Heidegger più «barbarico» che nazista?
di Gennaro Imbriano
I Quaderni Neri sono i taccuini di appunti che il più discusso filosofo tedesco del Novecento, Martin Heidegger, ha stilato a partire dal 1931 e dei quali ha disposto la pubblicazione soltanto al termine dell’edizione completa delle sue opere. Da più parti essi sono stati agitati per accusare Heidegger di avere contribuito allo sviluppo di quella che Emmanuel Levinas aveva definito «filosofia dell’hitlerismo» e di avere con ciò contribuito all’«introduzione del nazismo in filosofia». Un’attenta lettura dei Quaderni Neri, però, impone di rivedere giudizi così netti: Heidegger ha fin da subito instaurato con il regime nazista un rapporto simbiotico e ammiccante, ma lo ha fatto da una posizione del tutto particolare, che i Quaderni Neri possono adesso aiutare a ricostruire.
Anche se il lettore italiano ha a disposizione, al momento, solo tre dei quattro volumi che raccolgono gli Schwarze Hefte già pubblicati in tedesco tra il 2014 e il 2015 (si tratta di M. Heidegger, Quaderni Neri XII-XV, Bompiani, 2016; Quaderni Neri 1938-1939, Bompiani, 2016 [da ora: QN 2]; Quaderni Neri 1931-1938, Bompiani, 2015 [da ora: QN 1]), il clamore suscitato è stato significativo. Non solo per l’imbarazzante presenza, nei taccuini heideggeriani, di inequivocabili e persistenti tracce di antisemitismo, ma anche per la conseguente riemersione di domande scottanti, che attengono al rapporto tra Heidegger e il nazismo, al suo coinvolgimento nel regime, alla possibilità di separare la sua filosofia dal suo impegno politico.
L’antisemitismo di Heidegger ha finora dominato il dibattito intorno ai Quaderni Neri. Ciò ha in qualche modo oscurato la scena, mettendo in secondo piano il contesto nel quale esso matura e si svolge. Questo contesto è teorico e, più propriamente, filosofico-politico. Nei Quaderni Neri emerge infatti una trama discorsiva che qualifica in termini concreti il problema heideggeriano della storia dell’essere e tutte le questioni a esso connesse, prima ancora che il riferimento all’«ebreo» faccia la sua comparsa. È una trama discorsiva complessa e non scontata. Inedita, per certi versi. Che lascia emergere la dimensione propriamente polemologica dell’intera problematica filosofica heideggeriana (ne ho discusso in maniera molto più estesa in Heidegger e lo spettro di Marx. I Quaderni Neri tra il 1931 e il 1939, in “Dianoia. Rivista di filosofia”, n, 22, 2016, pp. 285-304).
1. I Quaderni Neri contengono «“riflessioni”» che per il suo autore sono da intendersi come gli «avamposti invisibili» di un «domandare di nuovo inziale che, a differenza del pensiero metafisico, si chiama pensiero della storia dell’essere» (QN 2, p. 360). La loro incidenza non è occasionale, la loro rilevanza non è secondaria. Non appare allora casuale che il tema dei primi appunti (quelli del 1931) si collochi interamente sullo sfondo della ricerca heideggeriana successiva a Essere e tempo, il grande libro del 1927. Il nodo è il «potenziamento dell’essere!» da perseguire ricercando la possibilità di un «nuovo e più grande inizio»: «questo solo importa» (QN 1, pp. 48, 107). Esso però abbisogna di un «fondamento», da non intendersi come quello trascendentale della metafisica moderna, che implica un soggetto e una causa, ma come una fondazione che sia opera di una forza storica dotata di potenza: «Il popolo: la protezione e attuazione del potenziamento dell’essere» (QN 1, p. 132). È subito allora chiaro che il tema ontologico diventa qui storico, e storico in senso politico. È l’energia del popolo che deve fondare, creare, produrre l’«altro inizio». Esso è tanto poco una questione intellettuale quanto poco la filosofia può trasformare il mondo senza estinguersi.
Eccola, la Kehre: il linguaggio di Essere e tempo si era bloccato perché non possedeva le parole per dire l’essere. Ora, comincia a trovarle nell’esserci (Dasein) inteso come comunità völkisch, cioè come unità organica che supera ogni degenerazione particolaristica e ogni declinazione “esistenzialistica” della scelta e della risolutezza. «La metafisica dell’esserci deve, nella sua intima disposizione, approfondirsi ed estendersi a una metapolitica “del” popolo storico» (QN 1, p. 164). Occorre allora «essere disposti nella creativa corresponsabilità della verità dell’esserci nazionalistico [völkisch]» (QN 1, p. 148).
