“Il cerchio di gesso”: una rivista bolognese nel movimento del ’77
di Paolo Pullega
Questo testo, in versione più ridotta, è stato pubblicato in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna: 1968-2007. Arti, comunicazione, controculture, vol. III, Bologna, CLUEB, 2007. Ringrazio Giorgio Gattei che ha voluto recuperare questo mio intervento e mi ha aiutato a integrarne il contenuto.
Negli ultimi mesi del 1976 Gianni Scalia ricevette la proposta, da parte di un gruppo di giovani, di realizzare una rivista. Lo avevano avvicinato Roberto Bergamini, un fisico dell’Università di Bologna, e Giulio Forconi che lavorava come redattore alla casa editrice Zanichelli.
La proposta di cui si facevano portatori era, secondo quanto mi disse allora Scalia, di realizzare una rivista di dibattito culturale e politico, di interesse locale, e in chiave di attualità. Scalia stava allora uscendo dall’esperienza di «Per la critica» (1973-1974), una rivista uscita in otto numeri (con due numeri doppi), fortemente contrassegnata da un punto di vista teorico, ma proprio per questo condannata a una vita difficile per il dibattito interno, molto acceso, che la contrassegnava. Rivedendola oggi, «Per la critica» appare un caso molto significativo di rivista di formazione di giovani tutti destinati in certo modo a diventare noti e capaci di esprimere, nel seguito della loro carriera intellettuale, un forte interesse teorico. La gestione di «Per la critica» doveva però essere stata per Scalia particolarmente defatigante, e l’idea di concluderla credo gli facesse apprezzare l’opportunità della proposta di formare una nuova rivista, più del contenuto del progetto in sé.
Mi raccontò che le sue intenzioni rimanevano comunque poco legate all’attualità ed alla dimensione locale. Voleva fare una rivista da non più di trecento copie, molto ragionata, esclusiva per il livello – senza limiti o riserve – del dibattito teorico che avrebbe dovuto contenere. In definitiva, la sua idea in quel momento mi sembrava piuttosto simile a quanto aveva cercato di realizzare con «Per la critica» con, forse, una più definita inclinazione hegelo-marxista. In quegli anni Scalia era un lettore formidabile di Marx in chiave hegeliana, dei Grundrisse, quindi, e della Corrispondenza a/con Engels ma con una lettura in parallelo di Hegel. L’idea prevalente era quella di ricavarne un Marx non marxista e della possibilità di una elaborazione teorica lontana dagli schemi del materialismo storico o dialettico (il famigerato Diamat).
Dagli incontri che Scalia ebbe con i suoi interlocutori, uscì vincente la sua idea, così che il progetto che si portò avanti fu quello della rivista da “trecento copie”, per usare la sua espressione. Gianni incominciò a rivolgersi alla lunga schiera dei suoi amici. Insieme andammo a Milano, a casa di Roberto ed Armanda Guiducci, che aderirono immediatamente, sedotti dalle suggestioni di Scalia per il quale dimostravano grande stima. Pietro Bonfiglioli, con il suo inseparabile Vittorio Boarini, e Federico Stame, con cui Scalia aveva diviso l’esperienza della rivista «Classe e stato» (1965-1968), si dimostrarono disponibili, con diversi gradi di moderata riluttanza.
Fu mentre preparavamo i nostri testi per il primo numero della rivista, che avvennero i “fatti del marzo ’77”: dallo scandalo Lockheed alla messa sotto accusa dei principali notabili della DC, dal ventilato passaggio del PCI nella maggioranza di governo ai disordini bolognesi dell’11-12 marzo a seguito dell’uccisione dello studente Francesco Lorusso da parte delle forze dell’ordine, fino al terribile conato insurrezionale del 12 marzo a Roma.
