Le cronache del nostro scontento. 2011: il complotto di “re Giorgio”.
di Giorgio Gattei
1. E dire che ancora a maggio 2011 i conti pubblici dell’Italia apparivano agli occhi degli esperti talmente in ordine che l’agenzia di rating Fitch poteva assicurare che «non c’è nessuna evidenza che la situazione di bilancio dell’Italia si stia deteriorando» ed il Commissario Europeo Olli Rehn riteneva che «l’Italia fa bene il suo lavoro» (“La Repubblica”, d’ora in poi R., 24.5.2011). Di conseguenza lo spread, il differenziale di rendimento dei titoli pubblici decennali rispetto ai Bund tedeschi, veleggiava attorno ai 180 punti. Eppure in meno di un mese succede qualcosa e tutto precipita: la situazione finanziaria si fa insostenibile con lo spread che vola così all’insù che Moody’s, altra agenzia di rating, si dichiara «pronta a declassare l’Italia» (R., 18.6.2011).
Che cosa è successo di così tanto grave nell’arco di quel poco tempo? E’ successo che ha preso il via il complotto della finanza internazionale contro il premier Berlusconi, con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vi si accoda ubbidiente. Il fatto è che nei nuovi tempi del terzo millennio non c’è più bisogno di minacciare “rumor di sciabole” (come era stato costume nella seconda metà del Novecento in Italia) per cacciar via un governo; adesso basta uno scuotimento di spread, soprattutto se la regia è all’estero. Ma ciò lo si poteva capire da subito (e chi doveva capire, ha capito) quando all’inizio di settembre parte dalla finanziaria Goldman Sachs l’ordine tassativo che è giunto «il momento di speculare contro» (R., 2.9.2011). Il povero Berlusconi è ormai “bollito” avendo deluso gli interessi dei creditori internazionali del nostro debito pubblico, ed il suo governo è «inadatto» a fare «le urgenti e importanti riforme strutturali e fiscali» che sono utili al paese, come ha spiegato fin da giugno l’economista USA Nouriel Roubin (R., 18.6.2011). Per questo Berlusconi va rimosso, ma solo dopo che si sia trovato il sostituto adeguato. Il compito della scelta è affidato a Giorgio Napolitano, che mette subito gli occhi su Mario Monti, già Presidente della Università Bocconi di Milano e Commissario Europeo per la Concorrenza, ma soprattutto ex-consulente Goldman Sachs (R., 18.4.2010). Il retroscena di questo “golpe economico” è stato ricostruito (e mai smentito) dal giornalista Alan Friedman nel libro Ammazziamo il gattopardo (Rizzoli, 2014) che d’ora in poi si seguirà.
2. Il complotto, che porta alla defenestrazione di Berlusconi, comincia nel giugno 2011 quando Napolitano si decide di «prendere in mano la situazione e agisce nel modo che pensava fosse corretto», sebbene ciò l’abbia portato «oltre una interpretazione del tutto corretta o restrittiva della Costituzione» perché «quell’ex-comunista di razza con la testa fine, convinto evidentemente di sapere cosa sarebbe stato meglio per il suo paese, si trasforma in un presidente superinterventista appropriandosi nel suo operato di poteri senza precedenti nella storia della Repubblica. Verso la fine del 2011 il presidente ha di fatto commissariato il governo e cambiato primo ministro. Così. Nel pieno di una crisi dell’euro che toccava l’Italia. Ma l’ha fatto senza consultare il Parlamento. Quando, il 16 novembre 2011, Mario Monti prestava giuramento al Quirinale, gli italiani non lo sapevano, ma l’idea di fare ricorso a Monti era nella testa di Giorgio Napolitano ben prima, già da mesi» (pp. 39-40). Il tutto, peraltro, realizzato con una difficile orchestrazione.