Il nazismo potrebbe farsi carico di questo compito, ma in maniera solo ancora deficitaria data la sua indigenza spirituale, il suo «biologismo» (il quale «è, nel fondamento, non tedesco» [QN 1, p. 306]), la sua attitudine grezza, materialistica, al grande problema dello spirito tedesco. Soprattutto dopo la fase del rettorato Heidegger suggerisce che il movimento storico non è all’altezza di una filosofia del radicamento perché per restare «ben radicati al suolo [boden-ständig]» (QN 1, p. 50) è necessario lo spirito, di cui il nazismo è privo: solo quello può istituire un rapporto con l’essere (cioè con la storia del mondo) che non degradi a mera «visione del mondo» incapace di produrre aperture epocali, e in «cultura», mero appiattimento borghese della vita del popolo, esibizione tecnica di un presunto sapere vuoto, incapace di fiammeggiare. Occorrerebbe perciò contrapporre un «nazionalsocialismo spirituale» al «“nazionalsocialismo volgare”; con ciò intendo il mondo, i parametri, le pretese e l’atteggiamento del gazzettiere e del professionista della cultura» (QN 1, pp. 178, 187-88). Esso è una forma di «materialismo etico» che non vede la sostanza spirituale e che si connette a un «torbido biologismo che al materialismo etico fornisce la giusta “ideologia”» (QN 1, p. 188-89). Per mezzo di esso «si diffonde l’opinione erronea secondo la quale il mondo storico-spirituale (la “cultura”) crescerebbe alla maniera di una pianta dal “popolo”», col che tutto ciò che è essenziale viene «frainteso», come nel marxismo, «in quanto “sovrastruttura”» (QN 1, p. 189). «Tutto questo non è che un marxismo alla rovescia e in quanto tale tanto più pericoloso perché così la truffa – quella spirituale – è ancora più nascosta» (QN 1, p. 209).
La polemica contro la “cultura” e “le visioni del mondo” è incessante, violenta, infuocata. È la polemica contro il nazismo che rinuncia a farsi creazione dello spirito e che si diffonde nel contesto di un imperante materialismo che ha definitivamente obliato il compito storico che la riconnessione del popolo all’essere imponeva. «Tutto il “sangue”, tutta la “razza”, ogni “carattere nazionale” è inutile e solo un decorso cieco, se non vibra già in un azzardo dell’essere e non affronta, osando liberamente, il fulmine che lo colpisce nel punto in cui il suo torpore deve spezzarsi per far spazio alla verità dell’essere» (QN 2, p. 448).
Appare del tutto inconsistente, però, appellarsi alla costante polemica di Heidegger contro la politica nazista, i suoi capi, le sue degenerazioni biologistiche, la sua mancanza di visione filosofico-spirituale come una prova della sua distanza dal regime. E non perché, invece, valga la pena di rimuoverla per risolvere definitivamente la filosofia di Heidegger in nazismo. La relazione è più complessa e, in certo senso, più inquietante. E lo è per il modo nel quale lui stesso intese quel rapporto: quello tra un’esperienza storica che si collocava in termini ancora insufficienti nella fase di passaggio all’altro inizio e una filosofia che, nella sua autoproclamata superiorità, di quella vicenda storica segnalava a un tempo necessità e coappartenenza al medesimo orizzonte strategico. Questo è il punto: Heidegger si rammaricava del fatto che la potenza creatrice della «rivoluzione» nazista non fosse all’altezza delle sue premesse spirituali. Che degradasse costantemente ad amministrazione burocratico-moderna dell’essenza tedesca. Che non perseguisse la via spirituale di una grande narrazione degna del nuovo inizio. Non abbastanza tedesco, non abbastanza spirituale, non abbastanza völkisch, il nazismo era solo un necessario profeta del nuovo mondo, ma non il suo fondatore.
2. L’elemento decisivo della svolta spirituale che Heidegger reclama e che il nazismo non riesce a perseguire è la rottura con il cristianesimo. «Combattere il cattolicesimo […] è un’esigenza fondamentale». Ma solo perché, si badi, «la chiesa cattolica “è”» – «essa sola» – «cristianesimo» (QN 1, pp. 246, 241). «L’elemento pericoloso» di quest’ultimo sta nella sua «accettazione del mondo esibita a seconda delle esigenze e della speranza nell’aldilà», che ne fa una forza eminentemente reattiva e impegnata a configurarsi come «ciò che ritarda, se non addirittura distrugge le decisioni essenziali, i passaggi in un inizio storico» (QN 2, p. 386). Il cristianesimo non è altro che «un mezzo di fortuna privo di qualsiasi forza di creare perché in esso non è conosciuta né sopportata alcuna dignità di domanda, bensì vi si cercano solo comparazioni e al massimo consolazioni e promesse» (QN 2, p. 244). Suo è il messaggio di «“salvezza”» extra-storica e sua è la fede nei «“valori supremi”», «autentica negazione della volontà dell’inizio» (QN 2, p. 387).