Se tutti questi avvenimenti da un lato spazzarono via le riluttanze residue, dall’altro determinarono l’orientamento della rivista che, da periodico teorico ed esclusivo, divenne una rivista di notevole seguito (raggiungendo dalle cinquemila alle ottomila copie, pur rimanendo sempre distribuita in un ambito estremamente limitato). La sua collocazione fu indubbiamente quella di dare voce ed interpretazione ai “fatti di marzo”, e di raccogliere l’adesione dei pochi intellettuali che in quel momento non si sentivano sedotti dal gusto di lanciarsi sul carro del vincitore, ma, al contrario, vedevano nella modalità di cambiamento del quadro politico, con la prospettiva del “compromesso storico” portato avanti dalla dirigenza PCI, una preoccupante ipoteca. Sotto questo aspetto, riletta ora, la rivista appare sorprendentemente equilibrata e preveggente, ma il vantaggio di cui godette chi vi scrisse fu solo quello di essere collocato al centro degli avvenimenti.
A guardare la composizione dei collaboratori, si nota come vi s’incontrassero tre generazioni intellettuali. La prima, impersonata da Scalia, Bonfiglioli, Stame, Roversi, apparteneva ad un momento di formazione precedente il ’68. Erano le figure più ascoltate e prestigiose, la cui preparazione teorica rimase sempre ben definita, ed in primo piano, negli incontri di redazione e anche nei numeri a cui non parteciparono direttamente le loro posizioni erano ben presenti. Il secondo gruppo era costituito dalla generazione formatasi nel ’68: Pietro Bellasi, Giorgio Gattei, Bernardino Farolfi, Franco Berardi, io stesso e altri. La terza generazione era invece costituita dai “settantasettini”, i giovani e giovanissimi del movimento che trovarono spazio nella rivista senza difficoltà, e che avevano in Maurizio Maldini, che partecipava alla redazione e si occupava dell’amministrazione della rivista, una rappresentanza stabile.
Le linee dell’interpretazione che la rivista dette, nelle sue linee generali, agli avvenimenti si possono riassumere in alcuni punti. In primo luogo appariva abbastanza chiaro che i fatti bolognesi di marzo non avevano un’origine e quindi una spiegazione soltanto locali. La formazione di un movimento studentesco combattivo non era in realtà alla loro origine. I “fatti” nascevano altrove, nel braccio di ferro che si stava svolgendo a Roma, tra un PCI che tentava di entrare nella maggioranza con le residue illusioni di portarvi il proprio patrimonio morale, più ancor che politico, e una DC che tentava di rinnovare l’operazione, così brillantemente conclusa con il PSI, di coinvolgere in un centrosinistra più allargato un nuovo alleato (e che alleato!), lasciandogli lo spazio per l’illusione di un cambiamento, ma in effetti assorbendolo nella proprie modalità di gestione del potere. Come dimostrerà poi la vicenda di Tangentopoli, i socialisti erano già nel 1977 sulla via di superare i loro maestri democristiani: il “caso Lockheed” era emblematico tanto dell’ingenuità con cui il gruppo dirigente, raccolto intorno a Berlinguer, tentava di avviare al processo gli stessi interlocutori politici con cui intendeva allearsi, quanto della determinazione dei democristiani a non cambiare pelle, e piuttosto farla assumere ai futuri alleati. Le parole di Moro «non ci faremo processare nelle piazze», a tre giorni dalla manifestazione romana indetta per il 12 marzo, riassumono il senso di quel contrasto.
Per pareggiare i conti, Bologna, la capitale del “modello emiliano”, divenne il luogo designato. In effetti durante i disordini il comportamento della polizia fu di una sconcertante evidenza: l’impegno non sembrò tanto quello di sedare i movimenti di piazza ma, al contrario, di provocarli e di alimentarli. Fu un caso in cui l’osservazione diretta non è sostituibile: se gli studenti assalivano un’armeria, era dato loro tutto il tempo di farlo, anche se un robusto contingente di polizia era nelle vicinanze; se veniva assalito un ristorante centrale e le sue cantine svuotate, gli studenti venivano poi pescati a uno a uno e soltanto dopo, mentre se ne stavano a godere ingenuamente per strada il loro bottino.