Stando alle testimonianze raccolte da Friedman, è all’inizio dell’estate che Napolitano si dà da fare, personalmente e segretamente, per sostituire l’inquilino di Palazzo Chigi. E’ lo stesso Monti ad ammettere ch’era la fine di giugno quando Napolitano gli chiese se sarebbe stato disponibile a diventare il nuovo Primo Ministro: «Sì, mi ha… mi ha dato segnali in quel senso» (p. 45). E anche Romano Prodi conferma che alla fine di giugno, su domanda, a Monti aveva consigliato: «Mario, non puoi far nulla per diventare presidente del Consiglio, ma se te lo offrono non puoi dire di no. Quindi non ci può essere al mondo una persona più felice di te» (p. 42). E Monti si prepara coscienziosamente a governare, richiedendo in estate a Corrado Passera un piano di rilancio dell’economia nazionale. Ma perché Passera? Ancora una volta è Napolitano a vederlo come «l’uomo perfetto a fianco di Monti, o come Ministro del Tesoro o, come sarebbe poi accaduto, nelle vesti di “superministro” per lo Sviluppo economico, l’industria, il commercio, le infrastrutture, i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni» (p. 48). E’ ovvio che con queste attribuzioni in pectore il suo Piano di crescita sostenibile per l’Italia veramente veramente imponente e «dopo ben quattro bozze tra luglio e novembre nella versione finale contava 196 pagine».
Friedman, che ha potuto leggerne l’ultima bozza, ne riporta la pagina 4: siccome «serve un programma credibile di risanamento dei conti pubblici, ma soprattutto di rilancio dello sviluppo… dobbiamo proporci di creare le condizioni per poter raggiungere una crescita di almeno il 2% all’anno nel medio periodo e creare nuova occupazione in tempi brevi, portare i conti pubblici in pareggio possibilmente già entro il 2012, riportare il debito pubblico intorno al 100% del Pil entro tre anni». Tanto ambizioso risultato si poteva guadagnare solo con «una vera e propria terapia d’urto» fatta di «nuove regole di disciplina nella gestione dei conti pubblici e molte iniziative non convenzionali, anche di forte discontinuità con il passato» (pp. 50-51). Da ciò che riporta Friedman, nel Piano di Passera sono presenti sia manovre di austerità che di crescita, anche se poi all’atto pratico «la parte sulla crescita non è mai venuta fuori» (p. 52) con i relativi danni del caso se nel 2012 il PIL, invece di aumentare del promesso +2%, è finito addirittura in rosso: – 2,8% rispetto al +0,6% del 2011! Ma che importa? Ai gestori esteri del “golpe economico”, da creditori dei titoli pubblici nazionali quali sono, basta soltanto che il governo italiano si impegni a rimborsare, con gli interessi, il valore dei loro “crediti sovrani”, come per l’appunto farà il governo Monti con l’approvazione parlamentare dell’accordo di Fiscal Compact del luglio 2012.
Che qualcosa di simile a un “golpe” ci sia stato nel 2011 è comunque affermazione impegnativa che lo stesso Friedman, sia pure con tutte le cautele del caso, lascia intendere. Si aspetta che la pressione della speculazione finanziaria internazionale mandi lo spread alle stelle inguiando il governo costretto a pagare più interessi finché, convinto il premier “decotto” a fare un passo indietro, Napolitano può «designare Monti nuovo primo ministro. Bim bum bam. Anche se per motivi nobili e senso dello Stato, la Costituzione della Repubblica d’Italia è appena stata strapazzata… Napolitano ha compiuto un gioco di prestigio o, come suggerisce il “Financial Times”, ha fatto un forced intervention e cioè una sorta di forzatura». Per dirla altrimenti, nominando Monti è stato commesso «uno strappo costituzionale», e se proprio non si vuole parlare di “golpe” «si potrebbe sostenere che fu il risultato della moral suasion dell’Europa su Napolitano, e che il presidente della Repubblica si è comportato nel modo in cui aveva imparato a comportarsi durante sei decenni di vita politica attiva, come ex comunista» (p. 56-57), pronto ad ubbidire agli ordini superiori, specialmente se provenienti dall’estero (quand’era comunista dall’URSS, adesso che non lo è più anche da altrove). Però va capito. Non era stato proprio lui ad essere considerato da Henry Kissinger «il “mio comunista preferito”, un uomo che spesso servì come “ponte” con la stessa amministrazione USA che stava cercando di destabilizzare il PCI in favore di Andreotti e della DC tra gli anni Settanta e Ottanta, in piena Guerra Fredda» (p. 58)? Insomma, Napolitano, già referente degli Stati Uniti in Italia da comunista, poteva mancare di esserlo per il nuovo potere finanziario internazionale quando non lo è stato più?
