’altro), consentendoci una nuova possibilità di loro utilizzo produttivo?
3. La seconda LEU riguarda invece il carattere indispensabile (costantemente e necessariamente indispensabile) del lavoro umano sia per il processo di riproduzione sociobiologica (beni di consumo) che per la creazione/conservazione dei mezzi di produzione che si consumano integralmente o soltanto si logorano nel loro utilizzo. Questo aspetto, caro Moro, l’hai esplicitato fin dall’inizio del Capitale segnalando che
il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione d’esistenza dell’uomo indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini.
E a proposito del “ricambio organico” hai precisato nel capitolo quinto che
il lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere.
Poco più avanti hai aggiunto che
il processo lavorativo, come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani; condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita, e anzi è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana.
Per ultimo valga la notissima lettera che hai scritto a L. Kugelmann l’11 luglio 1868:
che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa pure che la quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo. Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite, non è affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma solo può cambiare il suo modo di apparire, è self-evident… Le leggi di natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro.
Come provare meglio il carattere di LEU della indispensabilità del lavoro umano ai fini della riproduzione socio-biologica della nostra specie? Che, senza il processo lavorativo il genere umano semplicemente si estinguerebbe? Ma s’immagini, restando solo sul fronte dei beni di consumo, un mondo abitato da una collettività che decidesse concordemente di non lavorare più, in una sorta di sciopero generale planetario senza eccezioni né crumiraggio, per un periodo di almeno due anni. Questa collettività riuscirebbe a nutrirsi dopo un anno, tredici mesi, ecc.? E’ sufficiente notare che le scorte alimentari del globo nel 2011 risultavano pari a circa 430 milioni di tonnellate a fronte di un fabbisogno globale annuo di circa 2 miliardi di tonnellate, e quindi basterebbero solo per tre/quattro mesi di sussistenza se non ci intervenisse nel frattempo una nuova produzione.
Per i mezzi di produzione è poi ancora più facile prevederne le conseguenze, Come hai descritto, caro Moro, nel solito capitolo quinto:
una macchina che non serve nel processo lavorativo è inutile e, inoltre, cade in preda alla forza distruttiva del ricambio organico naturale. Il ferro arrugginisce, il legno marcisce. Refe non tessuto o non usato in lavori a maglia, è cotone sciupato. Queste cose debbono essere afferrate dal lavoro vivo, che le evochi dal regno dei morti, le trasformi, da valori d’uso possibili soltanto, in valori d’uso reali e operanti.
E’ questo, come dici, l’effetto della cieca ma formidabile forza distruttiva del ricambio organico che continuamente logora sia i prodotti del lavoro umano che la nostra stessa specie, imponendo al processo lavorativo, sia economico che sessuale, di opporsi a tale azione ininterrotta di logoramento e distruzione di uomini e cose, pena l’autodistruzione del genere umano e delle sue opere multiformi di durata transitoria. Infatti la Natura non ha soltanto il volto benevolo della dispensatrice, costante e disinteressata, di valori d’uso, ma pure quello ciecamente crudele di una potenza cosmica costantemente tesa, in modo inconsapevole, ad usurare e devastare la nostra sopravvivenza biologica e materiale con crisi climatiche e devastazioni naturali (terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche) oppure con le epidemie del passato, ma pure del presente se non governate prontamente. E anche se i gruppi dell’ecologismo radicale guardano con simpatia qualunque manifestazione della Natura, l’entusiasmo non è affatto ricambiato: parassiti, virus mortali, predatori, catastrofi e (soprattutto) il logoramento costante della vita umana fanno parte del lato distruttivo della Natura-Matrigna, un lato peraltro ben conosciuto da Lucrezio o da Leopardi.