Lo spettacolo di Via Zamboni era surreale: l’odore dei lacrimogeni, quello dei resti dei banchi delle aule universitarie bruciati emettevano un odore di fumo che si confondeva con quello del vino che si era riversato sul selciato dalle bottiglie rotte o aperte, bevute in parte e poi abbandonate. Per alcuni giorni e alcune notti questo spettacolo continuò, senza un senso apparente. Il giorno dopo l’uccisione di Lorusso, la contrapposizione tra polizia e studenti si ripropose: i poliziotti ricomparivano, riversando sulle barricate lacrimogeni a volontà, ma evitando di liberare la zona universitaria, e contro di loro gli studenti opponevano gli incendi delle barricate. Le pistole e le altre armi prese dall’armeria saccheggiata circolavano e le si potevano vedere in mano agli studenti, ma non ebbero un ruolo nei disordini. I loro numeri di matricola ritornarono invece nei mesi e negli anni seguenti, in quanto i “fatti di marzo” si rivelarono un momento di formazione della seconda o terza generazione di brigatisti rossi. In effetti, fino ad allora Bologna era stata estranea al reclutamento dei brigatisti, ma dopo marzo il quadro cambiò: il marzo bolognese si dimostrò una buona scuola di violenza, non ultima conseguenza dell’accordo politico che si stava definendo su di esso.
L’anomalia della realtà a cui si stava assistendo era piuttosto evidente: si diceva che la maggior parte degli agenti disponibili era stata inviata a Roma per la manifestazione del 12 marzo, e certo questo poteva spiegare il mancato intervento risolutorio dell’11, ma non l’atteggiamento provocatorio della polizia che intervenne pesantemente dal pomeriggio successivo con l’occupazione manu militari della zona universitaria (senza comunque che ci fossero vittime) e la chiusura in diretta radiofonica di “Radio Alice”.
Un buon indice di quanto stava succedendo ci sembrò l’atteggiamento del sindaco di Bologna Renato Zangheri, tra l’altro professore universitario: la sua prima reazione fu quella di denunciare la provocazione e condannare la violenza spropositata della forze dell’ordine; poi, nel giro di dodici ore, il significato di quella provocazione/violenza fu rovesciato e il tutto attribuito alla responsabilità degli studenti. Molti anni dopo, all’inizio degli anni Novanta, Zangheri fu disposto a parlare, in un incontro al circolo «Simone Weil» di Bologna, dei “fatti di marzo”. E quando, alla fine del suo intervento, gli ricordai il suo cambiamento di atteggiamento di quei giorni e gli chiesi direttamente se fosse stato dovuto ad un qualche input di partito, con sorprendente sincerità non ebbe alcuna difficoltà a riconoscere che effettivamente le cose erano andate così. Ma allora Zangheri era ormai del tutto fuori gioco e viveva appartato a Imola, dedito a scrivere i due volumi della Storia del socialismo italiano (dalla Rivoluzione francese ai Fasci siciliani) poi pubblicati da Einaudi nel 1993 e 1997.
Questo quadro di riferimento e l’interpretazione che il gruppo raccolto intorno alla rivista ne diede, non è da considerare un semplice sfondo: fu invece determinante per definirne il carattere e le posizioni. Chi vi partecipò si sentì come spinto, se non costretto, a prendere le posizioni che assunse, per essere al centro di una situazione che, al contrario, veniva descritta e presentata in tutt’altra chiave. E la vita dell’intera rivista fu contrassegnata da questa impronta, tanto che, quando Bologna due anni dopo, col sequestro e omicidio di Aldo Moro, non fu più al centro degli avvenimenti, il gruppo si sciolse per il semplice riconoscimento di non avere più nient’altro da dire.