Ma ormai c’è da concludere: va riconosciuto che in Italia «c’è stato, dal novembre 2011, qualcosa come un deficit di democrazia nelle azioni di Napolitano, e forse la Costituzione è stata strapazzata. Ma tanti italiani preferiscono utilizzare per rispetto una parola molto più dolce, la chiamano “forzatura” e poi passano oltre» (p. 59).
3. Però siamo andati troppo avanti perché, mentre Napolitano sta ancora predisponendo i suoi uomini in pole position, altri personaggi ben più “pesanti” entrano in scena per dettagliare pubblicamente al presidente Berlusconi quanto si aspettano che lui faccia e, per sua delega, lo faccia il popolo italiano.
A dar retta ai giornali, l’azione sarebbe partita da Washington all’inizio di agosto quando il Segretario del Tesoro Tim Geithner (di provenienza Fondo Monetario Internazionale), preoccupato per l’eccessiva esposizione delle banche americane nei confronti del debito pubblico italiano, si accorda con la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy ed il governatore della BCE Jean-Claude Trichet per costringere il governo Berlusconi ad adottare «l’anticipo dei tagli al deficit, il pareggio di bilancio nella Costituzione, la liberalizzazione dei mercati», perché in caso contrario «l’Italia andrà commissariata» (R., 6.8.2011). La minaccia è messa poi per iscritto in una lettera a Berlusconi del 5 agosto 2011 che porta la firma del governatore della BCE e del suo vice (prossimo a subentrargli) Mario Draghi, anche lui ex-consulente Goldman Sacks. E’ una lettera riservata che tuttavia viene resa pubblica l’11 settembre dal “Corriere della Sera” quando Berlusconi prova a non prenderla in considerazione. Ma cosa dice o piuttosto intima la lettera? Che «l’Italia deve con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali» adottando una serie di misure di politica economica che riducano l’incidenza del debito pubblico sul PIL. Ma come? Mediante «decreti legge seguiti da ratifica parlamentare entro la fine del settembre 2011» che rendano «più stringenti le regole di bilancio». Per questo si prevede «il bilancio in pareggio nel 2013 principalmente attraverso tagli di spesa», ma pure interventi «nel sistema pensionistico rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo risparmi di spesa già nel 2012. Inoltre il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi». Ma perché non riformare anche «il sistema di contrattazione salariale collettiva permettendo accordi a livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto agli altri livelli di negoziazione»? Da ultimo c’è la richiesta, che poi Mario Draghi ha chiamato del «pilota automatico», d’inserire la clausola per cui un eventuale sforamento degli obiettivi concordati con le autorità monetarie europee venga «compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali», come ad esempio con l’aumento dell’IVA, così da esautorare il Parlamento da prendere qualsiasi decisione in merito (è la cosiddetta “clausola di salvaguardia” che sarà pure introdotta dal governo Berlusconi e poi confermata dai successivi governi Monti, Letta e Renzi).
A fronte di tanto ultimatum Berlusconi sul momento fa lo gnorri, lasciando trascorrere la scadenza di settembre senza prendere provvedimenti. Ma mal gliene incoglie perché intanto viene resa pubblica la lettera del 5 agosto, così che tutti i cittadini sappiano del suo “delitto”, e poi tra 20 settembre e 8 ottobre le tre agenzie internazionali di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) lanciano una vera e propria offensiva finanziaria declassando il debito pubblico italiano, così da suggerire agli investitori internazionali di trasferire i propri capitali su altri titoli pubblici più sicuri, come ad esempio quelli tedeschi. Per richiamarli su di sé al governo italiano non resta che offrire tassi d’interesse più elevati di quelli tedeschi (è il premio per l’assunzione di un maggior rischio), così che il differenziale di rendimento dei BTP decennali rispetto ai Bund equivalenti trapassa dai 180 punti di maggio ai 575 di novembre con un «caro-spread costato all’Italia 4 miliardi di interessi in più sul debito», come valutano i giornalisti (R.,14.11.201). L’alternativa, per non subire il ricatto finanziario, sarebbe quella di proclamare il default, ossia di rinunciare ad “onorare” i propri debitori, come aveva fatto l’Argentina nel 2002 con gli italiani creditori che stanno ancora leccandosi le ferite, ma poi chi è che finanzia più il debito pubblico nazionale? Comunque che una combine internazionale ci sia stata per manipolare il mercato dei titoli pubblici italiani è sospetto molto probabile, tanto che la magistratura di Trani vorrà vederci chiaro investigando, almeno, su Standard & Poor’s e Deutsche Bank (R., 7.5.2016).