Contro la dimensione valoriale e l’attitudine conservatrice del cristianesimo, però, il nazismo ha fatto troppo poco, malgrado «il suo tratto essenziale e la sua possibile grandezza» risiedano proprio nel fatto di essere un «principio barbarico», di per sé dotato di una carica energetica che eccede l’anti-storia del cristianesimo ma che, purtroppo, sovente è recuperata nell’orizzonte di quello: «il pericolo non sta nel nazionalsocialismo stesso, bensì nel fatto che esso venga minimizzato a una predica su ciò che è vero, buono e bello», restando così nell’orizzonte cristiano (QN 1, p. 257).
Barbarico significa non solo, però, precristiano, ma anche esterno all’orizzonte della grecità. E qui emerge la problematicità della connessione del nuovo inizio con il primo inizio greco: questa connessione non è ripetitiva, non è una vuota e stanca riproposizione della grecità, non è il candore del suo ricordo e della sua diffusione che i promotori della cultura auspicano. Né una forma di paganesimo antistorico che reclama la ri-attuazione epocale di una forza spirituale, quella greca, che ebbe senso, appunto, solo sul suo suolo e per il suo popolo. Si tratta piuttosto di ripercorrere, di quel primo inizio, la mossa fondante. Di imparare da esso come un mondo nuovo può essere aperto, dischiuso. «Tornare indietro all’inizio» equivale a possedere «la potenza di un modello reale» (QN 1, p. 70) per una nuova creazione. «Noi ritroveremo il Dio soltanto se […] esisteremo davvero nella forza della formazione del mondo» (QN 1, p. 42). Un mondo storico, fatto di pólemos e di pólis, di guerra e di politica. Ma c’è di più. La necessità dell’altro inizio deriva dalla compiuta conclusione, segnata dal nichilismo e dalla tecnica, ma soprattutto dal bolscevismo («prendere la mancanza di Dio del bolscevismo così come il torpore del cristianesimo come i grandi segni del fatto che noi siamo davvero e consapevolmente entrati nell’epoca dell’abbandono dell’essere» [QN 1, p. 459]), del mondo che ha obliato l’essere, figlio della grecità.
3. In questo senso i due inizi, quello greco e quello che deve venire si fronteggiano come due montagne, come «vicinanza di vette» (QN 1, p. 273). I tedeschi devono rendersi capaci di un gesto costituente pari a quello che fu dei greci. «Solo in forza di una immediatezza ugualmente violenta e di una pari altezza delle cime solitarie si può raggiungere un eguale» (QN 1, p. 288). Ma il segno deve essere invertito: se il primo inizio, quello greco, ha fallito, si tratta di farne uno tedesco, adesso, che riesca. Per far ciò occorre pensare «il secondo inizio nella sua lotta con il primo» (QN 1, p. 279). Lo spirito germanico deve creare una sua propria narrazione spirituale, dopo che nella storia del primo inizio è rimasto ai margini. Sia chiaro: si tratta di una necessità e di un destino. Nessun altro popolo può dare alla storia un nuovo svolgimento, consegnarla a una nuova apertura che sia alternativa a quella che si compie nella modernità. «Il tedesco soltanto può nuovamente dire e poetare l’essere – egli solo conquisterà di nuovo l’essenza della theoría e alla fine creerà la logica» (QN 1, p. 36).
Ma in che modo tutto ciò è possibile? A essere chiamata in causa è, in primo luogo, la filosofia: non la metafisica come visione del mondo, né la cultura, ma, appunto, una nuova profonda rimembranza dell’essere e della sua necessità. Ed è chiamata in causa, soprattutto, l’arte. L’arte come luogo nel quale l’essere viene alla luce. Heidegger induce spesso sul fatto che i tedeschi non debbono rinunciare alla loro «essenza poetico-speculativa» facendosi burocrati e amministratori della tecnica (QN 1, p. 654). Ma l’arte non è da pensarsi come l’opera del singolo, che in essa lascia venire al mondo la fonte di una ispirazione segreta e ricca di senso. Il punto è invece, ancora una volta, la valenza costituente e simbolica del gesto artistico. «L’arte va presa nella sua essenza in quanto poesia – e questa stessa va colta nella stessa originarietà del pensiero – ed entrambe inizialmente nella saga» (QN 1, p. 283, 84).