Ma sulla legge della necessità del lavoro umano bisogna affrontare, a proposito della futura società comunista nella sua più alta fase evolutiva, l’obiezione dei superandroidi. Si potrebbe infatti immaginare il sopravvenire di una organizzazione economica nella quale il lavoro umano venga completamente sostituito da milioni di sofisticati robot all’interno del processo di produzione dei valori d’uso, sia beni che servizi. Ora in questo scenario futuribile la seconda LEU non perderebbe totalmente rilevanza e peso storico? La più facile risposta è quella che, almeno per il momento, le macchine, anche le più sofisticate e “intelligenti”, collaborano comunque con l’uomo nel processo produttivo, a cui però si potrebbe ribattere che si tratta di una condizione momentanea, la tendenza ultima potendo essere la sostituzione integrale del lavoro umano ad opera delle macchine. “Ma pure in questo caso il lavoro umano non servirebbe a riparare gli androidi via via logorati dall’uso produttivo?”. “Ma se gli androidi fossero capaci di autoripararsi, oltre che di autoriprodursi?”. “Anche in questo improbabile scenario, per costruire nuovi modelli di androidi più sofisticati ed avanzati di quelli precedenti non servirebbe la creatività umana, il suo apporto di genialità ed inventiva al processo scientifico-tecnologico?”. “Ma se i superandroidi sapessero esprimere anche fantasia e creatività nell’innalzamento del livello qualitativo del processo produttivo a partire dal loro stesso processo di automiglioramento?”. “Resterebbero pur sempre macchine (sia pure “supermacchine”) in un lontano passato create dal lavoro collettivo umano, che in ultima istanza rimarrebbe la loro prima forza motrice, il loro ideatore e controllore”. “Ma se si ribellassero al loro creatore?”. “Le tre leggi della robotica di Asimov non sono state inserite nel loro software?”.
4. La terza LEU ha per oggetto il processo, costante e necessario, di trasformazione di una sezione variabile del lavoro vivo umano (causa) in mezzi materiali di produzione (effetto), e cioè il processo di trasformazione di una parte del lavoro vivo in strumenti produttivi e materie prime lavorate quale risultato del “lavoro di ieri”, con una ricaduta sullo stesso processo d’impiego del lavoro “di oggi”. E’ questa una legge economica il cui sottoprodotto principale consiste nella divisione (costante e necessaria) del prodotto sociale complessivo in un “fondo sociale di beni di consumo” e in un “fondo sociale di mezzi di produzione”, quest’ultimo da destinare (ma non necessariamente) alla accumulazione successiva ovvero, per dirla alla Marx, alla “riproduzione allargata”.
Ma se una parte del lavoro vivo, quale erogazione di energia psicofisica da parte dei produttori, si trasforma da sempre in mezzi sociali di produzione, proprio la presenza di questa rete di strumenti materiali (a partire dalla mano umana con le sue capacità straordinarie di manipolare ed il suo efficacissimo pollice opponibile) diventi dialetticamente la condizione preliminare per un più riuscito (e specificamente umano) utilizzo del lavoro vivo. All’inizio dei Grundrisse, caro Moro, hai scritto che
nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, anche se tale strumento fosse soltanto la mano. Nessuna è possibile senza lavoro passato, accumulato, anche se tale lavoro fosse soltanto la destrezza che attraverso l’esercizio ripetuto si è accumulata e concentrata nella mano del selvaggio.
D’altra parte la trasformazione del lavoro vivo in “lavoro accumulato”, condensato e cristallizzato, ha rappresenta l’atto stesso della genesi del genere umano, rimanendo una presenza costante e necessaria nella sua dinamica di sviluppo a partire dalla prima fase di esistenza dell’Homo habilis quando 2.300.000 anni orsono la nostra specie si è differenziata in modo decisivo dai protominidi (per pollice opponibile e statura eretta) progettando e costruendo rudimentali strumenti in pietra attraverso l’uso di un altro strumento: i primitivi chopper, ciottoli in pietra scheggiati e lavorati su una sola faccia mediante un altro ciottolo che fungeva da percussore producendo un colpo perpendicolare alla superficie, che sono stati il primo (embrionale, ma decisivo) prodotto della nascente tecnologia umana.
Si tratta dell’aspetto che hai voluto riprendere, nel capitolo quinto del primo libro del Capitale, da Benjamin Franklin che ha definito l’uomo «a toolmaking animal, un animale che fabbrica strumenti». E non c’è dubbio che questa LEU ha bene operato dal neolitico in poi, sebbene a volte con regressi, come durante i “secoli bui” del primo Medioevo. Per quanto poi riguarda il futuro comunismo-sviluppato, caro Moro, proprio tu hai sottolineato che solo al suo interno le “forze produttive” si sarebbero potute manifestare «in tutta la loro ampiezza», ed anche in un’ipotetica futura società anarco-primitivista alla John Zerzan (che ha propugnato il ritorno del genere umano al modo di produzione paleolitico basato sulla coppia raccolta di cibo/caccia) non si eliminerebbe comunque la presenza di un fondo di “lavoro accumulato”, come chopper, asce, pietre focaie e cesti, che sono stati tipici di quella prima fase di sviluppo dell’umanità.