Sui “fatti di marzo” il gruppo prese subito una posizione spontaneamente uniforme, e prima ancora di pubblicare il primo numero, nel giugno del 1977, stese un “Documento per Radio Alice” (uscito su quello stesso primo numero) che raccolse un notevole elenco di adesioni. La stesura fu di Pietro Bonfiglioli, con una rilettura di altri, tra cui Federico Stame. Il testo era volutamente moderato, per favorire le adesioni più aperte, nel senso che in un clima così acceso Bonfiglioli mise il punto soprattutto sulle questioni di principio, senza accentuare la posizione in senso politico. Ci trovammo nell’ufficio di Vittorio Boarini, alla Cineteca di Bologna, e da lì cominciammo a telefonare leggendo il testo e raccogliendo adesioni. L’elenco di chi aderì al manifesto può forse dire qualcosa oggi; tra gli assenti spiccò Umberto Eco, professore all’Università di Bologna, che rifiutò di firmare, richiamandosi poi – in un suo intervento specifico su quei “fatti” – al concetto di ‘dissimulazione onesta’ citando Torquato Accetto.
Il primo numero porta l’impronta dei “fatti di marzo”, a partire dal titolo e dalla copertina che riproduceva i fori delle pallottole sui muri di via Mascarella, a prova che Francesco Lorusso non era stato certamente colpito da una pallottola vagante se quel muro era letteralmente crivellato di buchi. Anche il titolo nasceva da quel muro. Al titolo pensò Gianni Scalia, che come titolista era straordinario: ce ne propose una serie, ma ci suggerì «Il cerchio di gesso» da subito. Anche se ricordava Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht, un autore poco amato, convinse tutti. Se si scorre il primo numero, la duplice origine della rivista diventa evidente. Lo caratterizza un doppio tipo di interventi: alcuni direttamente sui “fatti di marzo”, altri del tutto teorici, straniati dalla situazione, in gran parte retaggio di quella impostazione iniziale da rivista “da trecento copie” con cui si era partiti.
Nel settembre dello stesso anno, in coincidenza con il grande meeting organizzato dagli studenti nella “città più libera del mondo” (come allora si disse), la rivista pubblicò un numero particolare, una «agenda», nel senso di “cose da fare” (fu ancora Scalia l’ideatore), stampata in offset e interamente dedicata al movimento studentesco. Il secondo e il terzo numero, del dicembre 1977 e del marzo 1978, continuarono a sviluppare l’elaborazione del movimento: costante era l’analisi della situazione politica del momento in una chiave il più possibile allargata dal punto di vista teorico. Il terzo numero rispondeva tuttavia a una situazione che si era andata nei mesi modificando. Fu infatti allora che si attuò la rottura di Gianni Scalia con il resto della rivista. Nata da una sua idea, la rivista aveva preso un’autonomia non prevista, che il protagonismo di Gianni non accettò. Ruppe con tutti, anche con il suo amico di sempre Pietro Bonfiglioli, che prese le distanze da lui in una riunione molto tesa; fu seguito dal solo Roberto Bergamini.
Scalia se ne andò con una lettera di addio pubblicata nel terzo numero della rivista. La motivazione era involuta, in certo modo da “dissenziente dai dissenzienti”, ma non è escluso neppure il timore di una stretta poliziesca che era nell’aria (si sarebbe poi perfezionata nei fatti dopo il sequestro/omicidio di Aldo Moro). Comunque, a rileggerla adesso, sembra che questa sia stata l’interpretazione che allora ne diede la redazione se, a commento della lettera, si legge che «con Scalia conveniamo che evadere, mentre il cerchio si stringe, è un modo sicuro di sottrarsi a pressioni e contingenze politiche: sicuro e prudente per chi, al momento della stretta, dovrà rendere conto solo della propria frequentazione dei classici». Si deve pensare che queste parole provenissero da Pietro Bonfiglioli, il solo che, per la sua frequentazione, potesse ‘permettersi’ di rivolgersi a Scalia in termini così duri. Le sue parole tuttavia avevano anche il significato d’interpretare l’uscita di Scalia con ragioni meno personalistiche di quanto (forse) in realtà non fossero.