L’arte è, propriamente, epica, narrazione mitica, istituzione di senso di un mondo storico. Solo ricollocandosi su quella vetta dove furono già i greci essa sarà capace di generare lo spirito di un popolo: narrando le gesta eroiche dei suoi guerrieri e dei suoi dei. In questo senso l’altro inizio non è vuota circolarità, ripetizione pedante, riedizione culturale. Semmai, è la riproposizione del gesto, ancestrale e violento, della fondazione aurorale di un mito germanico, l’avvento sul piano dell’essere (della storia) della sua barbarica civiltà.
Solo in questo modo sarà possibile «riannodare nel grande inizio il più segreto compito del popolo tedesco» (QN 1, p. 143). Solo così lo spirito potrà forgiare il popolo, che non è né unità naturalisticamente data né tantomeno razza in senso biologico, ma obiettivo della creazione spirituale. Solo la filosofia come ripensamento dell’essere e l’arte come saga – cioè come narrazione politico-simbolica – possono consentire al tedesco di assolvere il proprio compito storico. La filosofia è giunta alla sua fine: per divenire effettiva deve realizzarsi. «Dobbiamo portarla alla fine e dunque preparare ciò che è totalmente altro – il metapolitico» (QN 1, p. 151). Tutto il resto è rumore, assordante e superfluo. È lo stridio della propaganda, inutile, rozzo, inconcludente. Incapace di pervenire all’essenziale, di far sì che «un tramonto» possa «diventare un passaggio» (QN 1, p. 365).
Qui il problema del nazismo assume, probabilmente, una torsione decisiva, la cui importanza è rilevatrice. Anche in rapporto al tema dell’antisemitismo. Nel momento della chiamata per il nuovo inizio, il compito essenziale è svolto dal pensiero. Ma serve anche chi agisce. La realizzazione pratica della filosofia – la grande attuazione di una saga epica – esige un’alleanza tra chi domanda e chi opera. Che chi domanda sia più prossimo all’essere e alla sua verità, è per Heidegger chiaro. Ma nel passaggio decisivo il fronte dell’essere è bicefalo, e impone una santa alleanza tra le forze del radicamento al suolo. Occorre lavorare alla «costituzione di un fronte – fissare l’obiettivo della lotta, stabilire la posizione del nemico» e, ancora, provvedere alla «formazione delle forze» e predisporre l’«atteggiamento fondamentale dell’anticipazione storica» (QN 1, p. 195). Una alleanza, dunque, tra chi domanda e chi agisce. Ma contro chi? Chi è il nemico? E perché la filosofia – la meditazione sull’essere – impone prassi, reclama eventi, vuole saghe, evoca nemici? Perché la filosofia non è nulla di filosofico, e non è nulla di teorico. Essa è, propriamente, «lotta». Non c’è pensiero che non sia collocato nel fuoco vivo di questa lotta, che non sia, cioè, esso stesso propriamente epico, risoluto nell’appartenenza. «Scendere in campo per qualcosa e sacrificarsi!» (QN 1, p. 21). La filosofia senza un nemico è priva di senso. Nel caso di Heidegger, la coesistenza con il «principio barbarico» è l’alleanza tattica contro il nemico: contro lo sradicato (l’ebraismo), l’universale (il cattolicesimo), il planetario (il bolscevismo). Presupposto della «trasformazione dell’esserci» è che «il nazionalsocialismo resti in lotta – nella condizione di potersi imporre, e non semplicemente “diffondere”» (QN 1, p. 186). La lotta è «lotta per l’inizio» (QN 1, p. 85), contro «l’oblio dell’essere» che ha «sradicato l’ente» facendolo «degenerare nell’indifferenza della moltitudine» (QN 1, p. 102).
Alla fine dei Quaderni contenuti nel primo volume Heidegger traccia una singolare genealogia dello spirito tedesco. Annota i nomi di Hölderlin, Wagner, Nietzsche. Poi, la sua data di nascita (QN 1, p. 386): il giorno in cui viene gettato nel mondo l’ultimo esponente di una filosofia come lotta del popolo tedesco e per il popolo tedesco contro i suoi nemici mortali. Siamo arrivati alla fine del 1938, la guerra è vicina.