5. La quarta LEU considera la necessaria dipendenza del consumo umano, inteso nel senso più ampio sia sociale che individuale, sia di beni di consumo che di mezzi di produzione, da un preventivo processo di produzione, a meno dei valori d’uso erogati gratuitamente dalla Natura e consumati senza alcun intervento lavorativo. Detto altrimenti, il processo di produzione costituisce la precondizione indispensabile per il processo di consumo, che tuttavia a sua volta retroagisce sul primo modificandone le forme produttive con la trasformazione dei bisogni umani e consentendo la riproduzione allargata sia della specie che dei mezzi di produzione consumati.
Siamo quindi in presenza di un primato della produzione sul consumo (ma non di tipo temporale per l’interconnessione tra i due elementi costitutivi della polarità dialettica in via d’esame), come hai detto nella Introduzione degli appunti preparatori del 1857-58 che sono stati chiamati Grundrisse:
la produzione produce gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la distribuzione li ripartisce secondo leggi sociali, lo scambio ridistribuisce il già distribuito secondo il bisogno individuale; nel consumo, infine, il prodotto esce fuori da questo movimento sociale, diviene direttamente oggetto e servitore del bisogno individuale e lo soddisfa nel godimento. In tal modo la produzione si presenta come punto di partenza, il consumo come punto finale, la distribuzione e lo scambio come il punto intermedio… La produzione è determinata da leggi di natura universali; la distribuzione dalla contingenza sociale, ed essa può pertanto agire in senso più o meno favorevole alla produzione; lo scambio si situa tra entrambe come movimento sociale formale; e l’atto finale del consumo. che è inteso non solo come termine finale ma anche come scopo finale, sta propriamente al di fuori dell’economia, tranne nella misura in cui esso reagisce a sua volta sul punto di partenza e avvia di nuovo l’intero processo.
Le conseguenze di questa LEU sono facili da comprendere: siccome senza la produzione di valori d’uso creati/coprodotti dall’uomo nessun consumo è possibile, qualora il consumo superi la produzione, esso potrà riprodursi nel tempo solo utilizzando le risorse economiche eventualmente accumulate in precedenza oppure erogate da terzi produttori. Così la produzione globale costituisce il “tetto” massimo del consumo talché, diminuendo, calerà proporzionalmente la massa di valori d’uso disponibili per il consumo umano; viceversa, aumentando la produzione globale dei beni di consumo e dei mezzi di produzione, crescerà simultaneamente e in modo proporzionale la massa dei valori d’uso a disposizione. Detto altrimenti, gli oggetti del consumo globale umano (compreso il consumo dei mezzi di produzione) non vengano creati dal niente o dalla bacchetta magica di Harry Potter, ma necessitano di un intervento preventivo della praxis lavorativa umana. Soltanto nella dimensione religiosa del “miracolo” si può dare il superamento di questa inesorabile LEU, come negli episodi evangelici della moltiplicazione dei pani e dei pesci o della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana, ma si tratta per l’appunto di fenomeni eccezionali di origine divina che non appartengono alla dimensione umana. Tutto ciò, naturalmente, a prescindere dai valori d’uso forniti gratuitamente dalla natura, ma purtroppo l’uomo non può vivere utilizzando e consumando solo gli elementi naturali, come l’aria o la luce, alla maniera delle piante: deve produrre per consumare, cosicché, come notava il tuo amico Engels nell’AntiDühring a proposito dello scambio (ma ciò vale pure per la distribuzione e il consumo) «può esserci la produzione senza lo scambio, non lo scambio (che proprio la sua essenza è solo scambio di prodotti) senza la produzione».
Eppure all’interno delle società classiste ci sono costantemente delle minoranze di uomini che si godono beni di consumo e possiedono mezzi di produzione senza realmente partecipare in alcun modo al processo produttivo, se non compiendo la “fatica” (per esempio) di intascar rendite o cedole azionarie. Però ciò è possibile solo perché ci sono altri che producono per loro, altri che al loro posto si sobbarcano un ulteriore peso lavorativo. E comunque ci vogliono delle premesse economiche che vanno ben oltre il semplice rapporto di sopraffazione, come ha spiegato Engels nell’AntiDürinhg a proposito della relazione di Robinson Crusoe con il suo “selvaggio-schiavo” Venerdì che il professor Duhring attribuiva al solo esercizio di violenza armata da parte di Crusoe. Ma quando mai?