L’ostilità sempre più forte, espressa in quei mesi contro la rivista, proveniva dall’area comunista. La base comunista sembrava avere aderito con sorprendente rapidità alla prospettiva di passaggio nella maggioranza: verosimilmente, chi dissentiva taceva, ma in una città come Bologna, che dava il voto, almeno per il cinquanta per cento, al PCI, la prospettiva del passaggio nella maggioranza di governo apriva suggestioni fortissime nell’ampio settore dei militanti inseriti nelle strutture del partito. La missione, neppure tanto nascosta, era di allargare l’area del proprio potere, e di porsi in grado di godere degli ampi vantaggi forniti dallo stare diventando finalmente nei fatti “partito di governo” e non soltanto “di lotta”. Più che da parte dei dirigenti, già ben posizionati, questa smania si avvertiva soprattutto nei quadri intermedi e più bassi, allettati dalle prospettive di un maggior arco di posti da occupare in tempi brevi. Fu una sensazione che doveva poi ritornare molti anni dopo, con la svolta della Bolognina del 1989 ed il congresso costitutivo del Partito Democratico (allora ancora) di Sinistra a Rimini nel 1991, emblematicamente raccolta nello scherno di alcuni militanti di fronte all’intervento di un ‘nostalgico’ che aveva avanzato positivamente un richiamo all’ideologia comunista.
Ma s’è corso troppo avanti. Un caso a sé fu l’intervento di Alberto Asor Rosa al primo numero del «Cerchio di gesso» che si confrontò direttamente con le posizioni della rivista, ed il fatto che fosse ospitato sulla prima pagina de «l’Unità» del 23 luglio 1977 dà la misura, da un lato, del grado di riconoscimento (attualmente negativo) raggiunto dalla rivista, ma dall’altro anche di una maggiore disponibilità da parte della struttura centrale di partito, che tentò pure una mediazione inviando Fabio Mussi a Bologna in un incontro, cui venne invitato anche Federico Stame, tenutosi al circolo Gramsci, ma senza costrutto. L’intervento di Asor Rosa colpì comunque la redazione della rivista: Pietro Bonfiglioli osservò che era probabilmente dagli anni di Vittorini e del suo dibattito con Togliatti che la cosa non avveniva. Si pose così il problema di rispondere, e il compito finì a me, che accettai chiedendo la supervisione di Bonfiglioli. Leggendo l’intervento di Asor Rosa, avevo mentalmente appuntato gli argomenti di contestazione. Consegnai l’articolo a Pietro, che alla riunione successiva lo lesse ad alta voce, insieme alle sue osservazioni. La lettura ad alta voce era per Pietro una pratica consueta, che gli proveniva dall’insegnamento: l’aveva sviluppata con una modalità recitante, nella quale si avvertiva anche il grado di comprensione del testo. Per quel che ricordo le sue obiezioni furono poche, e con la sua messa a punto l’articolo uscì su «l’Unità» dell’11 agosto.
Comunque nell’Agenda di settembre fu lo stesso Bonfiglioli a rivendicare il ‘non luogo a procedere’ in una replica a Giorgio Napolitano che su «l’Unità» del 28 agosto aveva «già calato con brutale autorevolezza le sue condizioni: il confronto (secondo il gergo del sinistrese pluralistico) dovrà essere proseguito ‘con forze realmente rappresentative’ (come noi non siamo e non vogliamo essere) e con quegli intellettuali che non rifiutano di ‘sporcarsi le mani’. La metafora è limpida: Napolitano si riferisce agli intellettuali che accettano di anticipare nelle istituzioni il nuovo potere, facendosi procuratori del compromesso con i rappresentanti del potere di sempre… Ci ricordano i nostri critici che è tempo di governare, non di criticare. Se ci fosse concesso di parafrasare il ‘vecchio’ Rousseau, risponderemmo che non siamo né principi né legislatori, perciò pratichiamo la critica».
A livello bolognese, all’ostilità comunista corrispose invece un atteggiamento più conciliante da parte socialista: i socialisti locali tentarono anche un coinvolgimento che ebbe come risultato semplicemente un incontro garbato ma chiarificatorio delle diverse posizioni, senza comunque che altro ne seguisse.