A stringere comunque Berlusconi alle corde provvede la cancelliera tedesca, secondo il retroscena ricostruito dal “Wall Street Journal”, telefonando il 20 ottobre a Napolitano perché si decida a sostituirlo con quel Mario Monti ormai in panchina (naturalmente Napolitano ha smentito, ma la Merkel no) (R., 31.12.2011). Seguono i due vertici internazionali che fanno precipitare la situazione: a Bruxelles, il 23 ottobre, Sarkozy e Merkel concedono a Berlusconi solo «tre giorni di tempo» per adottare i provvedimenti che gli sono stati imposti – e tutti ricordano la risatina ironica tra i due alla domanda di un giornalista se si fidino ancora del premier italiano (R., 24.10.2011); e poi a Cannes, il 3 novembre, con la Merkel che a un Berlusconi ormai «disarmato e nudo» «grida in faccia: la crisi [dell’euro] è colpa tua» (R., 31.12.2011).
E arriviamo così ai «dieci giorni che sconvolsero l’Italia», secondo il titolo del retroscena di R., 20.11.2012 (in seguito si sono aggiunti solo dettagli insignificanti): «questa crisi – ammette il leghista Roberto Maroni – è come quel meteorite che ha provocato l’estinzione dei dinosauri. Da questo momento in poi ogni cosa sarà diversa». Si comincia l’8 novembre con Napolitano che minaccia di spedire l’esecutivo davanti alle Camere per un voto di fiducia se non arriveranno le dimissioni di Berlusconi dopo l’approvazione della legge di stabilità. Il giorno dopo, per far vedere che non si scherza più, sulla Borsa si scatena una tempesta speculativa che le fa perdere il 4,6%, mentre lo spread arriva ai 575 punti e il tasso d’interesse dei BTP supera il 7%, – e solo quando Napolitano con due comunicati ufficiali garantisce che Berlusconi se ne andrà, il mercato si calma e la Borsa può chiudere a -3.8%, ma con i titoli Mediaset che perdono il 12% (R., 10.11.2011). Nello stesso giorno il capo dello Stato gioca la carta che aveva finora tenuta nascosta e «nomina senatore a vita Mario Monti nella sorpresa generale, una mossa che si rivelerà decisiva e che farà precipitare la crisi verso l’incarico al professore». Nella compagine governativa c’è però ancora Umberto Bossi che vorrebbe fare resistenza, ma una telefonata allarmata di Ennio Doris lo gela: sono tutti in riunione e Berlusconi «prova a scherzare e aziona il vivavoce. Doris non lo capisce ed esplode il dramma: “Silvio, ti supplico. Devi andartene, lascia. Se continua così perdiamo tutte le aziende”. L’interlocutore non sorride più. Balbetta e poi tenta una difesa: “Ma la Lega non vuole, se lascio si rompe l’alleanza con Bossi”. “Ma che t’importa della Lega – gli risponde Doris – Pensa alle aziende”. Il senatur si alza e se va». Per Berlusconi è la fine. Il 12 novembre è votata la legge di stabilità e sul tavolo di Napolitano arrivano le sue dimissioni “volontarie”.
E’ domenica 13 novembre quando il Capo dello Stato può finalmente dare l’incarico di formare il governo al neo-senatore Mario Monti, così che quella investitura non risulta per niente extra-parlamentare. Restano ancora piccole scaramucce sulla scelta dei ministri, ma il più è fatto e il 16 novembre il nuovo governo giura nelle mani del “regista” Napolitano. Come si racconta nel retroscena giornalistico, «a quel punto il “mondo era davvero sconvolto” e il “meteorite” aveva colpito il “pianeta della Seconda Repubblica”» (R., 20.11.2012). Più prosaicamente, il complotto di “re Giorgio”, preparato con tanta fatica, si era consumato.