Ritorniamo pertanto ai nostri due uomini. Robinson, “la spada in pugno”, ha fatto di Venerdì il suo schiavo. Ma per riuscire a questo, Robinson ha bisogno di qualche altra cosa oltre la spada. Non è da tutti possedere uno schiavo. Per potersene servire bisogna avere a disposizione due cose: in primo luogo gli strumenti e gli oggetti per il lavoro dello schiavo e in secondo luogo i mezzi necessari per il suo mantenimento. Quindi, prima che la schiavitù diventi possibile bisogna che sia raggiunto un certo livello nella produzione e che sia comparso un certo grado di diseguaglianza nella distribuzione. E perché il lavoro degli schiavi divenga il modo di produzione dominante di tutta una società occorre un incremento ancora maggiore della produzione, del commercio e dell’accumulazione della ricchezza.
Occorre quindi che sia data una produttività del lavoro sociale (ovvero, come l’hai chiamata all’inizio del Capitale, una «forza produttiva del lavoro determinata da molteplici circostanze, e fra le altre, dal grado medio di abilità dell’operaio, dal grado di sviluppo e della applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall’entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione e da situazioni naturali») che consenta ai produttori diretti di produrre più di quanto è necessario per la loro sopravvivenza, così da poterne trasferire l’eccedenza ad altri. Non a caso nelle Teorie sul pluslavoro hai sottolineato che
se il grado di sviluppo della produttività del lavoro fosse così limitato che il tempo di lavoro di un uomo bastasse unicamente a mantenere lui stesso in vita, a produrre e riprodurre i suoi propri mezzi di sussistenza, non ci sarebbe né pluslavoro né plusvalore
men che meno sarebbe possibile un plusprodotto per altri, per tutti coloro che nelle società classiste sono in grado di sottrarsi all’obbligo generale di lavorare per vivere.
Ma si può essere sicuri che questa LEU della supremazia della attività produttiva sul consumo si manifesterà concretamente anche nel comunismo sviluppato? Tu ne eri sicuramente convinto, caro Moro, quando hai osservato nella Critica del Programma di Gotha che la regola economica distributiva dell’“a ciascuno secondo i suoi bisogni” presupporrà a monte un processo produttivo tale per cui «le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrano in tutta la loro pienezza».
In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è diventato soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, – solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!
E quindi, se si esclude lo scenario (improbabile) di “superandroidi tuttofare” ed esseri umani fannulloni, anche nella futura società comunista servirà un processo lavorativo sociale che, con l’ausilio degli automi/computer, arrivi a produrre i beni di consumo e i mezzi di produzione che si richiedono per la riproduzione continua della specie. E si dovrà produrre valori d’uso in eccesso perché, come hai spiegato a conclusione del capitolo 50 del terzo libro del Capitale:
se riconduciamo il salario alla sua base generale, precisamente a quella parte del prodotto di lavoro dell’operaio che passa nel suo consumo individuale; se liberiamo questa parte dai limiti capitalistici e la estendiamo al volume del consumo consentito da un lato dalla forza produttiva esistente della società e richiesto d’altro lato dal pieno sviluppo della personalità; se riduciamo inoltre il pluslavoro e il plusprodotto alla misura che è richiesta, nelle date condizioni di produzione della società, da un lato per la costituzione di un fondo di assicurazione e di riserva, dall’altro per l’allargamento continuo della riproduzione nella misura determinata dai bisogni sociali; se comprendiamo infine nel n.1, nel lavoro necessario, e nel n.2, nel pluslavoro, la quantità di lavoro che i membri della società in grado di lavorare devono sempre effettuare per coloro che non possono ancora o non possono più lavorare, in altre parole, se spogliamo sia il salario che il plusvalore, sia il lavoro necessario che il pluslavoro, del loro specifico carattere capitalistico, non abbiamo più queste forme, ma semplicemente i loro fondamenti che sono comuni a tutti i modi di produzione sociali.
E ’sulla base del riconoscimento di queste Leggi Economiche Universali Necessarie che si potrà poi procedere alla formulazione delle leggi storicamente determinate delle singole e diverse “società di classe” che si sono succedute nel tempo, il cui ultimo esemplare è, come è noto, il capitalismo che tu hai magistralmente descritto in quel Capitale. Critica dell’economia politica, di cui quest’anno celebriamo i 150 anni dalla data di pubblicazione. E per questo ti diciamo grazie, caro Moro.
Chi fosse interessato ad approfondire l’esame della tematica in oggetto, può consultare il libro Leggi economiche universali e comunismo inserito nel sito teorico www.robertosidoli.net