Il quarto numero (ottobre 1978) uscì con la questione del “caso Moro” già ampiamente aperta. Il tema del momento era la contrapposizione al cosiddetto “partito della fermezza” ed alle sue ambiguità: come poi risulterà, alla fermezza corrispose l’inerzia investigativa, ed alla “difesa della democrazia” corrispose un’operazione di vago sapore internazionale dei Servizi Segreti. Il “caso Moro”, con i suoi strascichi, vide il gruppo ancora unito. La divisione subentrò invece con il “caso Negri”, quando Toni Negri venne accusato dapprima di essere a capo delle Brigate Rosse, e poi addirittura il telefonista del “caso Moro”. Non era semplice difendere Toni Negri: la divisione all’interno della rivista si articolò fra chi manteneva comunque la necessità di ribadire la difesa dei principi del dissenso e della normalità dei valori, e chi, pur d’accordo, era preoccupato che questa presa di posizione si prestasse a strumentalizzazioni politiche fin troppo facili (era l’epoca della “caccia alle streghe” dei cosiddetti “fiancheggiatori”).
Su questo dibattito venne costruito l’ultimo numero (doppio) della rivista, al quale non tutti i collaboratori tradizionali parteciparono: fu però, quel dibattito, l’occasione anche per fare i conti con il ritorno di Bologna in una posizione periferica; ora tutto era tornato a svolgersi altrove. Senza difficoltà e quasi con sollievo, redattori e collaboratori stabilirono serenamente che non era più il caso di andare oltre: quello che avevano avuto da dire era stato detto, bene o male che fosse stato. Non restava che riprendere ad accudire e coltivare il proprio orticello e le proprie idee.
APPENDICE (per una interpretazione “autentica”)
PIETRO BONFIGLIOLI
A partire da quei buchi di pallottola
(dal “Quotidiano dei lavoratori”, 27 marzo 1979)
Da tempo qualcuno di noi, voglio dire i più vecchi e i meno giovani, aveva rivolto l’attenzione critica alla forma socializzata del capitalismo maturo, che coinvolgeva anche il nostro paese assumendo le figure teorico-pratiche del compromesso storico, dell’autonomia del politico, dell’unanimismo partecipativo; insomma della società totale. Ci sembrava che in questa forma ‘democratica’ e pienamente socializzata del potere si compisse da una parte la dissoluzione del politico nel sociale (ci soccorrevano nell’analisi gli strumenti della microfisica foucaultiana), dall’altra la riduzione del sociale al politico, vale a dire la ritualizzazione e istituzionalizzazione del sociale come organizzazione politica del consenso (un fenomeno descrivibile, almeno in parte, attraverso il discorso ‘francofortese’ sulla ratio trasformatrice della lotta di classe in una controllata conflittualità corporativa, e sul dominio in quanto potere consensuale specifico della società di massa). Così descritta, la società totale poteva ancora armonizzare ordine e anarchia, repressione e libertà, presentandosi come incontraddittoria. In questa nebulosa ci sembrava difficile individuare la figura generale e ultima della contraddizione. Respingevamo il riduzionismo operaistico e l’intera tradizione del marxismo, a cui si collegavano l’automatismo dialettico del rapporto struttura-sovrastruttura, la funzione demiurgica dell’avanguardia politica organizzata, del partito come ‘nuovo principe’, le aberrazioni totalizzanti e giacobine dello ‘Stato proletario’. Non avevamo atteso i ‘nuovi filosofi’ per questo. Ma, a differenza dei ‘nuovi filosofi’ non intendevamo rinunciare alla critica dell’economia politica. Qualche idea, utile a definire la linea della contraddizione, ci veniva dalle analisi teoriche dello ‘Stato capitalistico’ (Offe, O’Connor) che nello Stato moderno vedono il regolatore generale del ciclo produttivo attraverso i meccanismi istituzionalizzati della selezione e della emarginazione.
Ma solo nel ‘movimento del ‘77’ dovevamo riconoscere l’evento sintomatico che ci trascinava con violenza al centro della contraddizione. Al centro del cerchio. Se la condizione costitutiva della società totale era l’esclusione della critica, se l’equivalenza del sociale e del politico si produceva come organizzazione del consenso, suscitando per di più, in uno specchio rovesciato di se stessa, la reazione del ‘partito armato’, l’attentato terroristico al sociale, allora la contraddizione poteva manifestarsi solo fuori del sociale, nell’esistenza non socializzabile degli esclusi. Fuori non altrove. Viene dal movimento femminista la felice intuizione teorica dell’‘emarginazione al centro’. Altri, senza trarne le debite conseguenze, ha parlato di ‘seconda società’. Il fuori è il luogo irreale della esclusione, il prodotto di una società che si fa totale escludendo da sé, dalla propria realtà socializzata e assoluta, ciò che non rientra nei criteri funzionali della socializzazione. Di questo antagonismo il movimento giovanile è stato il sintomo emergente. Come sintomo, non era traducibile nei segni di un discorso d’ordine; al contrario, esso velava nella materialità sociale dell’esclusione un male così vasto e profondo che restituiva pienezza di verità al nostro discorso sull’esclusione della critica.
Ecco come nasce Il cerchio di gesso. Non una rivista fiancheggiatrice, ripeto, anche se non potrà mai, senza mancare a se stessa, rinunciare all’apporto dei giovani, impegnati nel movimento, che infatti partecipano largamente anche al lavoro redazionale e in piena autonomia. La crisi del Movimento, o meglio il regime carsico dei suoi percorsi sotterranei e delle sue latenze, ha scarsa influenza sulla continuità della rivista, della quale non si potrà dire che sopravvive a se stessa (come è accaduto ad alcune riviste del ’68 irrigiditesi in una sorta di istituzionalizzazione postuma), almeno fino a quando la contraddizione emergente non avrà superato le forme dell’esclusione. Per il Cerchio, anche se non tutti i redattori e i collaboratori potranno consentire senza riserve, penso giusta la definizione di rivista del dissenso; diversa in questo da tutte le riviste sorte attorno al ’68, come organismi di lotta ideologica, cioè politica e dottrinaria. Qualcuno, che poi ci ha lasciati, ci accusa di non aver saputo spezzare il cerchio, di aver ridotto la violenza dell’antagonismo originario a una pratica difensiva e perfino legalitaria del dissenso. E sia, la rivista respinge da sé le tensioni ideologiche, il settarismo mistico-giacobino che inventa il nemico come demone della corruzione, le nostalgie inconfessate del pensiero totalitario, il moralismo politico che finisce in gulag. Nel porsi al centro del dissenso riconosce i suoi limiti, ma anche la sua necessità.
Il dissenso è critica senza sicurezza, è pensiero del di fuori, che si radica nell’esclusione. La sua fenomenologia è varia; perciò la rivista non ha una ideologia, essendo piuttosto critica dell’ideologia; non ha una linea politica, essendo piuttosto critica della politica; non ha un piano o un futuro di salvezza, essendo piuttosto critica di ogni futurologia rivoluzionaria o soteriologica. In breve, rompe con i miti del ’68, che sono poi quelli realizzati dalla società totale e dallo Stato dei valori.
Eclettismo si è detto. E’ vero, il Cerchio è uno spazio teorico offerto a tutte le pratiche del dissenso. Ma non un semplice contenitore. E’ lo spazio della critica la cui costitutiva assenza di sicurezza dice l’estraneità a qualsiasi garanzia istituzionale; e significa il riconoscimento unificante di uno stato di emergenza che, nel tempo della sua durata, ci spiazza tutti, in quanto portatori della critica, nella irrealtà dell’esclusione. Dunque, al centro del cerchio. Paradossalmente, nel luogo politico della contraddizione e della sua forza.